XVI. Klinios a Kelidonio

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XV XVII


Io misi me stesso alla porta l’altra sera in casa di Melissarion, e tu hai vinto Kelidonio. A mia imagine e me simboleggiando un minuscolo personaggio d’argento e d’ambra, hai raccolto nel tuo grembo, o vittoriosa. Tu sai l’arte complicata ed i fili che gli fanno muovere le membra: e le gambe si aprono e la testa accenna inchinandosi, e li occhi si volgono e le mani compiono il gesto che loro imponi. Il fantoccio sembra un essere vivo. Oh lui fortunato che ti sta nel cavo e caldo grembo e che ti risente! E piega al tuo capriccio! Non sei tu la signora? Ed io non muovo come quello, ubbidiente? Ora vuoi me e l’altro insieme? Non sciorino parlar attico, né retorica per persuaderti. Io sono tuo, prendimi. Tu hai la pelle dorata delle vergini che abitano le spiaggie del mare là vicino alle Sirti ed ai deserti di sabbia, e ch’io vedeva accorrere verso la mia nave se vi approdava, battendo le mani e squassando per allegrezza i crotali di conchiglie. Ed i tuoi capelli rosso d’oro sono composti come un elmetto basso sulla fronte: e le tue sopracilie oscure e sottili si riuniscono quasi lineari e ti suggellano sopra li occhi ed in mente un pensiero ed un sogno astruso ch’io vorrei scifrare. Tu sei una fresca vendemmia di rose e sei sapiente come una perfetta allieva del didascalon di Mitylene. Ed io come sono povero e brutto vicino a te, ed oso guardarti in volto! Tu sei raccolta in te ed oscura, per quanto d’oro: tu persisti per quanto rondine viaggiatrice. Ma posso io saperti? Quale è la parola o la chiave che apre il tuo mistero? L’altra sera, fingendo la danza delle api, forse mi hai presentato l’aspetto tuo vero e recondito. Le gambe unite e strette ti segnavano sul ventre il «van» mistico e fenicio dell’Assira Astarthe, un’ombra d’oro ascendendo pei lati più aperti verso l’ombelico, in triangolo: e le tue braccia nude incrociate sui seni te li proteggevano. Un ronzio insistente annunciava presso di te la pecchia golosa, la tua immobilità meglio ti difendeva dall’importuna che i balzi scomposti ed irragionevoli delle paurose. Nel tuo corpo nudo, ma chiuso e pudico, né meno il raggio del sole avrebbe potuto violando penetrare. Hai tu voluto dirmi che il moscone irritato del mio desiderio non ti avrebbe mai sfiorata?

Oh Kelidonio! Se sopra la chlaenion rossa e gialla getti il tarantinidion di seta aspra e spessa, a coprirti di cenere intessuta e solo ne sporge fuori a metà il volto come la luna scema tra le nuvole, che dice il tuo sorriso di Sfinge scolpita nel basalto chiaro a custodia in sulla porta delle tombe dei nostri avi?

Rispondimi, Kelidonio; fammi morire d’un tratto rifiutando, ma non tenermi in lunga agonia sospeso sul dubio e nella eccitazione. Sospiro e sudo; i miei occhi vedono scintille di fuoco piovere davanti in un nembo rosso, mentre alle orecchie mi crepita un suono indeciso, nel grande silenzio della esedra. Oh il tuo profumo lontano, come di loto libico che abbruci, e che fa per una magica dolcezza dimenticare anche la patria amata!

Vuoi tu Kelidonio prendermi come uno schiavo?