La piccola Kelidonio/XV
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Le lettere erotiche e famigliari d'incerto autore alessandrino (1914)
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Ad epigramma, epigramma; se tu ne’ penetrali della tua casetta hai un’arca secreta in cui conservi queste preziosità equivoche di letteratura per il futuro diletto dei nostri nipoti, chiamalo priapeon ed illustralo del doppio segno della croce ansata, come l’attributo d’Isis, in ossequio alla tua salace curiosità ed al tuo mestiere. Qualcuno poi che sia un rinnovato peripatetico, ti sarà grato, e se non te, chi sa da quanto tempo morta, ringrazierà la tua memoria, per la varia raccolta.
Epimachos, che nacque in questa città, figlio di Paris Komarko, si diede come lui alla magistratura, fu a Roma ed ora se ne torna dikajodate con seguito di scribi e di servi e con bellissima moglie. Gli hanno fatto festa, ma più che a lui a questa; ed essa è una brunettina agile e fresca, piena d’arguzia scintillante come un razzo di fuoco greco, che quando parla manda stelle paradossali per l’aria e col suo fare ora languido ora risoluto ci ha tutti infiammati.
La chiamano Ampelide tant’è minutina ma tenace ed avvolgente come la vite che si abbraccia sopra il tronco di un cipresso; però ella deve essere una Tulla se non romana almeno italica. Dicesi che si pronò appena pubere in certi piccoli teatri chiusi e privati e nelli spettacoli di dopo cena a mimeggiare Myna e Pasiphae e la trasformazione d’Ermaphrodito, per cui ebbe applausi e voga; quindi ascoltando un vecchio senatore abbia messo locanda ben arredata per noi orientali che andiamo alla Città per affari, dove se ne la richiedevamo locava sé col lettuccio.
Non sto a verificare se queste siano più o meno calunnie. Ora Ampelide si è fatto dietro seguito del meglio di vagheggini, risponde con buona grazia, mentre ci schernisce e si difende; accetta doni e non rende mai, fa la donna di conto. Ha gesto moderato, sorriso serio, porta i capelli inanellati da cui non appar studio d’acconciatura, coperti da una cuffiettina decente, ma accresce la prestanza colli alti tacchi de’ coturnetti intieri di cojame dorato, sì ch’ella incede solenne come una Dea.
Ciò, Mnasika, è quanto si vede. La tristizia delli scioperati delusi nel vano corteggiarla fa raccontare invece de’ secreti convegni, di baci preziosi ma incompleti coll’uno, coll’altro, con tutti senza che nessuno possa dire del resto e per conto suo d’averla veramente posseduta. Usa ella inganno? Non è vero quanto dicono? Che ne so io ora che ho imparato a vivere da filosofo e da filosofo giudico li uomini?
Se esci puoi star certa che un chiunque ti si accosta in sulla via e ti sussurri: – Ampelide eh! Povero Epimachos che volle tornarsi in patria con questo regalo di sposa per essere lo zimbello di tutti! Questo, quest’altro e quello, a pena lo vogliano e ne hanno quanto meglio desiderano e le grazie. – Che grazie? dico. – Eh si domanda a loro. – E ride furbescamente. Li interessati se li interroghi si schivano: altri racconta che Ampelide dica ai vagheggini: «Sì tutto è vostro, e li occhi e la bocca e il seno: baciatemi, abbracciatemi, toccatemi e di frodo e seduta ed in piedi, ma non cercate, né sperate mai da me nozze sostanziali». Così li rimanda più incesi e rossi di prima in casa di Melissarion, porto comunque aperto che ha vivi cordiali al loro sofrire e li placa e li raffredda colle buone sorelle che alloggia.
Fatto sta che l’irritazione è al colmo; sì che un anonimo rapsodo l’ha interpretata e fa vendere anche dentro alla basilica ed il pretorio, sotto mano, ed in faccia al magistrato Epimachos le sue tavolette di abete cerato colla canzone. Se la vuoi te la trascrivo:
CONTRO AMPELIDE
Nessuno per certo né ricco né povero
in tutta la città si può vantare
d’aver gustato all’acini maturi
della attorcente Ampelide.
Tutti i golosi stan di sotto al ceppo,
l’abbracciano al pedagno e si graffian le mani,
ma la groppa che impende non declina.
«Così casta è costei?» chiedo stupito.
«Ricusa il sesso ma ti appresta la bocca».
Cfr. Martialis, Lib. IV Epigr. 85.
«Tam casta est, rogo Tais? immo fellat».
Epimachos intanto fa il giudice assennato e non volge il capo come una pescivendola ad ogni stormir di fronda: non ode, ignora. Egli è del resto bell’uomo, alto della persona e sbarbato come un Cesare: gli si presterebbero assai bene il lacticlavio e la corona laureata quando detta sentenza. Vede la casa piena di dovizia e sorride alla mogliettina la quale, non so, ma deve prendere propine da Melissarion per quelle starne in calore che ella suscita bene e che vanno a caderle nel paretajo assai munito di allettamenti. Forse pure Epimachos dal colettore Iginio dell’auro lustrale si fa pagare un tanto, pel buon incremento che dà all’erario destinato ai ristauri di circhi e delli anfiteatri sulle rendite del pornejon; e tutto sta per il meglio, per il principe e per i privati, secondo la destrezza di una feminetta astuta.
In tal modo un magistrato concilia le leggi nella basilica, il benessere in casa, il frutto al dicterion, le offerte all’astarteon, il buon nome alla moglie, la sua comodità nel letto. Guarda se altri sia più fortunato di lui.
Non io certo, o Mnasika, finché mi dovrò rodere le ossa, aspettando il buon avvento di Hermes guidator d’anime, che passando da qui si conduca seco anche quel cuojo vecchio e sdruscito di mio zio. E mentre duro pazienza, un po’ col cinico, lo stoico e l’eleatico, compongo una saggezza che sta con l’indipendenza condendo tutto colla curiosità dei peripatetici e l’arte parassitaria. A che rammentarmi i giorni passati e farmi triste se non possono tornare più? Non sono un annojato, non un astemio, non un impotente, non un rammollito: dunque vedi se mi cruccio dentro pensando che i vecchi babbioni si godono per denaro tutte le mollezze della tavola e del letto e ch’io debba invece aspettare dal caso o dalla natura qualche soddisfazione a’ miei appetiti.
Ier notte di fatti n’ebbi refrigerio in sogno, e perché la cosa è curiosa e piacevole insieme, te la racconto. Melissarion ci aveva raccolti a festino per solennizzare una sua nuova e tenera amica, giuntale in casa poco fa. E dopo le mense, i discorsi, le baje e li scherzi, il mimo ed il resto, ci provammo per iscommesse al Kóttabo. Fu ressa a torno al giuoco; risa per i mal destri, applausi per coloro i quali di un getto pronto e capace facevano risuonare argentinamente i battaghi sulli oxibaphi di bronzo instoriato. Io fui tra i migliori; ma chi tutti superò fu la nuova giovanetta Kelidonio. Ad ogni colpo, sulla testa caprina di Manes cadeva squillando per il peso subito del vino gettatovi il piattello concavo e polito come cappella tornita sopra i seni turgidi di una nutrice; e suscitava ammirazione. Essa impregnava la ankyle con un gesto aggraziato e sicuro, volgendo indietro la mano: si appoggiava sul gomito sinistro fermo al fianco e colla destra descriveva un cerchio largo per mandare al segno il latex. Quando palleggiando il vaso, vi arrotondava a torno la mano a conchiglia e sviluppava di tra le pieghe crocee di un velo leggiero la tornita bianchezza di un suo braccio perfetto, era meraviglia ai nostri occhi che se ne beavano. Sembrava una gladiatrice, sorridente il labro, ma le sopracilie unite sulla fronte senz’arco quasi alli occhi e lineari e la sua gloria ed il clamore che tra noi suscitava potevano venir invidiati dal più destro fromboliere che si presenti ai giuochi sulla arena. Io non mi stancava di rimirarla; colla capigliatura dorata un poco sfatta, colla gamba sinistra tesa sul piede fermo, il corpo raccolto; poi d’un tratto scattare col braccio destro come da una cocca la saetta; gonfiarsi l’omero tondo e lunare ed emergere tra i veli biondi di una Klaenin succinta e sotto al curvo e liquido dardo del vino, inchinarsi la planstinx, percuotere squillando la cervice dura e cornuta del bacchico Manes, rovesciata, dilagando porpore vive sul pavimento infiorato.
A ciascuno di noi Kelidonio aveva vinto la posta: in grembo i ninnoletti d’argento e le belle perle di cristallo pegno del giuoco; per mia parte un anelluccio o testa d’avventurina fu la perdita: ed avrei dato a lei tutto quanto possedeva se mi avesse distinto tra li altri. Ma Klinios il giovane padron di navi sembrava da lei essere preferito ed egli era tutto smancerie e svenevolezze, svolazzandole a torno come un moscone d’estate. Melissarion, da quella buona mammana che è, si consolava del profitto della vincita di cui buona parte le sarebbe toccata. Poi la novizia si sedette coronata di mirto, a godersi la sua gloria.
Per farla breve, il vino bevuto, l’esercizio violento del Kóttabo, il profumo de’ bracieri, la lascivia delle parole, le grazie a pena velate delle fanciulle, tanto mi riscaldarono, che uscito per rincasare, la frescura della notte non dissipò al tutto la mia ebrietà. Tra le imagini confuse, vedeva sorgere l’omero lunare di Kelidonio tra l’alone croceo dei veli e protendersi la forma perfetta del braccio vittorioso, e sotto l’impero di questa visione mi addormentai, e fu ventura dolce.
Glycera intanto si è bene appresa se inragna Philonides: egli è un vecchio otre che ben spremuto può riempire ancora qualche anfora. Da molto non lo vidi, né sapeva dove si fosse cacciato: ora che lo so, il mio chiacchierare lo vorrà raggiungere colle nuvole peripatetiche e metafisiche. Per me salutalo e colli altri.