La piccola Kelidonio/XX
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Le lettere erotiche e famigliari d'incerto autore alessandrino (1914)
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I tuoi consigli, Glycera, vengano a chi pur troppo non volendo né potendo esserne persuaso deve non di meno seguirti; e non mi sono nuovi. Altre volte, fanciulletta, un mio pedagogo, mi intratteneva, sotto la parca ombria di una palma del giardino, in torno ai Libri di Demonassa ed Elephantis. Colui era un giovane già grigio di capelli e stanco delli uomini, delle cose ed anche delli Dei: fuggiasco dalla sua patria portava ovunque con sé l’amarezza dell’esilio e l’incredulità indifferente sopra tutto; ed avendo dolorato stimava or mai ottimo il ridire della vita sua senza perché, e di quella delli altri ripiena di fumo e di baje. Ricredutosi sopra l’ambizione, li onori, l’amore, le virtù e l’amicizia, conservò per tanto il culto alle Kariti ed a Paphia sovrana, proclamando il bel vivere e la callistenia: quindi celiando, al solo ufficio d’intramezzare la filosofia e la danza, Omero e Pindaro, si piegava come un maestrino da discalon cortigianesco ad enumerare i casi d’amore. Testo era Demonassa. La mia verginità solitaria e silenziosa non ne era turbata; né i suoi occhi limpidi e chiari si intorbidavano tenendomi vicina mentre mi spiegava le ipotesi difficili di quella virtuosa; io mi sentiva lieta, e non avrei mai pensato che tali lezioni mi avrebbero potuto servire in a venire; ed egli credeva parlando di dimenticarsi. Sopra di una stella, sorgente dal violetto, un globo di cristallo basilidiano rispecchiava il cielo, li alberi radi, la breve costa gialla e nuda erta sul mare, ripida e tagliente come la lama di una scimitarra, la bianca immobilità delle nuvole, il volo nero ed acuto delli uccelli: il nostro piccolo mondo. Dalla vasca prossima d’un balzo emergevano alcuni pesci dorati che un navigatore ci aveva portati da paesi stranieri dove li uomini hanno raso il cranio e dal cucuzzolo lasciano cadere una lunga coda di crini neri: ed i pesci balzando bevevan aria un istante, subito scomparsi tra le muffe e li scogli artificiali. Un pavone occhieggiava colla coda ricamata di soli verdi azzurri e d’oro; Edonio la schiavetta filava in un canto sotto la pergola lane gialle oscure e rosse; il bruno Ennapion sarchiava in torno ai gambi del zafferano, brunito come un rame usato; e Zena, la vecchietta, la nutrice, la parente forse, chi lo sa, tutta rughe ed attenzioni traversava il piccolo viale di cui l’arene scricchiolavano sotto la suola di legno de’ sandali rustici e veniva verso di noi portandoci fresche bevande d’acqua di rose e di neve per dissetarci. Dopo una mia risata, il sorriso del maestro, e dall’orto vicino il raglio del grosso asino grigio del gastaldo di Pôs.
Ma ancora sono queste, o Glycera, le fantasime che mi inviti di fugare e dalle quali io sono assediata: e che importa a voi se io le descrivo? Le tue assai chiare parole mi indicano la nuova via: silenziosamente, forse per non turbarmi troppo ma con maggior sollecitudine sento da presso Melissarion a confermarvimi. E che so io di me, ripeto, per poter eleggere l’una cosa o l’altra? E poi che sono queste due cose? E come sono io libera di fare questo o più tosto quello? Quando avrò compiuto il giro dieciasette o venti o venticinque volte attorno alla meta rossa del sole e tanto tempo così sarà trascorso, o mia piccola Kelidonio, tu sarai morta e sarai cenere. Perché a pena dopo il primo nostro vagito è buja la corsa della esistenza e già dal nascere la fiaccola della vita tremula, fumiga, si piega e geme al vento, ed è miracolo se tosto non si spenga.
Certo avete ragione: tu, Glycera, e la poco lontana da te Mnasika e questa mia Melissarion. Del resto che posso io avere ora di più che non abbia, uscita dal pericolo del mare e della foresta, dalle mani de’ ladroni come tu sai, dalle fiamme dell’incendio, dall’amore incompleto e mutilo di chi piango ahimé morto o, se non morto, veramente scomparso per me? Ed era nuda, affamata, gelata, insanguinata ed ora ho le cure e le attenzioni di chi reputo più che sorella od amica, mammina. Non passa giorno ch’ella non mi colmi della sua benevolenza: e mi manda a torno in pompa e con seguito di fanti e quando invita mi fa regina del festino. Anche jeri mi ha donato un tarantinidion trasparente ricamato a rose rosse e gialle pe’ miei capelli, una luna scema d’elettro che alle fiamme inquiete delle lucerne scintilla più dell’oro: per le mani essenza d’Egitto; olio di serpillo pei seni, che si inguentino inturgidendosi: odor fenicio per le gote e per il cavo delle ascelle acqua di maggiorana.
Poi quando il vespero si attarda in questa bella stagione ci apre le porte e ci lascia uscire tutte come uno stormo di passeri ciarlieri sulla gettata. Qui il concorso è grande, la folla spessa e rumorosa di chi lavora e di chi ozieggia colle mani fasciate nelle pieghe della veste, di chi guarda, motteggia, sorride e ci invita.
Presto sono li Aloa, e sul biondo Adômus verranno a piangere le donne portando i canestri fioriti: presto si tagliano le messi, ed Isis ed Aphrodite qui confondono le loro feste. Vi è costume di strenne, di regali, di inviti a cena. I giovinetti innamorati, mi dice Philo, che sta con noi da Melissarion e che mi piace, mandano schiavi mentitori e ben fessi di lingua al padre per raccontargli qualche paurosa menzogna, ond’egli invii denaro da godersi in gozzoviglie colle amiche: o furibondi, stracciandosi la stola spaventano la mamma e la minacciano di ingaggiarsi soldati di marina se non dimette la solita avarizia: e quando hanno ottenuto ciò che vogliono sull’amore e sul pianto della poverina vengono da noi. Tu puoi quindi pensare se tutte le ragazze in questi giorni di vigilie e di conviti pei piccoli misteri di Demeter non si mettono in sciali, si studiano di vincersi in bellezza ed in grazia, con abiti migliori e con gioje più ricche, cercando di sorpassarsi a vicenda. Vanno per la lunga via che dal porto ascende all’Akropoli la quale si affaccia dietro un arco di trionfo di marmo roseo e giallo. A tratti a tratti, dalle colonne delle case, a traversare la strada, scendono delle tende o brune od azzurre, o porporine o delle pelli di cammello e di sotto i mercatanti sfanno l’involti e scoperchiano le casse delle loro mercatanzie le più preziose e le più belle che tu puoi vedere, la cupidigia sciorinata davanti a noi che non ci saziamo mai di ammirare. Poi si riversano sulle pietre lisce dei larghi passeggi della gettata; si volgono indietro ad osservare se alcuno le seguiti, ed occhieggiano, si sollevano lo strascico sulle gambe, o lasciano frusciare prolisso suscitando polvere. Il rumore de’ sandaletti, delle scarpette, delle ciabatte, de’ coturni che battono il suolo ricopre il risucchio del mare, il ciapottare dell’onde molli sotto lo scafo delle liburne. Le venditrici di miglio, d’uova, di legumi, le mercantesse di aglio e d’arancie colle loro ceste in capo gridano la merce e ne importunano: chi reca rose le ha disposte in canestri lunghi da cui i bei fiori agonizzanti reclinano il capo. L’aquajuolo invita a bere e le secchie ripiene a mezzo dondolano dalla sua spalla l’una di qua l’altra di là a capo di una pertica; non si rizzano marziali come le altre sul basto dell’asino, cigolando e rispecchiando nel loro metallo il vespero per via. I facchini intanto rincasano, l’ultimi navicellai tirano in secco le imbarcazioni leggiere. Abbondano, invece al cader del sole le auletridi, li psilli siriaci, il garzon di bagno, li unguentatori: chi apparecchia le bende per i cadaveri, chi scolpisce le maschere funerarie, le indovine, e furtivamente qualche vecchia esperta e discreta che porta messaggi in secretezza. Se alle volte una carovana di dromedarii curvi sotto le pesanti some scampanella e i mericiattoli che li conducono, la fronte fasciata di bende bianche ed il capo protetto da foglie verdi di palme larghe, bestemiano ed urlano tra la calca per aver passo e strada, vi è tumulto; chi qua chi là sfuggendo sotto i portici o nel vano delle porte. Ciò da pretesto ai giovani di correrci presso per ajuto, e chi ci afferra per un braccio, chi per la vita, tal’altre avventure un gesto più ardito non ributtato certo: i dromedarii rappresentano l’inaspettate fortune delle mature e delle più povere che coi loro acconti concessi sulla strada terminano la disputa in casa guadagnandosi qualche cosa.
Però i belli ed i ricchi ci osservano mentre processioniamo. Dicono ad alta voce il nome delle più ricercate e ne informano li stranieri. Con loro vi è la filosofia a buon mercato, la grammatica che puzza di aglio e di lardo rancido, i retori che vendono parole, ed i concionatori che disputano d’ogni cosa, dal sesso di una mosca alla bottega del barbiere, dalla cerussa nuova che impiega Gôrgo per spianarsi il volto dalle rughe all’ultimo editto del re imperiale. Ecco dall’Astarteion al Faro il passeggio; è un emporium ed una fiera all’incanto di tutte cose e vive e morte; in fondo un muro di pietre grezze ed enormi non cementate imita, mi han detto, il Keramiko se vi si inscrivono le domande e le offerte. Vedi confusione di foggie d’abiti, di gioje; è un volare di stole, di bende, di nastri, di veli; dei flabelli alti di piume s’inchinano, dei barbaglii d’oro corrono; più lento cade un fiore sfogliato se una mano lo lascia sfuggire dalle dita in segno di saluto o di riconoscimento: e calzaretti foderati di pelliccie, e nossidi colorate ed impresse d’argento, e piedi nudi sollevano un polverio spesso fastidioso che si arrossa ai fuochi del tramonto. Chi suda sotto li ornamenti ed è rigida al passo come una statua di dea tanto è carica di collane d’armille, d’anelli in cui il lavoro dell’orafo vince il valore del metallo, ma non sono le più ammirate; altre si confidano alla loro sola bellezza nuda che espongono dettagliata al solo, senza che un difetto ne accorga lo statuario ed il pittore, tra li altri accorsi in sul porto.
Siamo delli sciami di farfalle di tutti i colori, che si incontrano, si chiamano ad alta voce, si danno la baja, contendono, s’imbizzarriscono. E Nune la schiavetta che mi vien dietro e ch’io preferisco, mi addita, perché forastiera, e l’una, e l’altra e li altri. Tu senti.
«Oggi Myrta le dà festino!» «Elyke, sei con noi?» «Chi è costei che guarda a torno colli occhi sbarrati e grandi come un ragno di mare?» «Nossis che è tutta fresca, vorrebbe farsi comperare, per venti mine, un bacio solo. Si può dire ch’ella non si pretende o pretenda assai, non ti pare?» «Non ridere troppo, ciò ti sforma la bocca: e quando passeggi solleva il lembo della veste così, che le pieghe ti passino sulle coscie e stirino al fianco: ti vedranno di profilo in quanto hai di migliore.»
E sono ondate di profumi violenti se passa una già matura la quale supplisca a giovanezza col cosmetico e subito: «Di’ per chi mai arricci tu i capelli? Ti profumi le mani? Ti maceri il corpo nelli unguenti?» Ed a ridere.
Il giardino amatorio che Mnester ha disposto sulla Akropoli è il luogo favorito per i compagni della sera: «Verrai da Mnester?» «Sta sera?» «No, domani. Oggi ho Mones!» «Fortunata: costui è un vecchio che vale meglio dei giovani.» «A domani.» Nune qualche volta si attarda: qualcuno dietro la trattiene ed odo il bisbiglio di un breve dialogo.
«Buon giorno, carina!» «Ed a te.» «Questa è la tua padrona?» «Che t’importa?» «Te lo chiedo.» «Si.» «Che vi ha da sperare da lei?» «Tutto e nulla.» «Mi fai avere una notte?» «Che dai?» «Speranze!» «Passa via.»
E viene a me irritata e ridente ad un tempo: e proseguiamo. Qui vi ha frastuono e tumulto: già che una disgraziata senza pudore di sé stessa coll’anche piatte brune e mascoline, si lascia svolazzare la veste aperta sul fianco mostrandoli, ed un rétore la addita ad un gruppo: «Ecco una nuda Kaltestion che dimostra come la doppia lettera dei siracusani più non le serve». E la donna magra arrossa e fugge perseguita dalle strida. Lo stuolo s’innuzzolisce: trova piacere alla caccia delle deformità palesi e secrete, la critica ne è acerba e pungente. Uno statuario dettaglia una seconda male augurata: pochi capelli in capo le fanno enorme una fronte gialla e rugosa; le labra livide ed il collo sottile rigonfio di vene sporgenti come corde annodate tra lei, il naso lungo ed adunco, sembra una mummia richiamata in vita; pur alta e diritta conserva un incedere calmo e severo: e l’artefice dice: «Bellezza per uno Scita unto di lardo»: e così lo giudica. Più in là, a paragone un imberbe ne ferma un’altra: «Che offri tu ancora? Mio zio ti ha forse veduta agitarsi al suono dei crotali, e tu eri fiera del tuo corpo. Ora la tua luna è tramontata; l’astro è morto per la congiunzione, né aspetta una nuova fase per riapparire».
Quali vergogne e quali umiliazioni! Ripasso in mente i tuoi consigli e mi attristo, poi che quanto vedo da torno e quanto sofro dentro non è certo lo stimolo maggiore ch’io mi senta per seguirli.
Fra tanto Philo, che ho incontrato è alle prese con un mercante: «Su via, aspettami,» egli dice. «Come ti chiami? Ti si può vedere? Sono straniero. Ti darò quanto vorrai. Sei muta?» E quella si schermisce, fa la preziosa, teme d’essere turbata, o coltiva segretamente un amore a cui non vorrebbe essere infedele. «Ti farò seguire da un schiavo, per sapere dove hai casa, orgogliosa. Buona sera! No, né meno buona sera? Barbara! Ma ne ho addomesticate altre e più selvaggie: rifletti!» E se ne va. Philo borbotta con Nune: «Esse mi hanno fatto vedere una giovanetta Akkis, che va iscapigliata, in abito dimesso, colli occhi lagrimosi ed ardenti, da che un suo Seso, l’ha fuggita. E non so perché, mi sono presa di pietà e d’affetto per lei come una sorella, e se osassi me la vorrei accanto per consolarla. Akkis mi sembra più bella di tutte perché spira questa grande passione inutile e frenetica, che è riflesso dell’animo suo generoso, è giovanissima e già dolorosa, come un fiore oscuro ed imbalsamato, reciso dal gambo e moriente tra le mani crudeli ed insensibili di un vagabondo scioperato».
Ma ditemi, voi due, a che mi dimentico e mi attardo a raccontarvi tutto ciò? Voi conoscete la città, qui avete passeggiato sul molo; meglio di me sapete il costume dell’una e dell’altra: ripeto fino alla noja ciò che non vi interessa. Io invece sono un’ignorante ed una straniera curiosa; ogni cosa mi è strana e nuovissima, tutto mi ferma e mi meraviglia: e dirvi cioè farvi conoscere l’anima mia turbata e tremante, avida ed avara, perplessa come sempre. Ed ecco che il sole tramonta; tutto il mare insanguina tuffandovisi, come la terra s’imporpora alla ecatombe per Phoibos, il Dio. Il mio cuore trema, le mie mani divengono fredde, la mia testa abbrucia. Mi appoggio a Nune, ed ella come se mi portasse mi riconduce. Poi Melissarion m’incontra sulla soglia; non parla, ma sento che mi vorrebbe chiedere: «Hai tu scelto oggi?» – «No, non ancora mammina!» La mia frigidità, l’aver molto saputo prima di aver pochissimo conosciuto a prova, il mio mutilo amore di sciagura, e li errori disgraziati, ora la mia indifferenza nebbiosa mi fanno un peso inutile anche per lei. E domani, che farò domani?
Nune mi tiene per un lembo e mi susurra: «Klinios, quel giovane, che ti fu accosto sul lettuccio al convito, che fu vinto da te al kóttabo, che ti ha scritto due volte in vano, che ti ha inviata la cappa ed i fiori e professa che lo fai morire; Klinios, cui Melissarion preferirebbe a tutti per te, anche ora mi ha pregato colle lagrime alli occhi per smuoverti in suo favore. Egli agonizza lentamente consumato dalle fiamme del suo amore e nessuno più lo riconosce, disperato e contrafatto, vagolo come un cane senza padrone per la città di notte e fino all’alba fredda e spettrale.» Oh buone Dee, oh Paphia bionda e fiorita: sì conosco Klinios; ed è bruno, ardito, bello, e parla dolcemente, ed assomiglia a Lykinos, buone amiche, ed io temo di amarlo, temo l’amore. Klinios così come Lykinos e qui come in patria, oh sfortuna; la fatalità si ripresenta come prima, ed in fondo un disordine di nebbie oscure sollevate da un vento crudo mi si avventa in contro, mi inghiotte, mi flagella e mi dissolve nelle tenebre. Eros ed Anteros, il giorno e la notte si contendono l’anima mia. Tu, Nux, madre di tutti li Dei che nel tuo pieno stillare accarezzi consentendo a questa mia febre, comandami!
La notte ha fasciato la terra e la culla nelle sue immense braccia poderose come un bambino in grembo alla nutrice. I naviganti volgono li occhi verso la grande Orsa ed il gelato Orione; tutte le vigilie sono prese dal sonno, in guardia, col capo reclino sulle mani appoggiate all’asta ed il dorso alla porta: i cani urlano propiziando Ecate: ed anche le madri affrante a cui di recente l’unico figliuolo è morto, dormono: oh Nux, fa il tuo segno, comandami. Serpeggia soffiando un fumo azzurro dal braciere e si lustra alle fiamme della lucerna snodandosi come un serpe. Persephone me lo invia dall’Hades in risposta ambigua? Glycera e Mnasika, questa povera navicella senza navalestro vorrebbe chiedervi una parola: no, no, non rispondete, sarebbe inutile contro la fatalità che non s’addormenta mai sulle ginocchia di Zeus.
Quanto vi ho scritto jeri notte, tramonta col sole caldo di questa mattinata. Uscendo per la prima, poco lungi dalla soglia, vicino alla siepe di biancospino e di mirti, scorsi sull’erba una tartaruga. Lenta barcheggiava e tonda; sembrava una oneraria che si avanzasse sull’onde verdi e quiete di un braccio di mare, allo sforzo di quattro remi ed al giudizio di un breve timone, verso terra. Chiamai le compagne, e Nune e Philo, e Mele e Bitinna; ed esse tenendosi per mano, ridendo e danzando me ne diedero profezia: «Non ti mentire, Kelidonio; essa è per farti in breve conoscere la virilità delli uomini, da colui che più ami tra loro. E tu sarai di chi primo ti invierà un messaggio stamane e tu gli risponderai. Come è tuo, tu sarai sua.» Le fanciulle battevano il pié leggiero a cadenza svolgendo le figure della collana.
Ho tutto il cuore caldo e fragrante di sole, come una tortora che si liscia le penne a mezzo giorno sull’alta stela del giardino. Ed ha il volto lieto ed ilare, e le braccia impazienti di stringere il ben amato; e sulla bocca un impeto di parole soavi e di canti giocondi. Contemplatemi così, Mnasika e Glycera, in questo istante di felicità, sgombra di paure e di sospetti come Ariadna che attende sulla mobile spiaggia del mare, venir dalle vittorie, a lei Dionysos incoronato.