La peruviana/Nota storica
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NOTA STORICA
Nel 1747 la signora di Graffigny, ormai più che cinquantenne, dopo una esistenza dolorosa e avventurosa, mandava alla luce un piccolo romanzo epistolare, Lettere d’una Peruviana, che fu accolto con avidità dal pubblico e con indulgenza dai critici. L’ab. Raynal nelle sue Novelle letterarie vi avvertiva molti difetti, molte inverosimiglianze, ma pure confessava che da gran tempo non si leggeva un libro così piacevole, abbellito di “tutto ciò che la tenerezza ha di più vivo, di più delicato, di più appassionato” (Correspondance littéraire etc. di Grimm, Diderot, Raynal, ed. da Tourneur, t. I, Parigi, 1877, p. 132. - V. anche Sabatier de Castres, Les trois siècles etc.; Nouveau Dictionn.e Historique di Chaudon; M.e de Genlis, De l'influence des femmes etc.). Non è vero che fosse questo il primo esempio dì romanzo epistolare in Francia, come afferma La Harpe; ma ripetendo in parte l’idea dalle Lettere Persiane di Montesquieu, alla satira sociale illanguidita, se non sbandita, la signora di Graffigny sostituì il racconto d’amore come nelle Lettere Portoghesi e nella Pamela (1740). I sentimenti semplici e audaci al tempo stesso di un’anima non corrotta dalla civiltà europea, certo profumo esotico, vero o falso che fosse, qualche tocco delicato, qualche accento di passione femminile: ecco quanto serviva ad appagare i lettori e le lettrici del settecento nelle Lettere d’una Peruviana e sedusse pure il Goldoni (vedasi Nuovo Dizionario Istorico di Bassano, al nome Grafigny, VIII, 1796: il riferimento si trova nelle note di G. Mazzoni al vol. II delle Memorie di C. Goldoni, Firenze, Barbera, 1907, pp. 372-3). Oggi pochi studiosi ricercano questo vecchio libro che ha ormai perduto ogni soffio vitale (v. A. Le Breton, Le roman au dix - hultième siècle, Paris, 1898, pp. 220-223; P. Morillot, in Hist.e de la langue et de la litt.e franc.e, t. VI, Dix-huitième siècle, Paris, 1898, pp. 476-/. Si vedano anche le Lettres de Mad.e de Graffigny etc. par E. Asse, Paris, Charpentier, 1879; e Guerle, Mad.e de Graffigny, Lyon, 1882).
Il Goldoni lesse la traduzione italiana che uscì anonima a Venezia (falsamente Aja) nel 1754 (annunciata il 28 sett. nel num. 39 delle Novelle della Rep.a lett.ia): benché scorretta, una delle migliori fra le moltissime e quasi sempre infamissime traduzioni di romanzi francesi o inglesi di quel tempo. Ma nessuno oserà attribuirla a G. Gozzi, il quale tradusse in quell’anno la Cenia, dramma lagrimoso della Graffigny, da cui trasse il Goldoni nel 1757 il Padre per amore (v. vol. XV). Già fin dalla giovinezza il nostro dottor veneziano aveva ricavato da un romanzo la sua Rosmonda (v. vol. XXIII); nel 1750 aveva chiesto a Richardson la Pamela (v. vol. V): dietro il suo esempio l’abate Chiari, colpito da furore, aveva portato sulla scena in ridda paurosa la Marianna di Marivaux, Tom Jones, il Telemaco, De Mouhy, Prévost, e forse Ramsay. E già nel 1748 M. de Boissy, precorrendo il Nostro, aveva affidato al Teatro Francese una sua Péruvienne, commedia di cinque atti in versi, che cadde alla prima rappresentazione. M Le Lettres Péruviennes annota il Dictionnaire portatif des théâtres di M. de Léris (Paris, 1754) “ont donné l’idée de cette pièce, qui n’a pas été imprimée, et celle d’un Opéra Comique en un Acte sous le même titre, qui fut joué pour la première fois le 23 Mars 1754, sans succès”.
Non fu molto più felice il Goldoni a Venezia nell’autunno di quei medesimo anno (1754); scriveva in fatti il 5 aprile 1755 al conte Arconati-Visconti di Milano di essere rimasto lui stesso “malcontento” (Spinelli, Fogli sparsi del Goldoni, Milano, 1885, p. 34); e nella prefazione della commedia, stampata nell’edizione Pitteri (il t. III porta la data del 1757, ma uscì al pubblico in principio del ’58) si affanna a voler spiegare le ragioni della “mediocre riuscita” ripromettendosi miglior fortuna presso i lettori. Nei Mémoires (p. 2°, ch. XXX) si sbriga con poche e vaghe parole: “J’en fis une Pièce romanesque; j’eus le bonheur de réussir”. - Tali Memorie assegnerebbero la Peruviana all’anno 1755, ma bisogna creder giusta la data che si legge nell’edizione Pitteri, confermataci dallo scritto dello Sciugliaga, come ora vedremo. Il nostro poeta potè consolarsi in quella stagione col buon incontro del Terenzio (principio aut.) e del Tasso (principio carn.). Gli animi dei partigiani, nella famosa lotta delle due fazioni teatrali, erano allora più accesi che mai: la gioia insolente dei chiaristi perseguitò la Peruviana. Per fortuna il Goldoni aveva trovato un anonimo difensore che da tempo faceva fioccare contro l’abate Chiari e i suoi fautori certi libelli coraggiosi, e sensati le più volte, che un gran bene recavano alla causa del commediografo veneziano (Mém.es cit., partie 2e, ch. XXXII). Si chiamava Stefano Sciùgliaga (in Garmogliesi) ed era nativo di Ragusa (v. Nuovo dizion. istorico di Bastano, t. XVIII, 17%; ab. S. Gliubich, Diz.io biogr.co degli uomini illustri della Dalmazia, 1856; Spinelli, I cit., pp. 65-6/; e specialmente G. Ortolani, Settecento, in corso di stampa: Intorno al teatro dell’ab. Chiari). Anche questa volta fu pronto costui a stampare uno scrittarello intitolato L’Anonimo ad un suo Amico (v. Censure miscellanee dello stesso, dedicate alla duchessa Serbelloni - Ottoboni, gennaio 1755, pp. 80-89) in cui ribatteva certa “diceria d’un povero “Sofista che aveva predicato la sera avanti contro la Peruviana e contro l’anonimo Raguseo. Ascoltiamolo dunque un poco.
“Io vi confesso la verità, che l’Autore della Peruviana viene da me stimato, benché non conosciuto, ma in quella Commedia lo condanno per due ragioni. Primamente non doveva pescar nel Romanzo, e poi se ha creduto bene d’attaccarsi al Romanzo, doveva trattarlo come tale, e non istudiare di ben condurlo: una cosa fantastica doveva farla senza regola, o facendola con regola, non doveva farla fantastica. - Vi confesso tuttavia, ad onta di quel che si possa dire del mio palato, che la Peruviana mi pare tanto ben ordita, e tanto ben tessuta, che può e dee aver luogo fra le migliori cose fatte dal suo Autore. Non v’è in essa una incoerenza, non v’è un carattere mal sostenuto, non v’è cosa fuori di proposito, e stampata che sia, sono certissimo che dagl’Intendenti sarà applaudita. Che poi sia andata a terra, io non vi darò alcuna ragione; vi dirò bensì, che per sostenerla in faccia degl’idioti, vi mancava tutto quello nel che consiste lo spirito della moda corrente: mancavano gli abiti stranieri, mancavano le Scene, mancava la picciolezza del Teatro in cui l’occhio e l’udito stasse raccolto, mancava la esteriore apparenza, mancavano gli Attori, li quali intendessero quel che dicono, ed esprimessero con sentimento quel che intendono”.
Queste parole dovettero lunsingare il Goldoni e risuonavano forse ancora nella sua mente quando dettava la prefazione della commedia; ma io dubito che lo Sciugliaga, il quale approvava perfino “le descrizioni dell’innesto, e della caccia dell’usignolo”, rimanesse un tantino deluso dopo la stampa della Peruviana. Certo nessun capocomico pare che si invogliasse a riprodurla sulle scene. Restò da tutti abbandonata e negletta. Credo che pochissimi lettori intelligenti ne abbiano sopportato la noia fino all’ultimo verso. Un tempo l’ammirò forse qualche ragazzo: così Giovanni Giraud, nato a Roma nel 1776, nella sua prima giovinezza rileggeva, come confessa, le commedie romanzesche del Chiari e del Cerlone, e schiccherava nuovi mostri in versi martelliani, “ansioso d’imitare le Ircane e le Peruviane del Goldoni” (pref. alle Commedie, Roma, 1808). Gli scrittori moderni la riprovano in coro e sdegnano quasi tutti di parlarne. Falsa e pesante la giudica Vemon Lee, ma non so perchè la intitoli la Bella Peruviana (Il Settecento In Italia, vers. it.a, Milano, 1892, vol. II, p. 282); “nulla di esotico” vi trova Emilio del Cerro (N. Niceforo), “meno il titolo”. ma non so perchè la chiami la Sposa Peruviana (Nel regno delle maschere, Napoli, 1914, p. 344). Il Goldoni, dice Giulio Caprin, cadde nell’errore “comune a tutto il 1700, che l’anima dell’uomo fosse eguale da per tutto... Di Persiano, di Peruviano, di Armeno, i personaggi delle commedie romanzesche non hanno che le vesti; la loro psicologia è tutta della stessa qualità... Le loro passioni, nel momento in cui starebbero per recare effetti tragici, si placano a un richiamo della “natura”: sarebbe difficile immaginare delle anime impastate di miele più che Zilia e Aza della Peruviana, quantunque il destino li ponga in situazione che giustificherebbero asprezza e violenza” (C. Goldoni ecc., Milano, Treves, 1907, pp. 293-4). Tuttavia anche quest’opera disgraziata ebbe l’onore di essere tradotta e rappresentata sulle rive del Tago, in Portogallo. Ed ecco la stampa: “Comedia intitulada Peruviana do Doulor Carlos Goldoni. Que se reprezentou no theatro do Baino Alto. Lisboa. Na officina Caetano Fenreira da Costa, 1774” (v. Catalogo generale della Raccolta drammatica italiana di Luigi Rasi, Firenze, 1912, pag. 415).
Davvero non sappiamo oggi spiegarci come mai Carlo Goldoni potesse illuderti intorno ai pregi di questa sua pseudo-commedia martelliana, dalla quale ogni alito di poesia rifugge, dove più che mai volgare, barcollante e azzoppato è il verso, dove a ogni scena ci irrita qualche puerilità, dove amori e cuori ci fanno ricordare pietosamente il teatro dei burattini, dove “comico” e “serio”, senza mai fondersi, ci fanno sbadigliare egualmente, dove il romanzo stesso della signora di Graffigny ha perduto ogni sapore e ogni grazia, dove anche l’intreccio si è in fine arruffato per mezzo d’una inutile agnizione, per cui Zilia e Aza si riconoscono fratelli (come in tanti altri drammi e romanzi del tempo: v. Ch. Dejob, Les femmes dans la comédie etc., Paris, 1899, p. 76). Non dico già che questa commedia o tragicommedia serva a farci conoscere i limiti dell’arte goldoniana: solo dimostra la stanchezza dell’autore nel 1754, costretto ad una fatica che gli rodeva in certi momenti la salute e l’ingegno. Eppure anche più tardi egli credeva di aver ritrovato nella stupida fanciulla peruviana le lagrime dolci di Pamela e credeva che la sciocca arguzia del fattore Pierotto e del balordo suo figliuolo potessero rallegrare il pubblico. Qualcuno potrebbe notare qua e là il gentile carattere francese, secondo il Goldoni, nel cavaliere Deterville e in madama Cellina, in contrasto con l’altero carattere spagnolo in don Alonso; ma sarebbe opera perduta. Non mi pare si possa vedere in M. Rigadon un rustego, un salvadego, un Todero fuori di tempo e di luogo (cfr. Schmidbauer, Das Komische bei Goldoni, München, 1906, pp. 47 e 148, 149). Vero è che il pubblico veneziano del Settecento, se poteva restare qualche volta abbaglialo da uno scenario pittoresco o dal martellio dei settenari, aveva però un certo istinto d’arte che nella condanna d’un’opera di rado s’ingannava.
Quando nel 1757 volle stampare la Peruviana, il Goldoni ne fece dono alla contessa Antonia Somaglia di Milano, nata nel 1730 dal conte Antonio Barbiano di Beigioioso (nominato nel 1769 principe del Sacro Romano Impero) e dalla ricca contessa Barbara D’Adda (figlia del conte Costanzo e sposa nel 1722) che il buon Veneziano ricorda pure con riconoscenza nella lettera di dedica per aver letto nelle sale superbe del palazzo Beigioioso qualcuna delle sue commedie. A sedici anni donna Antonia sposò il conte Antonio Dati della Somaglia, fratellastro della madre di Pietro e Alessandro Verri (contessa Barbara Dati della Somaglia), gentiluomo di camera delle Loro Maestà; e brillò per bellezza e spirito in seno all’aristocrazia milanese. Pietro Verri da giovane frequentò con assiduità il salotto della zia. Gli editori del prezioso Carteggio dei due Verri, dove il nome di lei ricorre spesso, nella nota a pag. 11 del I volume (Milano, Cogliati, 1923), la chiamano la “Ninfa Egeria del piccolo cenacolo dei filosofi milanesi, che s’adunava intorno ai nipoti suoi Pietro e Alessandro”.”Bacia le belle mani della signora Zietta” scriveva Alessandro al fratello nel ’67, da Londra. Ma proprio sulla fine di quell’anno cessò Pietro dal frequentarla, in parte per la gelosia della marchesina Isimbardi, e scriveva al suo Alessandro: “V’è un cerimoniale, una gravità, una cattiva compagnia, un trionfo di alcuni elefanti, uno studio d’ogni parola e gesto, un fondo di reale insensibilità ai mali altrui e di pensata apparente beneficenza, che ti debbono porre in guardia” (val. I, parte 2, p. 64). Anche Alessandro notava “un non so che d’irregolare in quel carattere” (ivi, p. 58). Nel ’68, insieme con Gian Rinaldo Carli vediamo spasimare per lei il barnabita Paolo Frisi, celebre matematico (ivi, p. 137); ma più intima amicizia ebbe ella coll’abate marchese Alfonso Longo, un altro della vecchia Società dei Pugni e collaboratore del Caffè. Amicizia fatale, come racconta il Verri (Carteggio, III, pp. 317 - 318 e 419). Quella Contessa che il Goldoni aveva visto risplendere di bellezza e di brio nelle magnifiche feste in Palazzo Ducale per le nozze di Caterina Loredana, nipote del Doge, moriva forse d’un tristo male, ancor giovane e piacente, ai 13 ottobre 1773, nella deliziosa villa di Orio, ai confini del Lodigiano, dove il Carli aveva scritto, come pare, le famose pagine Sulla Patria degl’Italiani. Appunto nell’Elogio storico del Co. Comm. C. R. Carli, opera di Luigi Bossi, si rimpiange, dopo molti anni, la gentildonna milanese “il di cui merito singolare risultante dalle più rare doti del corpo e dell’animo, vive ancora nella memoria dei tuoi concittadini, e di tutti quelli ch’ebber la sorte di conoscerla” (Venezia, Palese, 1797, pag. 146. La ricordò lo Spinelli fra gli Amici del Goldoni in Milano, numero unico del Teatro Manzoni, Per il 2.° centenario della nascita di C. Goldoni, pag. 28).
Lasciò un unico figlio maschio, Antonio, e una figlia, Camilla, sposa nel 1773 al conte Solaro di Monasterolo e Casalgrosso. Fratelli della contessa Antonia furono i conti Alberico e Lodovico Beigioioso, dei quali ci parlò recentemente il conte Alessandro Giulini nel suo libro A Milano nel Settecento (Milano, 1926). Per altre notizie vedasi Calvi, Famiglie Barbiano e Beigioioso, in Famiglie nobili milanesi, vol. I, Milano, 18/5. Corse voce, ma fu dimostrata falsa, che ad Alberico alludesse la satira del giovin signore di Giuseppe Parini (su questo episodio v. G. Carducci, Opere, val. XIV, pp. 184 sgg.).
G. O.