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chezza dell’autore nel 1754, costretto ad una fatica che gli rodeva in certi momenti la salute e l’ingegno. Eppure anche più tardi egli credeva di aver ritrovato nella stupida fanciulla peruviana le lagrime dolci di Pamela e credeva che la sciocca arguzia del fattore Pierotto e del balordo suo figliuolo potessero rallegrare il pubblico. Qualcuno potrebbe notare qua e là il gentile carattere francese, secondo il Goldoni, nel cavaliere Deterville e in madama Cellina, in contrasto con l’altero carattere spagnolo in don Alonso; ma sarebbe opera perduta. Non mi pare si possa vedere in M. Rigadon un rustego, un salvadego, un Todero fuori di tempo e di luogo (cfr. Schmidbauer, Das Komische bei Goldoni, München, 1906, pp. 47 e 148, 149). Vero è che il pubblico veneziano del Settecento, se poteva restare qualche volta abbaglialo da uno scenario pittoresco o dal martellio dei settenari, aveva però un certo istinto d’arte che nella condanna d’un’opera di rado s’ingannava.

Quando nel 1757 volle stampare la Peruviana, il Goldoni ne fece dono alla contessa Antonia Somaglia di Milano, nata nel 1730 dal conte Antonio Barbiano di Beigioioso (nominato nel 1769 principe del Sacro Romano Impero) e dalla ricca contessa Barbara D’Adda (figlia del conte Costanzo e sposa nel 1722) che il buon Veneziano ricorda pure con riconoscenza nella lettera di dedica per aver letto nelle sale superbe del palazzo Beigioioso qualcuna delle sue commedie. A sedici anni donna Antonia sposò il conte Antonio Dati della Somaglia, fratellastro della madre di Pietro e Alessandro Verri (contessa Barbara Dati della Somaglia), gentiluomo di camera delle Loro Maestà; e brillò per bellezza e spirito in seno all’aristocrazia milanese. Pietro Verri da giovane frequentò con assiduità il salotto della zia. Gli editori del prezioso Carteggio dei due Verri, dove il nome di lei ricorre spesso, nella nota a pag. 11 del I volume (Milano, Cogliati, 1923), la chiamano la “Ninfa Egeria del piccolo cenacolo dei filosofi milanesi, che s’adunava intorno ai nipoti suoi Pietro e Alessandro”.”Bacia le belle mani della signora Zietta” scriveva Alessandro al fratello nel ’67, da Londra. Ma proprio sulla fine di quell’anno cessò Pietro dal frequentarla, in parte per la gelosia della marchesina Isimbardi, e scriveva al suo Alessandro: “V’è un cerimoniale, una gravità, una cattiva compagnia, un trionfo di alcuni elefanti, uno studio d’ogni parola e gesto, un fondo di reale insensibilità ai mali altrui e di pensata apparente beneficenza, che ti debbono porre in guardia” (val. I, parte 2, p. 64). Anche Alessandro notava “un non so che d’irregolare in quel carattere” (ivi, p. 58). Nel ’68, insieme con Gian Rinaldo Carli vediamo spasimare per lei il barnabita Paolo Frisi, celebre matematico (ivi, p. 137); ma più intima amicizia ebbe ella coll’abate marchese Alfonso Longo, un altro della vecchia Società dei Pugni e collaboratore del Caffè. Amicizia fatale, come racconta il Verri (Carteggio, III, pp. 317 - 318 e 419). Quella Contessa che il Goldoni aveva visto risplendere di bellezza e di brio nelle magnifiche feste in Palazzo Ducale per le nozze di Caterina Loredana, nipote del Doge, moriva forse d’un tristo male, ancor giovane e piacente, ai 13 ottobre 1773, nella deliziosa villa di Orio, ai confini del Lodigiano, dove il Carli aveva scritto, come pare, le famose pagine Sulla Patria degl’Italiani. Appunto nell’Elogio storico del Co. Comm. C. R. Carli, opera di Luigi Bossi, si rimpiange, dopo molti anni, la gentildonna milanese “il di cui merito singolare risultante