La mia vita, ricordi autobiografici/II
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II.
Primi anni.
(1850)
I dizionari biografici che Angelo De Gubernatis cominciò, pel primo, a metter di moda in Italia e, più tardi, la manìa dei profili per cui ogni persona che avesse sulla coscienza appena appena una pagina di prosa stampata veniva pregata dai critici in trentaduesimo di concedere con i propri connotati anche le sue fedi di nascita e altre generalità: — dizionari e profili, dunque — dicono a tutti ch’io sono nata a Firenze, nel 1850, da Leopoldo Baccini e da Ester Rinaldi: che il mio babbo, già viaggiatore delle due case editrici pratesi Alberghetti e Giachetti, era venuto a stabilirsi a Firenze due o tre anni prima della mia nascita, insieme con la moglie e l’unica figliuoletta Egle, per dirigere la tipografia di Giuseppe Celli. Il Celli, tipo strano d’uomo e di lavoratore, ebbe il suo quarto d’ora di celebrità pel romanzo umoristico dell’Emiliani Giudici, intitolato Beppe Arpìa. Questo libro dell’illustre autore della «Storia della letteratura italiana» non si trova più in commercio, credo: ma non sarebbe forse inutile rintracciarlo, non foss’altro per verificare se i rapporti fra autori ed editori fossero, anche allora, così poco cordiali!
⁂
Via delle Ruote, la strada in cui nacqui, non è nè larga nè stretta, nè bella, nè brutta: strada di popolo, piena di botteguccie, senza una fisonomia speciale. La casa sì che era caratteristica e dava da pensare. Alta, nera, tetra, con uno di quei portoni verdastri, a centina, che — mi servo d’una felice espressione d’uno scrittore moderno — «par che raccontino a chi passa la tristezza delle grandi stanze buie, fredde, dove il sole non si ferma che per pochi minuti, quasi timoroso di perdervi la sua luce...»
Di questa casa che il martello spietato delle demolizioni ha raso al suolo, vedo ancora distintamente la camera ove nacqui, una camera ampia, malinconica, la cui unica finestra, coperta da due tendine di giaconetta ingiallita, dava sopra un cortiletto quadrangolare, dalle mura scortecciate, sudicie, trasudanti una perenne umidità. Cortile uggioso, buio, forato da un visibilio di finestre e di finestrini pieni di ragnatele e che pur si affaccia al memore pensiero insieme coi lussureggianti giardini di Boboli, di Pegli, dell’Acquasola, tutti fragranti di rose, tutti inondati di sole.
Avete mai pensato, lettori, che grande livellatore, che severo socialista sia il passato?
Le finestre del salottino e della cucina davano sull’orto del Manicomio1, un orto curioso, senza fiori, senz’alberi, spartito in piccoli quadrati irregolari dove, nel verno, nereggiavano i cavoli e i broccoli di rapa.
Gli urli delle ammalate, percosse non di rado dalla mano furiosa di qualche inserviente irascibile, giungevano fino a noi e mi producevano una strana impressione, malgrado la mia giovanissima età. Che potevo io avere? Cinque o sei anni tutt’al più. Mi rendevo conto, perfettamente, dei mali di petto che fanno tossire con sì dolorosa insistenza i poveri infermi: intendevo la febbre, i dolori artritici, le eruzioni cutanee. Ma la pazzia, no, non giungevo a capirla. Che voleva dire quel sentirsi bene, quel mangiare e bere come fanno tutti, e non esser più quelli di prima? E il non riconoscer più le persone care? E il ridere scioccamente e il pianger senza ragione? E l’aver delle manìe, delle fissazioni strane, come quella di non volere stare al sole per timore d’esser liquefatti e di tenersi stretta la testa con tutt’e due le mani per impedirle di rotolare a terra?
Infastidivo i miei con domande incessanti alle quali, pur troppo, non si poteva dar mai una risposta chiara, soddisfacente.
Spesso la mamma, una bellissima ma nervosissima donnina magra, che pativa un po’ anch’essa di quel male misterioso a cui la scienza ha dato oggi il nome di neurastenia, m’imponeva silenzio impazientita, dicendomi con voce tremante: — Sta zitta, per amor di Dio! Non senti che il parlar di certe cose mi fa male? —
Non sentivo nulla, io: e malgrado alcune piccole correzioni corporali che mia sorella, un bel tipo di ragazza fresca e sana, perfettamente equilibrata, credeva necessario di infliggermi, tornavo al mio posto d’osservazione in cucina, ritta sopra un panchetto, dietro l’imposta della finestra.
Mi ricordo che quasi ogni giorno, verso l’Ave Maria, scendeva nell’orto, in compagnia d’una inserviente, una bella ragazza alta, svelta, dal viso pallidissimo, come di cera. Si guardava da prima intorno con sospetto, con inquietudine: poi si lasciava cader seduta sopra una panchina, accanto a un grosso ciliegio e durava delle mezz’ore a cantare con una nenia melanconica questi quattro versi:
Dalla chiesa al cimitero |
La mangiavo con gli occhi, io, quella povera creatura giovane che non poteva più divertirsi, nè ridere, nè andare al teatro, nè fare il chiasso con le ragazze della sua età.
In casa raccontavano che si chiamava Annina e che era impazzata perchè le era morto il damo in tre giorni.
Annina, povera Annina, il vecchio Manicomio non è più che un ammasso di rovine: sull’orto, sulla vigna, sulle lunghe corsìe tenebrose si distendono al sole, oggi, strade ridenti, fiancheggiate da eleganti palazzine e da giardini in fiore ... Ma tu, povera visione dei miei giovani anni, sei ritornata alla vita, alle speranze, all’amore? Ti scalda il sole di nuovi affetti? O sei scesa, pallida vittima del destino, nel silenzio eterno della tomba, là dove s’acqueta ogni desiderio, là dove dai poveri frali consunti, lo spirito immortale s’inalza, lento, ma costante, verso le altezze superne, tramutandosi in fiore, in profumo, in una stilla di rugiada, in un raggio di sole, in un fremito d’ala, in un cantico senza fine?
Dove sei andata, o Annina, o cara, o indimenticabile visione dei miei giovani anni?⁂
Ho accennato alla mia sorella Egle. Ell’era maggiore di me dodici anni ed era nata a Prato in casa dei nonni Baccini, mentre mio padre correva l’Italia per conto degli Alberghetti che in quell’epoca attendevano alla ristampa dei classici greci e latini.
I miei genitori vennero a stabilirsi a Firenze fra il 1846 e il 1847 conducendo seco l’unica figliuoletta.
Nella tipografia Celli, il babbo pose gli occhi sopra un giovinetto laboriosissimo che faceva un po’ di tutto: rivedeva stampe, piegava, rilegava, attendeva alle spedizioni e, all’occorrenza, componeva. Questo giovinetto, appartenente a una famiglia popolana fiorentina, si chiamava Andrea Salomoni: e siccome era anche buono e servizievole, il babbo non tardò a farselo intimo, tanto che la nostra casa divenne in breve tempo la sua. E ciò con grande soddisfazione del sor Giusto suo padre che avendo ricevuto dal Signore la benedizione di dodici figliuoli, tutti sani e provvisti d’un formidabile appetito, vide in questo fatto il dito della Provvidenza.
Dreino e l’Egle divennero inseparabili: egli accompagnava la bambina a scuola, andava a riprenderla, la conduceva le domeniche in Boboli o al Parterre fuori di porta San Gallo; e se pioveva, la divertiva in casa con mille giuochi o lazzi burleschi. La mamma, sempre malaticcia e nervosa, era grata al giovinetto di tutte queste cure che, in certo modo, lasciavano lei in un riposo quasi completo: ed era lontana, oh ben lontana dall’immaginare che quella innocente intimità avrebbe fatto capo, di lì a qualche anno, a un amore ardentissimo.
Fui io che, involontariamente o piuttosto, con bambinesca malizia, feci accorti i nostri genitori dell’idillio che, da anni, si svolgeva sotto i loro occhi.
Ma torniamo a me, poichè è di me principalmente che in questo libro si deve parlare.
Bambinuccia di cinqu’anni appena, fui messa a scuola da certe sorelle Gozzini, tre vecchie zitellone che erano coadiuvate nel non arduo loro ministero dal fratello Gesuino e da un certo sor Romolo, un pretino arzillo, di cui non m’è riuscito ritenere il casato.
In questa scuola dove ogni bambina portava la sua seggiolina con una specie di trespolo per il lavoro, s’insegnava a leggere, scrivere e a far di conto: i lavori muliebri nei quali veniva impiegato quasi tutto il giorno, consistevano per le più piccine in legacci da calza fatti a maglia, in solette, in calze: e, per le più grandicelle, in cucito. Niente ricami, nè lavoretti di fantasia. L’unico lavoro di fantasia che vidi eseguito in quella scuoletta fu un panierino a croce inamidato e riempito di ciliegie finte.
L’onorario variava da un paolo (56 centesimi) ai due paoli, o alla lira codina (84 centesimi). E per Ceppo e per le Pasque presentavamo alle maestre due bei rinvolti di zucchero e di caffè. In compenso di questa poetica dimostrazione di gratitudine, esse ci facevano imparare a mente la Pastorale, che le più brave recitavano dopo davanti ai presepii delle proprie parrocchie.
A questa mia prima scuola di via del Campaccio (ora Santa Reparata) si collegano i due seguenti aneddoti da me narrati in un volume di Racconti edito dai successori Le Monnier sotto il titolo complessivo di Storia sacra2.