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lontana dall’immaginare che quella innocente intimità avrebbe fatto capo, di lì a qualche anno, a un amore ardentissimo.

Fui io che, involontariamente o piuttosto, con bambinesca malizia, feci accorti i nostri genitori dell’idillio che, da anni, si svolgeva sotto i loro occhi.

Ma torniamo a me, poichè è di me principalmente che in questo libro si deve parlare.

Bambinuccia di cinqu’anni appena, fui messa a scuola da certe sorelle Gozzini, tre vecchie zitellone che erano coadiuvate nel non arduo loro ministero dal fratello Gesuino e da un certo sor Romolo, un pretino arzillo, di cui non m’è riuscito ritenere il casato.

In questa scuola dove ogni bambina portava la sua seggiolina con una specie di trespolo per il lavoro, s’insegnava a leggere, scrivere e a far di conto: i lavori muliebri nei quali veniva impiegato quasi tutto il giorno, consistevano per le più piccine in legacci da calza fatti a maglia, in solette, in calze: e, per le più grandicelle, in cucito. Niente ricami, nè lavoretti di fantasia. L’unico lavoro di fantasia che vidi eseguito in quella scuoletta fu un panierino a croce inamidato e riempito di ciliegie finte.

L’onorario variava da un paolo (56 centesimi) ai due paoli, o alla lira codina (84 centesimi). E per Ceppo e per le Pasque presentavamo alle maestre due bei rinvolti di zucchero e di caffè. In compenso di questa poetica dimostrazione di gratitudine, esse ci facevano imparare a mente la Pastorale, che le più brave recitavano dopo davanti ai presepii delle proprie parrocchie.