La leggenda di Tristano/XLII
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XLII. — Or dice lo conto che dappoi che la damigella vide T., parvele molto bello e incominciollo fortemente a riguardare; e T. guardando la damigella, disse che, da madonna Isaotta la bionda in fuori, una piú bella damigella di lei non si trovava. Ma tanto si guardano insieme la damigella e T. che l’uno conosce la volontade dell’altro per lo sguardare. E isguardando in cotale maniera, dicea la damigella in fra se istessa: «Ora son io aventurosa damigella, dappoi ch’io sono amata da cosí alto cavaliere». E cosí pensando la damigella, ciascheduno sí si chiama per pagato, l’uno dell’altro. E dappoi ch’ebero mangiato, la damigella venne a T. e disse a T.: «Ecco la damigella che t’ama di tutto suo cuore». E T. disse: «Damigella, grande mercede a voi, quando voi lo degnaste di dire. Ma cosí io vi dico ch’io sono cavaliere di tutto vostro amore». A tanto finirono lo loro parlamento sanza piú dire a questa fiata, e l’uno si si parte dall’altro. E la damigella torna al suo albergo con suo cavaliere e tutti gli altri tornarono a loro alberghi. E la damigella chiamoe uno suo nano e dissegli: «Domane mi farai uno messaggio a T., lo nepote del re Marco di Cornovaglia, e diceragli da mia parte che domane a sera vegna a me ala fontana dell’Agua dela Spina e tavia gli die che vegna armato, perché l’uomo non sae l’aventure che possono avenire». E allora disse lo nano che questo messaggio fará egli e sará molto volontieri. Al matino si leva lo nano e montoe a cavallo e venne ala corte del re Marco. E quand’egli vide T. si lo chiamoe a sé e dissegli: «La damigella dell’Agua dela Spina vi manda mille salute e mandavi a dire per me che voi istasera vegnate a lei alo giardino dela fontana. E tutta fiata venite armato, imperciò che l’uomo non sae l’aventure che possono avenire». Ma T. quando intese queste parole, disse alo nano: «Io si sono apparechiato di fare lo comandamento dela damigella e di venire, quando a te piacerae». E lo nano rispuose e disse che ancora non iera venuta ora del’andare. E a tanto finano loro parlamento. E monsegnor T. si muove e va allo suo palagio, e comandoe agli scudieri che apparechino le sue arme «e debiano acconciare lo mio distriere, sí che quando bisogno mi sarae ch’io lo trovi tutto prestamente apparechiato».