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CXVIII CXX

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CXIX. — In questa parte dice lo conto, che quando lo conte d’Agippi vide T., lo quale iera uscito di fuori dala cittade tutto armato e sanza neuna compagnia, incominciossi molto a maravigliare chi fosse lo cavaliere. E istando per uno poco, ed egli sí disse ali suoi cavalieri: «Cavalieri, per mia fé quello cavaliere il quale è uscito fuori, che voi vedete, non è di questo paese. Ma io credo ched egli sia deli cavalieri dela Tavola Ritonda ed è deli buoni cavalieri erranti. Ond’io credo che per la sua prodezza noi saremo tutti isconfitti da campo». E quando li suoi cavalieri intesero queste parole, fuorono molto dolorosi. E dissero al conte: «Conte, non dotate. Preghiamovi che voi sí dobiate istare sicuramente, imperciò che voi avete molti cavalieri qui con voi, di quegli che combatteranno co lui». Ma istando in cotale maniera, e uno cavaliere sí andò alo conte d’Agippi, lo quale cavaliere sí era suo nepote, e domandogli la battaglia delo cavaliere errante. E quando lo conte d’Agippi intese queste parole, sí rispuose e disse: «E voi abiate la battaglia, dappoi che voi la volete». E quando lo cavaliere intese queste parole, sí ringraziò assai lo conte di questo dono. Ed allora incontanente sí si partio dela schiera e andò inverso T. E quando T. vide venire inverso di sé lo cavaliere, lo quale volea combattere, incontanente andò inverso di lui e vengonsi l’uno incontra l’altro cole lancie abassate sotto braccio ed alo fedire degli isproni, e lo cavaliere ferío a T. sopra lo scudo, e diedegli sí grande colpo che tutta la lancia si ruppe in pezzi, ned altro male no gli fece. E quando T. sentío lo colpo delo cavaliere, incontanente sí ferio a lui sopra lo scudo, e diedegli sí grande colpo che gli passò lo scudo e l’asbergo e misegli [p. 159 modifica] lo ferro dela lancia nele coste sinestre, bene in profondo, si che l’abatteo morto a terra del cavallo.