La leggenda di Tristano/CCXXXIV
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CCXXXIV. — Quando elli ha ditte queste parole, elli si ritorna inverso lo re Marco, e Io comincia a riguardare tutto piangendo. E poi li disse: «Siri, se Dio vi salvi, che v’è aviso di me? Sono io ora quello T., che voi solete tanto dottare? Non vero, colui non sono mica. Io sono T., che per tristizia di cavallaria e del mondo [fui nato]. Oramai sete al sicuro che T. non vi fará giamai dottare, né mai non arete paura di me. Oggi falla lo strifo e la rancura, che tra noi è stata sí lungamente. In fino a qui, mi sono combattuto in cotale maniera, come voi sapete, né unquamai di battaglia non venni al disotto; ma di questa fiera battaglia [ove] io sono intrato, oggi in questo giorno serò io menato al transito. Qui non posso io ferire di lancia né di spada, che perciò io possa guarire. Vinto sono in tutto, e è di sí dura maniera colui a cui io mi combatto, che mercé gridare non mi vale nulla guisa, anzi mi conviene morire senza dottanza, ché merzede né preghiera non mi vale né che né come. Unquamai alla mia vita di cavaliere non venni al disopra per forza d’arme, s’elli mi volesse chiamar merzede, che io non n’avesse pietá e merzé. Ma in questa mortale battaglia ove io sono intrato, non mi vale merzé gridare; morire mi conviene per forza, ché giá merzé non trovo. Re Marco, in questo campo m’avete voi messo [al punto] el quale è pericoloso, per uno solo colpo. D’uno colpo solamente sono io ala morte. E quando io veggio ch’elli non puote essere altrementi, io vi perdono volentieri, e Dio ve lo perdoni altresi».