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CCXLIV La leggenda di Tristano

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CCXLV. — Uno giorno ch’elli cavalcava per una foresta, e elli venne uno cavaliere armato di tutte arme incontra di lui, che se n’andava indiritto verso la riva del mare e veniva inverso la magione del re Artú. Quando Sagramor lo vide venire, elli s’aresta, e lo cavaliere venne infino a lui e lo saluta, e Sagramor li rende suo saluto. E poi lo dimanda e dice: «Siri cavaliere, onde venite voi? Fuste voi ala magione del re Artú? Sapete voi novelle di quello ostello?». «Certo» disse lo cavaliere, «anco non sono due giorni che io me ne partí da quello ostello. Ma per la fede che io do a Dio, unquamai non vidi quello albergo sí disconfortato, sí come elli era a quello punto che io mi partí. Lo re piangeva sí perdutamente, come s’elli vedesse dinanzi da sé morto tutto lo mondo; che in quello giorno medesimo gli erano venute novelle che Palamides era morto, e lo re Bandemagus morto e Erdes filio [di] Lancilotto [p. 295 modifica] morto, e tanti de’ compagni dela Tavola ritonda morti, ch’era una meraviglia a udire. Lo re Artú di questa novella che l’uomo li avea contata tutto di fresco, era duramente tutto disconfortato, sí che io non credo ch’elli si conforti per uno grande tempo». «Al nome di Dio», disse Sagramor «queste novelle sono troppo malvage per onore di cavallaria, ma ancora sí ne porto io piú malvage, per la fede che io do a Dio, che queste non sono». «Al nome di Dio,» disse lo cavaliere, «dunqua sono elle troppo malvage, quando sono peggiori di queste». «Certo,» disse Sagramor «voi dite vero, malvage sono elle troppo. Vedete voi ora questo scudo che io porto e questa spada? Ora sappiate che queste fuoro arme d’altresi pro uomo, come io conoscesse. E sappiate che per l’alta cavallaria che io sentiva di lui, non ho ardimento di portare questa spada cinta al mio costato, anzi la porto a collo, in quelle guise come voi vedete». «Dio aida!» disse lo cavaliere, «chi fu quelli che tanto fu buono cavaliere, come voi dite?». E Sagramor incomincia a piangere, e poi rispuose tutto piangendo: «Ciò fu lo buono T. di Leonis, che morto è ora tutto novellamente e darae danno a tutto lo mondo».