La giraffa bianca/14. Caccia all'ippopotamo

14. Caccia all'ippopotamo

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14.

CACCIA ALL'IPPOPOTAMO


Lasciato l'albero, William ed il dottore si recarono là dove si vedevano alcuni frammenti di ossa appartenenti allo sventurato negro. William raccolse un arco ed una lancia spezzata a metà.

— Non è uno dei nostri — disse respirando liberamente. — Già me lo ero immaginato, perché i nostri uomini, che sono armati di fucili, non avrebbero esitato a far fuoco.

— Pover'uomo! — disse il dottore. — Forse si sarà smarrito in questa foresta.

— È probabile.

— Orientiamoci, William, e cerchiamo di giungere al carro al più presto.

— La cosa non sarà molto facile. Però non ho perduto interamente la speranza di ritrovare i nostri servi.

— Facciamo prima colazione?

— La faremo più tardi. Risparmieremo per ora le nostre provviste. In questa foresta non si sa mai se si può trovare della selvaggina.

Dopo due ore di cammino, i due tedeschi, invece di giungere nella pianura dove avevano lasciato il carro, si trovavano in mezzo ad una foresta così folta che lo stesso William ne fu spaventato.

L'oscurità che regnava sotto quegli immensi vegetali era quasi completa e l'aspetto di quella nuova boscaglia, inestricabilmente intrecciata con liane gigantesche, era imponente e terribile.

Il suolo, invece di essere asciutto, era molle come una spugna e sopra di esso serpeggiavano, simili a fantastici e mostruosi rettili, le radici degli alberi giganti, il cui folto fogliame formava uno strato impenetrabile di verdura. Giammai un raggio di sole doveva essere penetrato su quel suolo, vergine forse d'ogni umano contatto, e sotto le immense fronde regnava quell'insopportabile temperatura di serra calda, che è una prerogativa delle foreste africane. L'atmosfera, giammai rinnovata dal menomo soffio d'aria, era come imprigionata sotto quella volta verde cupa, sopra la quale il sole cocentissimo dardeggiava i suoi raggi.

I due tedeschi, già stanchi, sfiniti dalla traspirazione, si erano fermati, guardando quasi con terrore quell'agglomeramento di datteri selvaggi, di banani, di fichi sicomori, di bambù, di acacie, di tamarindi, che si estendevano a destra, a sinistra, davanti, capricciosamente intrecciati in una fitta rete.

— William, — disse il dottore — noi siamo smarriti e con poca probabilità di poter uscire da questa boscaglia.

— Non perdiamoci d'animo. Con un po' di pazienza riusciremo a raggiungere la pianura ed il nostro carro.

— Confessate almeno che non sapete dove ci troviamo.

— Non ho alcuna difficoltà ad ammetterlo. Non è cosa facile guidarsi in una foresta vergine. Tuttavia ho una speranza.

— E quale?

— Che Kambusi o Flok a quest'ora ci cerchino.

— Dubito che riescano a trovarci.

— Voi non conoscete Kambusi. Quel negro è capace di seguire una traccia quasi impercettibile per delle diecine di miglia.

— Che ci converrà fare? Andare avanti o tornare indietro?

— Preferisco continuare ad andare avanti. Vedremo dove andremo a finire. Intanto facciamo colazione.

Mangiarono il rimanente della ottarda arrostita la sera innanzi, si dissetarono ad un torrentello, quindi ripartirono, aprendosi faticosamente il passo fra le migliaia di rami e di cespugli.

Camminavano da qualche ora, quando si trovarono dinanzi ad un fiume molto largo e che pareva molto profondo. Alcuni coccodrilli sonnecchiavano su di un banco di sabbia, scaldandosi al sole.

— Guadiamolo — disse William.

— Ed i coccodrilli?

— Forse non se ne accorgeranno. D'altronde non abbiamo nessun'altra via. A destra ed a sinistra abbiamo dei pantani forse costituiti da sabbie mobili.

Stavano per entrare nell'acqua, quando videro emergere a poche diecine di passi un corpo enorme, il quale salì placidamente su di un banco melmoso, sdraiandosi al sole.

Un momento dopo, un altro rimontava a galla, accompagnato da un piccino. Era una famiglia d'ippopotami. Mentre il maschio si addormentava, lasciando che gli aironi passeggiassero tranquillamente sul suo dorso per cercarvi i parassiti, la femmina si era messa a giuocare col suo piccino. Il giovane anfibio, grosso come un cignale, di quando in quando si appressava alla madre per poppare, poi si immergeva, quindi risaliva. La femmina, immobile in apparenza, vegliava attentamente su tutti i suoi movimenti, pronta a difenderlo contro chiunque, e di tratto in tratto lo chiamava con dolci grugniti.

— Ecco lì della carne deliziosa — disse il dottore.

— Che fa per noi — rispose William. — Ne avremo per molto tempo.

— Studieremo il mezzo per mandare all'altro mondo uno di quei giganti.

— Agiamo con prudenza. Gli ippopotami, quando hanno un piccino, diventano estremamente pericolosi. Seguitemi.

Condusse il dottore in mezzo ad una macchia di folti palmizi che crescevano dietro una roccia, armò il fucile e mirò l'ippopotamo assopito sul banco fangoso. La palla colpì il mostro presso le narici.

Udendo lo sparo, la femmina drizzò la testa, mentre i coccodrilli che sonnecchiavano in mezzo al fiume si svegliavano.

William ricaricò subito il fucile e fece nuovamente fuoco senza mostrarsi. L'ippopotamo si era levato e fremendo girava gli sguardi per scoprire il nemico. Vedendo una leggera nuvola di fumo alzarsi dietro la roccia, con rapidità fulminea raggiunse la riva e si diresse precipitosamente verso la macchia, quantunque il dottore avesse pure fatto fuoco.

Il suo assalto fu così rapido, che i cacciatori non ebbero tempo di ricaricare le armi.

Non bisognava nemmeno pensare a resistere a quel colosso. William ed il dottore lo compresero e se la diedero a gambe, inseguiti dal feroce animale. Spaventati, i due uomini correvano con grandissima velocità. Le liane, gli sterpi, le radici ed i cespugli impedivano loro di mantenere sempre la distanza. Cominciavano già a rallentare la corsa, impacciati fra quelle migliaia di vegetali, quando rotolarono entrambi nella palude che costeggiava il bosco. L'ippopotamo, non essendosi accorto della loro scomparsa, continuò la corsa per quindici o venti passi; poi, non vedendo dinanzi a sé i nemici, si fermò. Era al colmo del furore: muggiva, calpestava il suolo, faceva strazio delle liane e dei cespugli che lo circondavano.

L'inutile rabbia dell'anfibio toccò l'apogeo, poi si spense come un fuoco di paglia. La bestia, ferita mortalmente, aveva esaurito le sue forze. I due tedeschi ebbero la consolazione di vederla finalmente cadere al suolo, emettendo un rauco gemito.

— Avrebbe potuto morir prima — disse il dottore per orazione funebre.

— L'abbiamo scampata bella — soggiunse William. — Credevo che quel bestione ci tagliasse in due.

— Sarà proprio morto?

— Non si muove più.

— Allora possiamo avvicinarci.

— Carichiamo prima i nostri fucili. Le precauzioni non sono mai troppe!

Caricate le armi, i due tedeschi uscirono dalla palude, orribilmente impillaccherati, e si avvicinarono a quel colosso.

— È morto — disse William. — Ha ricevuto due palle nel mento e una in mezzo al petto.

— Che faremo di tutta questa carne?

— Ne taglieremo un pezzo e lasceremo il resto agli sciacalli e alle jene.

— Se fossero qui i nostri negri!

— Temo che siano molto lontani.

— Non usciremo più da questa boscaglia?

— Girando e rigirando, un giorno o l'altro ritroveremo il carro.

— Parlate di giorni! — esclamò il dottore spaventato.

— Pensate che una volta rimasi smarrito in una foresta dodici giorni.

— Sembra che non vi prema molto ritrovare il carro, William.

— Avete dimenticato che qui si aggira la giraffa bianca. Rammentatevi che il nostro scopo è di incontrarla.

— È vero; però preferirei essere presso il carro. Qui conduciamo una vita incerta.

— Vi mancano forse i viveri? — chiese William.

— Per ora no.

— Allora vi abbisogna una soffice materassa?

— Può essere — rispose il dottore. — Capirete che dormire a ciel sereno e colla prospettiva di venire mangiati, non è cosa piacevole.

— Ah! Dottore! — esclamò William, ridendo. — E siete venuto in Africa?

— Non sono più giovane, amico mio.

— È vero. Consolatevi: questo fiume ci guiderà certo nella pianura.

— Seguiamolo.

— Prima tagliamo un pezzo di carne da questo colosso: ci servirà da pranzo e da colazione per domani.

William prese il coltello e dopo non pochi sforzi staccò un grosso pezzo di carne, pesante quattro o cinque chilogrammi. — Ed ora andiamo — disse. Si diressero verso il fiume e, visto che i coccodrilli erano scomparsi, lo guadarono in un punto ove l'acqua non era più alta d'un metro. Raggiunta la riva opposta, si misero a seguire il corso d'acqua, facendo fuggire alcuni uccelli che nidificavano tra le canne. Su quella riva e nella vicina foresta si vedevano pochi animali e anche gli uccelli erano molto scarsi.

Nelle terre d'Africa si verificano spesso simili irregolarità, anche nelle zone più ricche; in certi luoghi si trovano a profusione belve feroci, gazzelle, antilopi, elefanti e molti volatili; in altri invece si cercherebbero invano un passero, un rosicchiante qualsiasi o frutti atti a calmare l'appetito del povero viaggiatore. Da una parte l'abbondanza, talvolta esagerata; dall'altra la carestia. Questo è anzi il motivo per cui molte tribù di negri ancora selvaggi, che poco coltivano la terra e non allevano bestiame, sono così frequentemente decimati dalla carestia.

I due cacciatori camminarono tre lunghe ore, affrontando di frequente dei pantani nei quali affondavano fino a mezza gamba. Ad un tratto William si fermò dietro il tronco d'un albero grossissimo, facendo segno al dottore di non muoversi.

— Che cosa avete veduto? — gli domandò questi sottovoce.

— Ho veduto pascolare due animali.

— A che specie appartengono?

— Sono origi.

Due rappresentanti quella curiosa varietà d'antilopi, un maschio e una femmina, mangiavano delle mimose a circa cinquanta passi di distanza dall'albero presso il quale i cacciatori eransi fermati.

Sarebbe stata un'ottima preda se fossero stati privi di viveri, ma, essendo già abbondantemente provvisti di carni, non era per loro di alcun valore; nondimeno William non aveva intenzione di lasciarsela sfuggire. L'erige ha la statura di un cervo, anzi è più grande, raggiungendo, nel suo pieno sviluppo, le dimensioni di un asino. È pericoloso a cacciarsi, perché quando è inseguito si rivolge contro l'avversario come un cane, e lo assalisce a cornate.

William, che lo sapeva, si guardava bene dal mostrarsi. Mentre stava per alzare il fucile, entrò in scena un altro animale, col quale, però, bisognava non commettere imprudenze, poiché apparteneva alla grande specie dei leoni africani.

Alla sua comparsa, gli origi si erano istintivamente uniti; poi uno di essi, preso da subitanea paura, fuggì così presto, che una giraffa non avrebbe potuto raggiungerlo.

— È la femmina — disse William.

— Ed il maschio non fugge? — chiese il dottore meravigliato.

— È capace di far fronte al leone.

— Nella lotta soccomberà.

— Non so. Ha certe corna che io non vorrei provare.

Il maschio aveva guardato la sua compagna con occhio triste e quando la vide lontana si volse verso il re della foresta, che lo stava osservando ipocritamente sdraiato sull'erba.

Il leone ruggì amichevolmente, per invitare l'orige ad accostarglisi; ma, siccome l'antilope non obbediva al perfido invito, si drizzò pieno d'impazienza, inoltrandosi di qualche passo.

L'orige si piantò fermo sui garretti, spinse innanzi il capo e presentò all'avversario le corna acute, veri dardi ossei.

La belva si arrestò indecisa, alzò una zampa, sbuffò, fece un salto obliquo e cacciò gli artigli nel fianco dell'antilope, che indietreggiò vivamente, senza gettare un lamento e rispondendo con due cornate poderose. Il leone, ferito nel petto, ruggì dolorosamente e rinnovò l'assalto con maggiore impeto.

L'orige gli tenne fronte con intrepidezza e quantunque ferito continuò a colpire a destra ed a sinistra. Si contenne così bene che dopo tre o quattro minuti il leone, giovane ancora del resto e poco agguerrito, soffiava, cacciando fuori tanto di lingua, e perdeva molto sangue da numerose ferite. Tuttavia doveva restargli la vittoria. Spiccando un ultimo salto cadde sul ruminante, al quale spezzò la spina dorsale, trattenendolo quindi sotto di sé agonizzante e non abbandonando il disgraziato se non quando lo vide spirato. Ma egli pure non potè cantare vittoria, giacché il suo petto era aperto e gli intestini gli uscivano dal ventre. Con un rantolo d'agonia si trascinò al piede dell'albero dove si trovavano nascosti i cacciatori.

Aspettare che fosse morto sarebbe forse stato per loro un po' pericoloso, perciò abbassando i fucili inviarono al moribondo due palle che gli abbreviarono l'agonia.

— Faremo una colazione da principi — disse William. — La carne degli origi passa per un boccone scelto. Ora sentiremo se è vero.

Senza perdere un minuto si rimboccò le maniche, scucì il povero orige, fabbricò due spiedi con del legno durissimo e li guarnì con bei pezzi di carne, sorvegliandone premurosamente la cottura.

Del leone né l'uno né l'altro si occuparono, quantunque rincrescesse ad entrambi abbandonare quella magnifica pelle.

Un'ora dopo, i due tedeschi, sdraiati sull'erba, davano prova, col divorare a quattro palmenti, che la carne d'orige è un cibo prelibato e degno sotto ogni rapporto di coloro che amano i buoni bocconi. Una sola cosa mancò al festino: l'acqua.

Ora, siccome William ed il dottore non possedevano le facoltà dell'erige, che come il cammello lungamente resiste all'arsura delle regioni torride, due ore dopo, senza dimenticare quanto rimaneva dell'arrosto, si mettevano in cerca d'una sorgente.

Erano già giunti sulla riva d'un ruscelletto e stavano bagnandosi per rinfrescarsi un po', quando il dottore vide William balzare rapidamente sulla riva.

— Avete veduto qualche altro animale? — gli chiese.

— No.

— Perché siete uscito dall'acqua?

— Avete udito nulla, voi?

— Sì, il mormorio dell'acqua — rispose il dottore ridendo.

— Ed uno sparo?

— Uno sparo! Che dite?

William, invece di rispondere, si era curvato inanzi, come se avesse cercato di raccogliere un lontano rumore.

— Che ascoltate? — chiese il dottore.

— Vi dico che Kambusi ci cerca — rispose William, rialzandosi col viso raggiante.

— Come lo sapete?

— Voi dite di non aver udito nulla?

— No, d'altronde sono un po' duro d'orecchi.

— Io ho udito una lontana detonazione.

— Possibile! — esclamò il dottore.

— I miei orecchi sono acuti.

— E noi?...

— E noi risponderemo — disse William. — Dottore, scaricate il vostro fucile.

Alzarono le carabine e fecero fuoco. Le due detonazioni risuonarono sordamente nella densa atmosfera, come in mezzo ad una nebbia. Il fumo rimase quasi fermo in una nuvola biancastra, a due o tre metri dal suolo.

William si era curvato ed ascoltava. Poco dopo si alzò, dicendo:

— Hanno risposto. Ho udito uno sparo.

— Come farà a trovarci colui che ci cerca?

— Continueremo a sparare ad intervalli di cinque minuti — rispose William.

— Che sia Kambusi?

— Ne ho la certezza.

Ricaricarono le armi e dopo cinque minuti fecero di nuovo fuoco.

Una terza detonazione rispose e questa volta così forte che anche il dottore la udì.

— Andiamo incontro al negro — disse William.

I due tedeschi si posero in cammino, prendendo un sentiero appena tracciato, al di sopra del quale i rami, fracassati come se degli elefanti si fossero aperto un passaggio, formavano una specie di strada coperta. Gli spari si succedevano a regolari intervalli sempre più vicini; Kambusi, ammesso che fosse lui, si avvicinava in fretta, guidato dalle fucilate dei due cacciatori. Finalmente un uomo apparve allo svolto del sentiero. William non si era ingannato: quell'uomo era Kambusi.

Il negro, appena scorto il padrone, gli si lanciò incontro, gridando:

— Signore, la giraffa bianca!

William ed il dottore, sussultando per la sorpresa, esclamarono:

— La giraffa bianca!

— Sì, padrone — disse il negro. — Ha attraversato la pianura ieri sera, guidando un numeroso drappello di compagne.

— Non ti sei ingannato? — gridò il dottore.

— No, signore. È passata ieri sera a trecento passi dal carro e abbiamo potuto vederla distintamente.

— E non l'avete inseguita? — chiese William.

— Abbiamo fatto fuoco senza colpirla. La banda galoppava con tanta rapidità che scomparve prima che noi avessimo potuto insellare i cavalli.

— E dove è fuggita?

— Nel bosco.

— Da dove veniva?

— Da uno stagno che si trova in mezzo alle macchie. Suppongo che vada ad abbeverarsi in quel luogo.

— Dottore! — esclamò William. — La giraffa bianca, presto o tardi, cadrà nelle nostre mani.

— Ma tu, padrone, non l'hai veduta? — chiese Kambusi, che pareva sorpreso.

— No.

— E perché non siete tornati al carro? Io credevo che l'aveste incontrata e che fuggisse dinanzi a voi.

— Ci siamo smarriti, Kambusi.

— Infatti, seguendo le vostre tracce, ho veduto che avete descritto mille diversi giri, ora piegando ad occidente ed ora verso oriente.

— È stata una fortuna che tu ci abbia trovato — disse il dottore. — Non sapevamo più come fare per ritornare al carro.

— Siamo molto lontani? — chiese William.

— Almeno cinque ore di cammino — rispose Kambusi.

— Hai portato con te la bussola?

— Sì.

— Tu sai dove è andata la giraffa bianca?

— Approssimativamente lo so.

— Guidaci da quella parte. Può darsi che la incontriamo.

— Allora pieghiamo verso occidente e camminiamo in silenzio — disse Kambusi.

I due tedeschi vuotarono la fiaschetta del negro, che era piena d'acqua mescolata con rhum; quindi si misero in cammino.