La giraffa bianca/13. Nella foresta

13. Nella foresta

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13.

NELLA FORESTA


Dopo il mezzodì del giorno seguente, mentre i negri erano occupati a rinforzare l'accampamento costruendo un kraal anche intorno al carro, William ed il dottore si incamminarono verso la foresta.

Volevano fare una prima esplorazione per cercare le tracce delle giraffe e per procurarsi altresì della selvaggina e specialmente qualche volatile, avendo veduto immensi stormi di ottarde.

— Questi volatili sono più squisiti delle antilopi, — aveva detto William — e meritano un colpo di fucile. Dovremo però caricare le nostre armi con pallini.

E così fecero, senza pensare che da un istante all'altro potevano trovarsi di fronte a qualche animale pericoloso invece che alle ottarde. Quella parte della foresta che si accingevano a visitare non era così folta come aveva dapprima creduto il dottore.

Era essa formata da radure, ove pareva che la natura avesse accumulato tutte le ricchezze dell'Africa meridionale, e da macchie colossali. Nelle prime si vedevano crescere fiori d'ogni specie: gigli di nivea bianchezza, tulipani dai vivi colori, giacinti e tuberose che rendevano l'aria olezzante e poi ananassi di quattro o cinque pollici e canne da zucchero selvatiche; le seconde invece erano formate da palmizi, da tamarindi, da baobab, da cedri grossissimi, sui cui rami volavano molti e svariati uccelli.

— Che foresta splendida! — esclamò il dottore.

— Pensiamo alle nostre ottarde — disse William. — Ne vedo alcune che fuggono dinanzi a noi.

— Andiamo a cacciarle, amico.

I due tedeschi entrarono in mezzo alle macchie, procedendo lestamente e senza curarsi della direzione che prendevano.

Di chilometro in chilometro che si allontanavano dall'accampamento, la foresta diventava più folta. Le radure sparivano e le macchie invece diventavano sempre più enormi.

Le ottarde, accortesi di essere inseguite, fuggivano dinanzi ai cacciatori, senza servirsi delle ali, perché questi grossi uccelli sono così svelti di gambe che di rado si levano in aria.

William ed il dottore, sempre più decisi ad ucciderne almeno una coppia, continuarono ad avanzarsi a casaccio, senza badare alle miglia che facevano. Dovevano essere già molto lontani dal campo quando riuscirono finalmente a scoprire sei o sette di quegli uccellacci nascosti in mezzo ad un cespuglio. Due caddero subito sotto i loro colpi; gli altri invece fuggirono schiamazzando.

I due tedeschi stavano ricaricando i fucili per inseguire i fuggiaschi, quando William fece segno al dottore di fermarsi.

— Vi sono altre ottarde nascoste? — chiese questi.

— Lo suppongo, dottore. Avete caricato il fucile?

— Sì.

— Preparatevi a far fuoco.

In quel momento giunse fino a loro il rumore d'un forte sbadiglio.

— Questo sbadiglio non è delle ottarde! — esclamo William, diventando leggermente pallido. — Chi abbiamo dinanzi a noi? Non c'è da scherzare!

Contemporaneamente vide i rami bassi del boschetto aprirsi ed apparire un grosso leopardo dal mantello macchiato, il quale evidentemente aveva fatto la siesta sotto quelle fresche fronde.

Quando William ed il suo compagno, molto sconcertati da quell'inaspettato incontro, le apparvero, la fiera stava stirandosi dolcemente, sbadigliando. Anche la belva, non meno sorpresa dei due cacciatori, era rimasta immobile, indecisa sul da farsi.

William, per prevenire l'assalto, puntò risolutamente il fucile; ma subito lo abbassò: si era rammentato d'averlo caricato con soli pallini. Il leopardo, avendo veduto quella mossa, si era abbassato tanto che il ventre toccava quasi il suolo.

— Dottore! — esclamò William. — Sta per saltarci addosso!

— Facciamo fuoco!

— Le nostre armi non sono cariche a palle.

— Allora siamo morti! — gridò lo scienziato.

— Preparatevi a fuggire.

Ciò detto, William rialzò rapidamente il fucile e lo scaricò sul muso della belva, subito imitato dal dottore.

Le due detonazioni si confusero in una sola e tuttavia non poterono coprire uno spaventevole urlo di rabbia che uscì dalla gola della belva mutilata. Le sue zampe si stesero come molle e William la vide, attraverso il fumo, slanciarsi al di sopra della sua testa e cadere dietro il dottore. Afferrare vigorosamente il suo compagno mezzo istupidito dallo spavento e fuggire a rompicollo fu per il cacciatore l'affare d'un solo istante.

— Salviamo il dottore, prima di tutto — si era detto. — Poi vedremo.

Fece in tal modo una trentina di passi in pochi secondi; poi non vedendosi inseguito si arrestò, ricaricando precipitosamente la carabina, ma questa volta a palla.

— Mi pare impossibile che il leopardo non ci abbia inseguiti — disse.

— Non ci corre dietro? — balbettò il dottore.

— Si è fermato dove l'abbiamo incontrato.

— Forse i nostri pallini l'avranno ucciso.

— Non è possibile, dottore. È bensì vero che le nostre armi erano cariche a pallettoni, ma non credo che abbiano potuto uccidere simile animale che resiste alle palle coniche. Volete che andiamo a vedere?

— Tornare indietro?

— Ho messo una palla nel mio fucile, quindi non dovete temere.

— Io preferirei andarmene anche più lontano.

— Allora andrò solo.

— No, William, vi accompagno.

I due cacciatori tornarono adagio sui loro passi, ritrovarono subito le orme della belva, e le seguirono facilmente poiché le erbe erano coperte da macchie di sangue.

— Se non l'abbiamo uccisa, è per lo meno ferita — disse William. — Si vede che erano pallini di prima qualità.

— Osservo anche una cosa — disse il dottore.

— Spiegatevi.

— Che il leopardo non è fuggito tenendo una linea diritta. Non vedete? Le sue orme descrivono degli zigzag curiosissimi.

— E sapete che significano questi zigzag? — domandò William.

— Sì. I nostri pallini devono aver acciecato la belva.

— Precisamente, dottore.

Avevano percorso trecento metri quando videro il leopardo steso al suolo presso un grosso palmizio.

Non era morto, giacché i suoi fianchi battevano ancora convulsivamente, ma non riusciva a rimettersi sulle zampe ad onta degli sforzi che faceva e che diminuivano rapidamente.

Era in agonia e si capiva che questa doveva essere terribile dal modo con cui gli artigli della belva straziavano il suolo e la scorza dell'albero.

— Chi crederebbe che con due scariche a pallini siamo riusciti a massacrare un leopardo — esclamò William. — È cosa incredibile! Se narrassi ciò ad altri cacciatori mi tratterebbero da spaccone.

— Eppure è vero — disse il dottore.

Le scosse della fiera erano intanto cessate; i fianchi non le battevano più ed i rantoli si udivano appena.

William era sicuro che sarebbe morta; però, conoscendo la prodigiosa vitalità di quelle fiere, per maggior sicurezza pensò di darle il colpo di grazia. Mirò sotto la spalla e fece fuoco in modo da colpirla al cuore.

L'animale mandò un lungo rantolo, fu agitato da un rapido fremito, poi rimase immobile.

William ed il dottore gli si avvicinarono per contemplarlo meglio e vedere i danni causati dalla doppia scarica di pallini.

Tutta la parte superiore del cranio era stata forata, le orbite degli occhi apparivano completamente vuote, il naso non esisteva quasi più e la pelle del muso era in parte staccata.

Fatto quel colpo meraviglioso, i due tedeschi pensarono di tornare indietro, poiché si erano già troppo allontanati dal campo. Avrebbero voluto portare con loro almeno la pelle della belva; ma le due ottarde pesavano assai, sicché decisero rinunziarvi.

— Andiamo — disse William. — Ci siamo inoltrati troppo in questa foresta e non so se riusciremo a ritrovare facilmente la via.

— Non avete portato con voi la bussola?

— No, dottore, e temo che questa imprudenza ci possa costar cara.

— Quanto saremo lontani dal campo?

— Molte miglia di certo. Le ottarde ci hanno fatto correre assai. Facciamo uno spuntino, poi in marcia.

William, da uomo previdente, portava sempre con sé qualche cosa da porre sotto i denti.

Si levò di tasca due gallette ed un po' di prosciutto, che divise col dottore, e ben presto il giovane ed il vecchio si posero a mangiare con un appetito da lupi. Bevettero poscia un sorso d'acquavite, mescolata ad un po' di caffè; quindi si prepararono a tornare indietro.

William si orientò alla meglio, si pose in ispalla il fucile ancora armato, attaccò una delle due ottarde alla bretella e si mise in cammino, precedendo il dottore. Visto un sentiero che serpeggiava attraverso la foresta, lo seguirono credendo che li conducesse nella prateria; ma dopo parecchie ore si accorsero invece di essersi sempre più inoltrati nella immensa boscaglia. Per peggio il suolo diventava sempre più aspro, pur restando coperto da piante, sicché i due cacciatori, carichi delle due ottarde che erano molto pesanti, si avanzavano con grande difficoltà.

Quando giunse la sera, il dottore e William non ne potevano più ed erano forse più lontani dal campo che la mattina.

— Fermiamoci qui e passiamo la notte presso questo baobab — disse William. — Domani ci orienteremo meglio.

— I nostri negri saranno assai inquieti — disse il dottore.

— Non molto; ci sono abituati. Ho passato spesso la notte fuori del campo; ci crederanno sulle orme della giraffa bianca.

— Ci lasceranno tranquilli le belve?

— Accenderemo dei fuochi e veglieremo.

Mentre il dottore si metteva a spennare una delle ottarde, William raccolse molti rami secchi e, con pietre, trovate in un crepaccio del suolo, formò una specie di focolare.

Acceso il fuoco, andò a riempire la sua fiaschetta in un ruscelletto, poi mise ad arrostire l'ottarda, infilandola nella bacchetta di ferro del fucile. Terminato il pasto, si levarono gli stivali e si sdraiarono presso il baobab, non lungi dal fuoco.

La stanchezza ben presto li vinse ed entrambi, dimenticando le belve che forse si trovavano poco lontano, si addormentarono.

I due tedeschi dormivano da un paio d'ore, quando ruggiti terribili interruppero il loro sonno.

— Un leone? — chiese il dottore, destandosi bruscamente. William si era già destato e steso bocconi cercava di scoprire il feroce animale, ancora nascosto fra le tenebre.

I ruggiti si avvicinavano sempre più, quando tutto ad un tratto due occhi fiammeggianti brillarono nell'oscurità a soli trenta passi dall'accampamento. Ai riflessi del fuoco, che non si era ancora spento, William vide un leone di grandi proporzioni, colla criniera bruna.

La fiera guardò per alcuni istanti i due uomini, come per scegliere la vittima che meglio le conveniva, e si preparava a balzare. Già stava per piombare addosso ai due cacciatori, quando dalla parte opposta si vide apparire un'ombra umana.

Il leone, sorpreso da quell'apparizione, si era voltato. Rannicchiarsi e spiccare un gran salto in quella direzione fu un momento.

I tedeschi udirono un grido, poi un rumore di ossa spezzate.

— Fuoco! — gridò William.

Scaricarono precipitosamente le loro armi, poi balzarono attraverso i cespugli per allontanarsi.

Il leone, il quale non doveva essere stato gravemente ferito, con un secondo salto fu loro addosso; ma, avendo forse mal calcolato lo slancio, non riuscì che a gettarli al suolo l'uno sull'altro.

Quando William si alzò, la belva era tornata verso la vittima, ruggendo ferocemente.

— Mi pare impossibile di essere vivo — disse William. — Dottore, siete ferito?

— No, amico — balbettò lo scienziato. — Cosa è avvenuto?

— Pare che il leone abbia atterrato un uomo e che stia divorandolo.

— Che sia uno dei nostri negri?

— Conosco troppo bene la voce dei miei uomini per ingannarmi. Quel povero uomo ha mandato un urlo da vero selvaggio.

— Sarà morto?

— Sul colpo. Il leone deve avergli stritolato il cranio.

— Che poteva fare quel negro solo in questa foresta?

— Si sarà smarrito come noi.

— E lo lasceremo divorare dal leone?

— Che volete? Ormai è morto e noi faremo bene a rimanere qui nascosti. Con questa oscurità non si può mirar bene. Se il leone all'alba sarà ancora qui l'avrà da fare con me; per ora non muoviamoci.

Nascosti in mezzo ai cespugli, i due tedeschi furono costretti ad assistere, impotenti, al macello della vittima. Udivano il leone brontolare e rompere le ossa del disgraziato.

Mezz'ora dopo videro l'animale balzare attraverso le piante ed allontanarsi. Aveva abbandonato le gambe e metà del corpo della vittima. William ed il dottore, vedendolo allontanare, si erano alzati per andare a riconoscere il cadavere; ma appena usciti dai cespugli videro avanzarsi una quantità di belve aspiranti agli avanzi della mensa del leone. Erano jene e sciacalli, i quali correvano a dilaniare quel po' di carne lasciata dalla terribile fiera.

Il re della foresta è sempre scortato, a rispettosa distanza, da una folla di questi mendicanti; appena egli ha soddisfatto l'appetito, essi si strappano le briciole del suo banchetto.

Prima fra quei parassiti è la jena: fiera troppo vile e troppo pigra per cacciare da se stessa, si accontenta delle carogne gettate negli ossari e di quelle che può rubare clandestinamente sulla caccia dei felini; quindi vengono i piccoli lupi, indicati sotto il nome di sciacalli, che s'incontrano dal Capo di Buona Speranza fino sulle rive del Mediterraneo.

Come tutti i grandi felini, il leone non mangia ordinariamente che gli animali da lui uccisi e di rado divora tutto, sia che la sua ghiottoneria non sorpassi i limiti del naturale bisogno, sia che ami alzarsi dignitosamente da tavola.

In caso di penuria esso torna all'animale ucciso il giorno prima, altrimenti disprezza quell'avanzo e lo abbandona alle jene ed agli sciacalli. Questi animali, conoscendo le regali abitudini del leone, lo seguono nelle cacce e quando ha terminato di mangiare si gettano sugli avanzi, senza aspettarne il permesso, convinti probabilmente che il suo maestoso spregio permetterà loro di saccheggiare liberamente, anche dinanzi la sua altera persona.

I due cacciatori, non essendo sicuri che il leone si fosse molto allontanato e non desiderando affrontare quegli schifosi animali, tornarono nel loro nascondiglio, lasciando che inghiottissero gli avanzi del negro.

Il pasto durò soltanto sei o sette minuti, dopo di che jene e sciacalli tornarono d'onde erano venuti.

— Finiremo col farci divorare, stanotte — disse il dottore.

— Infatti la foresta è piena di animali feroci — soggiunse William. — Udite? Ecco altri leoni!

In mezzo alla boscaglia scoppiarono, come tuoni, alcuni ruggiti; tali grida sonore indicavano la presenza di numerosi leoni.

— Verranno ad assalirci? — chiese il dottore, tremando.

— Se si accorgono della nostra presenza verranno certamente per divorarci — rispose William.

— Dove ci possiamo rifugiare?

— Mi viene un'idea.

— Dite, William.

— Se ci arrampicassimo su qualche albero? Vedo qui presso un baobab che farà per noi.

— Arrampichiamoci.

Il colosso indicato dal giovane cacciatore si trovava a cinquanta passi di distanza. Era un albero superbo, col tronco molto grosso che misurava circa dieci metri di circonferenza e all'altezza di quattro metri si divideva in innumerevoli rami.

William ed il dottore si aggrapparono ad alcuni giovani rami, che crescevano più sotto e, aiutandosi vicendevolmente, giunsero al coronamento del tronco, dove una piattaforma, abbastanza grande per ricevere una intera famiglia, offriva loro il desiderato rifugio.

— Eccoci al sicuro dagli assalti dei leoni — disse William.

— Non però da quelli dei leopardi — soggiunse il dottore.

— Queste belve si accompagnano raramente coi leoni; possiamo quindi dormire qualche ora.

Stavano per sdraiarsi quando udirono dei ringhi e delle urla. Erano altri sciacalli che si disputavano le ossa già pulite del povero negro. La luna penetrando fra i rami del baobab permise ai due tedeschi di vedere la muta urlante. Stritolate le ossa, e fu cosa di un istante, gli sciacalli scomparvero. Sopraggiunsero poco dopo quattro grosse jene, ma non si fermarono e passarono oltre sghignazzando.

Una pantera, i cui occhi brillavano di lampi sinistri, le seguì ad un quarto d'ora d'intervallo; poi un leopardo, grosso quanto una tigre, le tenne dietro. Passando sotto il baobab fece atto di balzare sui rami, forse coll'intenzione di vedere se nulla fosse nascosto sul tronco; fortunatamente cambiò idea e continuò la sua strada.

Alla pantera ed al leopardo succedettero più tardi un leone, una leonessa e tre leoncelli di sei o sette mesi, a giudicarli dalla loro statura non superiore a quella d'uno sciacallo.

Siccome i leoncelli accompagnano i loro genitori a caccia, all'avvicinarsi dell'epoca in cui vengono slattati, ossia all'età di cinque mesi, per imparare a nutrirsi da se stessi, così William non dubitò di trovarsi in presenza di un leone e di una leonessa che davano lezioni di rapina ai loro piccoli. Questi sbuffavano e sembravano estenuati. I genitori li lasciarono riposare e si accucciarono al loro fianco, battendosi i fianchi colla coda.

— Che vogliano rimanere qui? — si domandò William.

— Non ci mancherebbe altro! — disse il dottore.

Ad un tratto il leone e la leonessa si alzarono, fecero il giro dell'albero, ruggendo e fiutando l'aria, come se cercassero qualche cosa.

— Ci hanno scoperto — disse William, preparando il fucile.

Ai ruggiti dei genitori si unirono i miagolìi dei piccoli e la foresta risuonava di questi rumori.

William puntò il fucile mirando il maschio, mentre il dottore lo puntava sulla femmina, allorché tutta la famiglia balzò verso un folto cespuglio situato dall'altra parte di un torrentello, dove probabilmente nascondevasi qualche grossa selvaggina, e si eclissò per incanto.

— Meglio così! — disse William.

Il rimanente della notte trascorse abbastanza calmo ed i tedeschi salutarono con gioia il primo raggio di sole, ben sapendo che i carnivori sarebbero rientrati nelle tane, permettendo loro d'intraprendere la difficile marcia.