Marcello Giovanetti

Indice:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu Sonetti Letteratura XI. La fontana nel giardino di Tivoli Intestazione 2 agosto 2022 100% Da definire

Presso un bel rio, che de la sponda erbosa Fra l'atra notte e 'l luminoso giorno
Questo testo fa parte della raccolta Poesie di Marcello Giovanetti
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XI

LA FONTANA NEL GIARDINO DI TIVOLI

RAFFIGURANTE L’ANTICA ROMA

Al cardinale Alessandro d’Este

     Colá dove con flebile singulto
il precipizio suo piange Aniene,
mentre con procelloso aspro tumulto
giú da’ monti latini a cader viene,
che poi, placido fatto, or muove occulto
fra cavi sassi e sotterranee vene,
or con la lingua tremola de l’onde
lambendo va le tiburtine sponde;
     s’apre vago giardin, di cui natura,
di cui l’arte la palma aver presume,
che poi (sia loro o negligenza o cura)
di cangiar le vicende han per costume.

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Or dentro a queste villarecce mura,
libero volse imprigionarsi il fiume,
e sembra sol che di formar s’appaghi
loquaci fonti e taciturni laghi.
     Qui le ninfe de’ liquidi cristalli
con le ninfe de’ monti in schiera accolte,
fabbricando tra lor trecce di balli,
ora in gruppi annodate ora disciolte,
scherzando gían per quegli ondosi calli
con auree chiome in su le fronti avvolte,
e di mirto e d’allòr frondosi rami
eran del biondo crin verdi legami.
     Giunse fra loro altera donna armata
in sembiante magnanimo e augusto;
ferreo arnese copria la fronte aurata,
grave d’asta la man, d’usbergo il busto.
Forse in aspetto tale figurata
Pallade fu nel secolo vetusto,
e dagli anni e da l’arme ancor non doma
nel suo volto esprimea l’antica Roma.
     Per ascoltar costei le gelid’urne
lasciâr de’ fonti lor Tetide e Flora;
dagli antri oscuri alzâr le membra eburne
la dea casta e la dea che n’innamora;
cessâr da l’opre solite dïurne
gli augelli e l’aure mormoranti allora,
e per non fare a lei garrule offese
il corso per udir l’onda sospese.
     — O de l’altro Alessandro emolo altero —
disse — e de l’attio sangue inclito pegno,
splendor de l’ostro, cardine di Piero,
aquila lucidissima d’ingegno,
di magnanimitá ritratto vero,
de la nuda virtú ricco sostegno,
de l’antico valor novella prole
e del ciel de la gloria unico sole;

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     lascia oggimai, ti prego, i sette colli
che di Roma novella ornano il seno,
che sol di fasto allettatrici e folli
aure nutre nel torbido sereno,
ha mentiti i costumi, i vezzi ha molli,
nel facondo suo dir mesce il veleno,
e allora indice altrui guerra verace
quando par che piú spiri aura di pace.
     Lascia pur Roma, e vieni omai qui dove
fresco è il rio, dolce è l’aura e lieto è il cielo;
nembo di perle qui l’aurora piove
qualor diffonde il maturino gielo;
la libertá, ch’invan si brama altrove,
qui sol lieta fiorisce in ogni stelo;
e van per l'amenissime pendici
l’aure, de l’alme ognor tranquillatrici.
     Qui senza velo agli occhi altrui dispiega
nuda semplicitá le sue ricchezze;
qui riposa il Riposo e qui non nega
di compartir altrui pure dolcezze;
qui con laccio di gioia i sensi lega
l’ombra fra le real salvatichezze;
né può quinci lontano esser diviso
s’è ver ch’abbia la terra il paradiso.
     Vieni, e de’ grandi Augusti il mio desio
di nuovo in te vagheggi i gesti e l’opre;
vieni, ch’ogn’uom costí fallace e rio
sotto contrario vel l’alma ricopre;
qui schietto il fonte e trasparente il rio
sin da l’intimo fondo il cor ti scopre;
e, di te imitatrice, in grembo ai fiori
versa prodiga vena i suoi tesori.
     Se le romane mura e gli archi e i tempi
ti spiace forse di lasciarti a tergo,
qui, dagli Estensi tuoi sottratta agli empi,
mirerai d’altra Roma il prisco albergo;

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ch’io qui ricovro e de’ passati scempi
fra i diluvi de l’acque il duol sommergo,
e trovo sol per questi chiostri ombrosi
nel secolo del ferro aurei riposi.
     Qui, qui, scorno del tempo, onta de l’armi,
ogni abbattuta mole anco torreggia;
qui co’ teatri e con le statue parmi
traspiantata veder l’antica reggia;
distillan acque gli obelischi e i marmi
e quasi la cittá fra l’acque ondeggia;
vieni, e se ’l Tebro hai di veder desio
ho fra queste mie sponde il Tebro anch’io.
     Qui potrá sollevar da gravi cure
l’alma tua degnamente ozio non vile:
vedrai Pandora acque salubri e pure
dal suo vaso stillar, fuor del suo stile;
e Bacco, invece pur d’uve mature,
ampie tazze colmar d’onda simile;
e, lasciato Elicona il bel Pegaso,
d’acque aprir con la zampa argenteo vaso.
     Vedrai per te formar con saggi errori
i fonti, al ciel balzando, umidi giochi;
di finti augelli inanimati cori
sciorranno a te canti non finti o rochi;
vedrai lieta spelonca in cui gli Amori,
poste in disparte le saette e i fochi,
al cenno di colei che dal mar nacque,
i petti altrui san fulminar con l’acque.
     Fastose ch’a tal gloria il ciel sortille,
se son di fasto qui l’onde capaci,
con riverenti, ossequïose stille
stamperan su ’l tuo piè gelidi baci:
le fontane piú lucide e tranquille
faransi al volto tuo specchi vivaci,
e ’l dio de l’onde anch’ei sará tenuto
darti in coppa d’argento il suo tributo.

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     Vieni, Alessandro, e mirerai disciorsi
in lagrime di gioia i vivi fonti;
a le tue piante i lor marmorei dorsi
supporran volentier portici e ponti;
e i simolacri e le colline forsi
per adorarti piegheran le fronti:
certo, per pregio suo fia che s’inchine
la palma e ’l lauro a coronarti il crine.
     Ma se a l’altro Alessandro intero un mondo
era spazio incapace, angolo breve,
il tuo valor, che non ha mèta o fondo,
termine angusto imprigionar non deve.
Sollo, gran prence, e pur non mi confondo,
ma d’adempir miei voti anco fia lieve,
ché ben che sia maggior de l’ampia terra,
pure in brieve epiciclo il Sol si serra. —
     Accompagnò quest’ultime parole
con lieti applausi ogn’aura, ogni spelonca,
e dispiegar da le canore gole
i selvaggi cantor voce non tronca;
ogn’onda mormorò piú che non suole
armonïosa entro la propria conca,
ed agli organi diè, con modo ignoto,
a tempo il canto ed a misura il moto.
     Fûr veduti a la fin da cento bocche
cento fiumi versar gonfi serpenti,
e con tal precipizio avvien che fiocche
il bel diluvio di que’ molli argenti,
che sembra udir da le superbe ròcche
il sonoro ulular de’ bronzi ardenti.
Ai lieti augúri, al plauso de le linfe
Eco rispose e risero le ninfe.
     Pastor del Tronto a vagheggiar sedea
gli orti famosi, a cui null’altro agguaglia,
di cui forse men bello esser dovea
o ’l giardino di Pesto o di Tessaglia.

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Or mentre ei d’alta gioia il cor ricrea,
le sparse voci in verde pianta intaglia;
poi, con note che ruvide compose,
al gran prencipe estense il tutto espose.