La fame del Globo/Cap. 9

Dollaro, petrolio, grano, tre variabili, un’incognita nell’equazione del Pianeta

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Dollaro, petrolio, grano, tre variabili, un’incognita nell’equazione del Pianeta
Cap. 8 Cap. 10

Pubblicato su Archivio Osvaldo Piacentini n.11-12 Reggio Emilia aprile 2008

Rivista I tempi della terra


Dopo due lustri di cedimenti il dollaro è crollato: le autorità monetarie americane hanno abbandonato ogni tentativo di restituirgli il ruolo di termine degli scambi internazionali. Probabilmente hanno verificato che l'economia degli Stati Uniti non è più in grado di dominare l'economia del Pianeta. Tentare dissanguerebbe inutilmente la ricchezza americana. Perduto il proprio valore il dollaro non si scambia più con l'energia secondo il vantaggioso rapporto del passato: per disporre di una nuova moneta gli Stati Uniti hanno deciso di interrompere la fornitura di mais agli allevamenti dell'Europa e dell'Asia. Convertito in energia il mais americano sarà il nuovo strumento della potenza a stelle e strisce. I paesi che, privi di mais, non potranno più produrre carne, dovranno comprare carne americana ai prezzi che deciderà Washington


Se ne è accorta la televisione di intrattenimento. Chi scrive non possiede un televisore, ma è stato costretto, a casa di un amico, ad un pomeriggio alla presenza incombente del teleschermo. Era la vigilia di Natale: divi di vario splendore e numi del proscenio politico erano interpellati sui preparativi del cenone. L’anziano Mentore del serial televisivo rimpiangeva i tempi in cui era possibile acquistare l’indispensabile per il cenone con un milione di lire, si univa al lamento l’alfiere della politica spettacolo della rutilante età di Craxi, l’amabile intrattenitore interrompeva l’intervista e cedeva la linea all’inviato speciale al mercatino rionale, che mostrava, indignato, i prezzi sul tronco di pescespada e sul cumulo di indivie. Sdegnato da quello delle ciliegie, 22 euro al chilo! Un frutto di stagione! Per Natale!

Scarico di chiatte fluviali al terminale sul Mississippi ad Ama, nell'area portuale di New Orleans. Le chiatte giungono dagli affluenti del Grande Fiume che lambiscono i confini canadesi con un viaggio di tre settimane.

Se ne sono accorte le gazzette della provincia piemontese e romagnola, che hanno affrontato l’argomento con impegnative interviste al direttore della superette e alla pensionata che la pasta, ai prezzi che ha raggiunto, non può più permettersela. Se ne è accorto il re dei giornali, che ha bandito le appassionate denunce della signora che ispira il pensiero delle casalinghe con villa all’Argentario e a Cortina: cresce il prezzo degli alimentari, è inaudito.

Nella denuncia che ha accomunato tv spazzatura e gazzette delle capitali del salame e del buon vino gli esperti interpellati non hanno esitato a identificare la causa dei rincari in un crimine orrendo: la speculazione. Singolarmente, chi denuncia la speculazione sul quotidiano che si stampa in via Solferino leva lo stesso grido che, a distanza di due isolati, levava, l’anno di grazia 1628, il giorno di San Martino, la folla che assaliva i forni di piazza Cordusio: morte agli incettatori!

Se ne è accorta la tv spazzatura, se ne sono accorti i settimanali sfoglia e getta: il prezzo del cibo cresce. Ha iniziato a crescere quello dei cereali, li ha seguiti il latte, li seguirà, inevitabilmente, la carne, che dei cereali non è che un derivato. Rialzi modesti. Un chilo di pane costava, nel 1960, come un chilo di frumento: 60 lire. Il guadagno del mugnaio corrispondeva al valore della crusca, quello del fornaio a quello dell’acqua. Oggi (ieri) per acquistare un chilo di pane occorre (occorreva) il ricavato di venti chili di frumento: i panettieri hanno potuto rispondere al primo aumento della farina senza ritoccare il prezzo del pane.

Aumenti modesti, che, fossero, come proclamano gli esegeti della tv, frutto della speculazione, potrebbero dissolversi appena le autorità infliggessero qualche punizione esemplare. Che era quanto chiedeva la folla in piazza Cordusio. “Siccome, però, tutti i provvedimenti di questo mondo, per quanto siano gagliardi –rileva l’illustre cronista della sommossa- non hanno virtù di diminuire il bisogno del cibo, né di far venir derrate fuor di stagione…così il male durava e cresceva…” Che costituisce il problema sul quale i pizzicagnoli del mercato rionale intervistati dalla Tivu non sanno pronunciarsi: continueranno i prezzi a salire? Il male è fenomeno congiunturale, o è destinato a protrarsi?

Nel 1972 l’agricoltura sovietica, gigante deforme e impotente, realizzò un raccolto tanto esiguo che l’inverno sarebbe stato senza pane. Si riunisce il Politburo: sull’aula incombe lo spettro di Novocherkassk, la città dove dieci anni prima, in circostanze analoghe, la folla affamata si è scontrata con la polizia, che ha sparato uccidendo decine di dimostranti. Il consesso verifica che al cittadino sovietico è già proibito tutto: non si può proibirgli di mangiare. Le riserve di oro consentono, peraltro, l’acquisto di quanto frumento e mais si voglia: con venti tonnellate di metallo si acquistano quaranta milioni di tonnellate di cereali, da trasformare in carne e formaggio, e continuare a ripetere ai sudditi che solo loro, in un Pianeta affamato, imbandiscono la tavola con la carne due volte la settimana.

A differenza degli occidentali i sovietici sanno decidere in segreto: la scelta dei vertici è trasmessa all’organo creato, con magniloquenza, per esportare cereali, che in incontri riservati con i mercanti americani acquista 24,2 milioni di tonnellate. Il riserbo è tale che quando il presidente Nixon, informato dalla Cia il 31 agosto, informa i giornali, gli americani si accorgono che le scorte nazionali sono state trasferite dal Mississippi ad Odessa. Per due anni steack e hamburger saranno più cari.

Segue la più violenta impennata dei prezzi che si sia registrata nella metà di secolo trascorso tra il 1955 e il 2005. L’Italia è colta disarmata, a Napoli (naturalmente Napoli) vengono assaliti tre forni, un terrorizzato ministro dell’agricoltura, Mario Ferrari Aggradi, vola a Washington a implorare l’aiuto del collega americano, che gli spiega che il suo Governo non commercia in granaglie, ma che sarà sufficiente prolungare il viaggio fino a Chicago per acquistare, al Board of trade tutto il grano e il mais che l’Italia desideri convertire in pane e salcicce. I prezzi erano alti? Il Ministro non comanda alla Borsa.

La fiammata dei prezzi accende il confronto tra gli osservatori dello scenario agrario internazionale: a chi sostiene che l’evento sia accidentale, siccome le capacità del Pianeta di produrre alimenti sarebbero lontane dai propri limiti, si oppone chi asserisce che gli acquisti russi hanno prodotto l’emergere del primo segno della rottura degli equilibri tra risorse naturali e bisogni dell’umanità, che continua a crescere numericamente e a dilatare il prelievo di ogni abitante sul patrimonio comune. Nell’Italia felice di essere assurta a potenza industriale, in fidente attesa che sindaci e geometri urbanizzino l’ultimo metro di campagna, il confronto non desta che eco remote. Tra Washington, Parigi e Pekino si svilupperà, invece, nei decenni successivi.

Se ne può enucleare il contrappunto nel rilievo con cui ha definito le ipotesi opposte, in un saggio relativamente recente, Alex Mc Calla, professore in California, capo di uno degli uffici studi della World Bank. Alle opinioni opposte, la certezza dell’esistenza, su scala planetaria, di potenzialità produttive inespresse, l’asserzione che i margini residuali sarebbero esigui, corrisponderebbe esattamente, secondo l’economista americano, la professione degli studiosi schierati sotto le bandiere contrarie: la prima tesi raccoglierebbe il consenso degli economisti, la seconda quello dei naturalisti. La certezza dei primi che l’agricoltura mondiale possa produrre molto di più, si fonderebbe, secondo Mc Calla, sul rilievo del trend calante dei prezzi reali durante l’intero cinquantennio chiuso l’anno 2000: prezzi calanti significano, secondo un dogma economico inviolabile, assenza di stimoli ad investire. Se gli agricoltori hanno aumentato le produzioni, per cinque decenni, a prezzi calanti, è certo, per gli economisti, che, se i prezzi fossero saliti, gli stessi agricoltori avrebbero investito, e prodotto di più.

Sul fronte opposto, gli esponenti delle discipline naturalistiche, geografi, pedologi, botanici e agronomi, hanno continuato a sommare le ragioni per cui l’agricoltura del Pianeta non potrebbe produrre molto più di quanto producesse l’anno 2000: su tutti i continenti città e industrie sottraggono volumi crescenti dell’acqua degli invasi creati per irrigare mais e frumento, e superfici immense di suoli, quelli di cui decine di generazioni di coltivatori hanno progressivamente elevato la fertilità. Centinaia di milioni di ettari, su tre continenti, sono preda dell’erosione, che sottrae centinaia di milioni di tonnellate di humus. Fertilizzanti e antiparassitari hanno contribuito, dal 1950, a triplicare le produzioni cerealicole, ma non è possibile distribuirne, sulle campagne dei sei continenti, quantità maggiori. La genetica, per i chierici della disciplina chiave di ogni aumento delle produzioni, sta rivelando limiti che nei decenni scorsi nessuno specialista avrebbe previsto. Gli ibridatori che, con procedure ancora primitive, creavano nuovi risi e frumenti negli anni Sessanta e Settanta, avrebbero ottenuto risultati tali da avvicinare le piante fondamentali ai propri “limiti biologici”: salvo “creare” piante nuove, i prodigiosi strumenti della biologia molecolare non sarebbero in grado di fare di più. A conferma del rilievo gli incrementi annuali delle produzioni essenziali denunciano, da tre decenni, una sistematica contrazione: si impiegano mezzi nuovi, gli incrementi che se ne ricavano sono inferiori a quelli che mezzi comparativamente rudimentali assicuravano negli anni Sessanta.

Due schieramenti, due analisi del medesimo scenario: da postulati diversi, un teorema economico, l’esame dello stato delle risorse, conclusioni in opposizione, prospettive future radicalmente divergenti. Il rilievo di Mc Calla riassume le argomentazioni del fronte degli economisti, non esonera dalla verifica delle tesi capitali dello schieramento avverso, tra le quali si impongono le enunciazioni di Lester Brown, già direttore dell’International agricultural development Service del Ministero dell’agricoltura di Washington, presidente di successivi centri di studi di cui voci informate hanno suggerito le affinità elettive con la Cia, nella sfera agraria interessata a verificare l’evoluzione dei rapporti tra le potenze in grado si soddisfare la richiesta mondiale di alimenti o di frustrarla.

Sostenitore, fino dal 1976, quando assumeva la presidenza del neo costituito Worldwatch Institute di Washington, dell’inarrestabile contrazione dei margini di produttività dell’agricoltura mondiale, Brown precisava la propria visione del futuro alimentare, nel 1995, in un pamphlet il cui titolo avrebbe costituito cippo miliare del dibattito sugli equilibri tra le risorse ed i bisogni umani. Who will feed China? Chi sfamerà la Cina? proponeva una tesi di elementare semplicità: la Cina ha vinto, scriveva Brown, il confronto millenario con la fame, lo ha vinto assicurando alla popolazione una dieta che supera le 3.000 calorie, una dieta fondata sul riso con contributi modesti di carne di pollo e suino. Ma la Cina mostrava di essere sulle soglie, era, sottolineo, il 1995, di uno sviluppo economico che si prospettava travolgente: il nuovo benessere avrebbe mutato, prima di qualunque cosa diversa, il regime alimentare, che avrebbe assunto come pilastro la carne. Ma la Cina non disponeva che di un decimo di ettaro di suoli arativi per abitante, una superficie con la quale la dieta occidentale fondata sulla carne è impossibile. E, convertendosi in potenza industriale, la Cina avrebbe ricoperto di cemento milioni di ettari di risaie: i cereali da trasformare in carne avrebbe dovuto acquistarli sul mercato mondiale.

Carico di un tanker oceanico allo stesso terminale sul Mississippi. Le stive del cargo fagociteranno il contenuto di quasi cento chiatte, che non può essere riversato direttamente, ma deve essere mescolato nei silos del terminal per avere l'esatto grade pattuito con l'acquirente del carico


L’industrializzazione cinese non avrebbe potuto non percorrere, argomentava Brown, la strada seguita da Giappone, Corea e Taiwan, che all’alba del proprio sviluppo disponevano di una superficie equivalente a quella cinese, che per realizzare industrie e aeroporti l’hanno ridotta ad un trentesimo di ettaro. Con la conseguenza della dipendenza dai mercati internazionali. Il Giappone vive, oggi, di cereali sbarcati da Stati Uniti, Canada e Argentina: 25 milioni di tonnellate ogni anno. Se la Cina avesse ricalcato l’esempio nipponico l’entità delle sue importazioni avrebbero superato, prevedeva Brown, i 200 milioni di tonnellate, una quantità equivalente alla somma del commercio mondiale.

Singolarmente, mentre Brown moltiplicava le prove dell’incombente penuria planetaria, il Governo americano combatteva la guerra più ostinata per ottenere lo smantellamento del sistema agricolo europeo. I nostri produttori sono più efficienti, hanno diritto di vendere ai vostri consumatori, hanno ripetuto, petulanti e minacciosi, per trent’anni, i negoziatori americani. Dovete smantellare il vostro apparato agricolo, che è costoso e inefficiente: i primi beneficiari saranno i vostri consumatori. Potete farlo con sicurezza: siamo il fornitore più sicuro, più reliable, del Globo. Vi riforniamo oggi, vi riforniremo domani.

Le pretese americane si sono scontrate, per trent’anni, con le fondamenta del meccanismo concepito, dai padri della Comunità europea, De Gasperi, Schumann e Adenauer, perché i popoli uniti nel sodalizio non avessero più a conoscere la penuria, una penuria che non ha mancato di convertirsi in fame, degli anni drammatici tra il 1945 e il 1947. Poi nella Comunità entrava l’Inghilterra, che della Comunità non aveva contribuito a fissare le fondamenta, che quelle fondamenta ha sempre contestato, in singolare, perfetta sintonia con Washington. Alla volontà inglese di distruggere la macchina agricola comunitaria si univa, in disinteressata comunione di intenti, il mondo industriale, desideroso di dilatare le importazioni agricole per favorire le esportazioni manifatturiere. E non è stato, probabilmente, casuale che gli auspici dell’industria abbiano suscitato l’appassionata adesione della grande stampa, che per tre decenni ha suonato pifferi e tamburi per denunciare la “vergogna” dei “surplus”, gli eccessi di produzione che un sistema concepito per assicurare l’approvvigionamento di trecento milioni di consumatori determina, inevitabilmente, nelle annate favorevoli, per la banale ragione che il clima non legge il Corriere della sera.

Mentre pretendevano lo smantellamento dell’apparato agricolo europeo, per poter mantenere le promesse del produttore più reliable del Globo, gli Stati Uniti hanno continuato, qualsiasi fosse il volume delle proprie eccedenze, a potenziare la propria agricoltura, per la quale nessun presidente, governassero democratici o repubblicani, ha ridotto contributi e sovvenzioni. Mentre proclamava, in tutte le sedi negoziali, che era doveroso che la Comunità smantellasse la propria agricoltura, l’amministrazione di Washington dimostrava di ritenere la propria macchia agricola altrettanto importante del proprio apparato militare: una chiave per la conservazione della preminenza mondiale. Le catastrofiche previsioni di Brown, a Roma e a Bruxelles reputate malinconiche fantasie, suscitavano, verosimilmente, l’attenzione della Segreteria di Stato: l’importanza di avere lettori alla Cia!

L’attenzione della Segreteria di Stato ha dimostrato la propria fondatezza quando il dollaro ha iniziato il declino che, reputato, all’alba del millennio, circostanza occasionale, appare sempre più il segno del tramonto degli Stati Uniti quale prima potenza economica mondiale. Prima potenza economica del Pianeta, gli Stati Uniti hanno finanziato, dal termine del secondo conflitto mondiale, un astronomico disavanzo valutario, fatto di acquisti di materie prime, di manufatti, di imponenti spese militari all’estero, stampando dollari e titoli di stato che tutte le banche del Mondo accumulavano, avidamente, nei propri forzieri. In cinquant’anni di disavanzo dollari e titoli dedicati a George Washington hanno raggiunto un’entità che non ha, verosimilmente, più relazione con il ruolo effettivo dell’economia americana. Per ripagare i dollari posseduti da tutte le banche del Pianeta gli Stati Uniti dovrebbero offrire una quantità di beni e servizi, una montagna di lingotti, che non possiedono. Svalutando il dollaro, definitivamente e non temporaneamente, possono scaricare su tutte le banche del Mondo, ricolme di dollari, il costo di quarant’anni di imprese militari: il sistema bancario del Pianeta sta ripagando il gendarme del Mondo di tutte le spese dalla guerra di Corea a quella del Vietnam, dall’Afganistan all’Irak.

Segno e prova del declino del dollaro, la sua inarrestabile perdita di valore rispetto al petrolio: se l’economia americana è fondata sull’illimitata disponibilità di energia, la capacità del dollaro di convertirsi vantaggiosamente nella capitale materia prima energetica era la prova del ruolo mondiale dell’economia che nel dollaro si esprimeva, la sua incapacità a trasformarsi vantaggiosamente in energia è la prova che la prima moneta del mondo è decaduta, che l’economia che in quella moneta si identifica ha iniziato il declino verso un ruolo che non sarà più il primo del Mondo.

Ma se il dollaro non è più capace di convertirsi in energia, gli Stati Uniti disponevano di una chiave diversa della vita economica che, seppure l’opinione collettiva lo avesse dimenticato, non è meno indispensabile dell’energia: il grano, in termini più ampi i cereali. Primo produttore mondiale di mais, gli Stati Uniti ne sono il primo esportatore, come sono il primo esportatore mondiale di frumento e di soia. Sono: erano. Nel turbinare della crisi dei mercati del 1973, quando alla vampata dei prezzi dei cereali seguì, con la guerra in Palestina, quella del petrolio, più di un osservatore americano annotò che contro l’oilpower che pretendevano di esercitare gli sceicchi, l’America avrebbe potuto impiegare l’agripower, il potere di affamare il Pianeta. Il proclama fu sepolto, felicemente, dal ventennio di surplus incontenibili che seguì gli anni di crisi. Se gli Stati Uniti hanno impiegato tutte le armi negoziali, ed i ricatti politici, per annientare l’agricoltura altrui e imporre a chi produceva i propri cereali di abbandonare la produzione per consumare cereali americani, è verosimile che tanta protervia negoziale non fosse frutto del capriccio, che rispondesse a un disegno strategico. Quel disegno si è rivelato, inequivocabile, al crollo del dollaro. Provata l’incapacità del dollaro a convertirsi in energia, a Washington è stato deciso di convertire in energia il mais del Corn Belt, un progetto che verrà perfezionato, pare, in poco più di quattro anni, escludendo gli Stati Uniti dal novero degli esportatori di cereali. Che significa il crollo dell’allevamento di polli, suini e vacche da latte in tutto il mondo arabo e nelle prepotenti nazioni asiatiche che contendono agli Stati Uniti il primato economico mondiale. Nelle quali il sogno, analizzato dallo psicanalista Brown, di mangiare carne tre volte la settimana, dimostrerà tutte le valenze della visione ossessiva.

Ma se il mais americano non raggiungerà più gli allevamenti del Globo, che dovranno ridimensionare l’attività secondo disponibilità di cui è difficile prevedere la consistenza, se l’Asia dovrà rinunciare al sogno della carne, non è immaginabile che alla rivoluzione possa sottrarsi l’Italia, un paese in cui un’urbanizzazione che può solo definirsi furente ha dimezzato la disponibilità di campi in pianura, tanto che su quattro chili di pane che ci vende il fornaio tre derivano da frumento di importazione. Non può sottrarsi al ciclone alimentare un paese dove da vent’anni contendono il proscenio agricolo le primedonne regionali, nell’assoluta assenza di qualunque politica agricola nazionale.

Si è accorta che il prezzo del cibo aumentava la tv spazzatura, se ne è accorta la stampa che dal divanetto del barbiere viene trasferita, puntualmente, nel cassonetto, non se ne è accorto l’ultimo Ministro dell’agricoltura. Non avrebbe potuto. Era il continuatore di una serie ininterrotta di statisti, dalla signora Poli Bortone all’avvocato Pecoraro Scanio, al laureando ingegner Alemanno, che occupavano il posto con il solo interesse delle nomine negli enti di competenza ministeriale: esemplare il gesto cortese di Alemanno, che il giorno del matrimonio del portaborse ha donato alla sposa la direzione generale della ricerca scientifica nazionale.

Ma la serie degli incompetenti, verosimilmente più interessati alle nomine che alle sorti della patria agricoltura, è stata interrotta, per due volte, dall’enfant prodige del pensiero agrario nazionale, il professor De Castro, che a provare le benemerenze per l’imbandigione della tavola degli italiani ha vergato un libro, in cui vanta di avere operato, novello Cavour, il ribaltamento delle alleanze, schierandosi contro la Francia, l’alleata antica, a fianco dell’Inghilterra, l’alleata nuova. Contro la Francia fautrice della filosofia della sicurezza degli approvvigionamenti del Trattato di Roma, primo produttore europeo di frumento, tanto da garantirci, nel contesto di quella filosofia, i tre chili di grano che ci mancano per mettere in tavola il pane tutti i giorni. Ma quella filosofia era, spiega il Professore, ridicola anticaglia. A fianco dell’Inghilterra, che assicurava che l’anticaglia si poteva gettare perché gli amici americani erano il fornitore più reliable del Globo. Parola di chi sa cosa significhi essere la prima potenza del Pianeta, e perdere il posto.

L’essenza del futuro agrario consisterebbe, si evince dalle pagine illuminanti, nelle specialità gastronomiche: lardo di Colonnata e culatello di Felino. Una visione in singolare sintonia con la gustosa filosofia dell’agricoltura del divulgatore gastronomico che capovolgendo la locuzione americana fast food ha creato l’agenzia di promozione culinaria di maggior successo del Paese. Tanto da indurre a credere che, incantato dal successo del re dei cuochi, il Professore abbia ridisegnato il pensiero agrario sui testi di Anthèlme Brillant Savarin. Possiamo confidare nel futuro alimentare: mangeremo pane un giorno ogni quattro, ma il companatico, con provenienza certificata da Colonnata o Langhirano, ripagherà gioiosamente del digiuno.