Tra l’umanità e le risorse la frattura dell’economia, della politica, dell’etica

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Tra l’umanità e le risorse la frattura dell’economia, della politica, dell’etica
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Nella seconda metà del secolo recentemente terminato si è verificato un fenomeno privo di qualunque analogia nei rapporti plurimillenari tra la Terra ed i propri abitanti: il numero degli uomini è raddoppiato, la produzione di alimenti essenziali, i cereali, è triplicata. Dimostrano l'eccezionalità del fenomeno i tempi impiegati, fino all'età moderna, dalla popolazione del Globo per raddoppiare la propria consistenza, variabili tra tremila e mille anni. Analizzando la meccanica del fenomeno l'Autore dimostra che esso è stato sospinto da cinque fattori: la conversione delle foreste tropicali in campi coltivati, l'ampliamento delle superfici irrigue, la decuplicazione della produzione di fertilizzanti, l'esplosione di quella di antiparassitari e la costituzione, da parte della genetica, di nuove varietà delle specie coltivate. Precisato il ruolo dei singoli fattori, dimostra che la scienza li aveva apprestati in centocinquant'anni di progresso agronomico e che, spinti ad interagire dalle condizioni politiche ed economiche, i medesimi fattori hanno sfruttato risorse naturali, foreste, fiumi, giacimenti di minerali fosfatici, potenzialità delle piante coltivate, che non sono più disponibili per un evento comparabile nei decenni futuri. Per nutrire i tre miliardi di uomini che si aggiungeranno, nel futuro prossimo, alla popolazione mondiale, l'umanità dovrà, innanzitutto, preservare da ogni spreco le risorse disponibili, dovrà, soprattutto, provvedere alla più equa distribuzione delle produzioni sussistenti, evitando conflitti che, anziché soddisfare esigenze inappagate, moltiplicherebbero distruzioni e carenze.


Periodici e quotidiani, e le trasmissioni di informazione scientifica, ci ricordano, da tre decenni, che l’umanità ha lasciato l’età del pioniere, è entrata in quella dell’astronauta. Se il primo era libero di appropriarsi di qualunque entità naturale lo attraesse, di consumarne una parte e gettare i rifiuti, il secondo deve impiegare secondo regole inflessibili i beni disponibili sulla navicella in cui è rinchiuso, e di quanto consuma deve ridurre all’entità minore i materiali inutilizzati e gli stessi cataboliti biologici. Il messaggio è eloquente, credo sia difficile reperire uno studente di scuola media che non lo abbia mai udito, eppure dobbiamo constatare che nessuna autentica influenza ha esercitato sul comportamento collettivo dei sei miliardi di astronauti che navigano sulla navicella che condividiamo.

L’economia è lontana anni luce dall’accettare l’eventualità che le risorse del Pianeta possano esaurirsi, che i rifiuti della produzione e del consumo possano sommergere gli spazi vitali, gli uomini politici evitano di ricordare ai propri governati l’incomoda verità che l’espansione illimitata dei consumi non è eventualità possibile, l’etica collettiva continua a venerare il proprietario della villa il cui riscaldamento richiede venti metri cubi di gas al giorno e il consumatore in gado di ricolmare il carrello, al supermercato, con carne, frutta e latticini corrispondenti a cinquemila calorie per membro della famiglia, il quale, preoccupato della propria fitness non ne consumerà più di 3.500, destinando il resto al cassonetto.

Il gruppo di studiosi che confronta le proprie idee in questo incontro si è proposto, in un piano di ricerche che non si esaurirà nei lavori odierni, di indagare nel pensiero economico dell’Occidente le vicende dei concetti di finitezza e di esauribilità delle risorse. Anticipando quello che sarà un contributo personale reputo si debba sottolineare che la scienza economica occidentale nasce con un testo pervaso dalla considerazione, direi dalla devozione, per i coloni americani che rivoltano la prateria vergine e la ricoprono di tabacco, per i cacciatori di castori e i mercanti di spezie, nei quali Adam Smith, padre della disciplina, addita gli eroi dell’economia mercantile siccome è a quegli uomini che la società civile è debitrice dell’inclusione nella sfera degli scambi, che per Smith è la sfera della civiltà, di terre che, lasciate agli indigeni, nessun contributo presterebbero alla felicità delle nazioni. Tre decenni dopo Smith scrive il proprio Saggio Robert Malthus: credo non esista prova più eloquente dell’estraneità, all’etica occidentale, dei concetti di limite e finitezza delle risorse delle reazioni all’opera di Malthus. In un arco temporale che raggiunge i due secoli quel libro non è mai stato oggetto di confronto razionale, è stato obiettivo di deprecazione, di sdegno, di repulsa, da parte del materialismo marxista e del pensiero cattolico, da parte di tutte le correnti del pensiero economico. Studiosi di formazione diversa, e la coscienza collettiva, hanno categoricamente rifiutato che la popolazione che la Terra è in grado di alimentare dovesse reputarsi un’entità finita.

Anticipando, ancora, il contributo ad un dibattito futuro credo si possa asserire che, superati quasi due secoli, il secondo tentativo di diffondere la consapevolezza della finitezza delle risorse e dell’impossibilità di una crescita economica illimitata debba individuarsi nel duplice rapporto che il Club di Roma pubblica nel 1972 e 73. Se Malthus era stato pensatore solitario, un chierico silenzioso che aveva condotto le proprie indagini, peraltro, nella più ricca biblioteca antropologica d’Europa, l’organismo incaricato del rapporto, il Massachusetts Institute of Technology, impiega per la prima volta, nella stesura, calcolatori capaci di governare centinaia di equazioni con altrettante incognite, stimando la disponibilità planetaria di risorse indispensabili e confrontandola con le tendenze dei consumi. Enucleo i risultati, oltremodo complessi, sottolineando che il Mit rileva che tutti i consumi di risorse primarie hanno assunto, negli anni Sessanta, la fisionomia dei processi esponenziali, e prevede che sviluppandosi esponenzialmente gli stessi consumi produrranno i primi segni di esaurimento di risorse fondamentali nei lustri successivi al Duemila.

Voglio notare che il prezzo del petrolio, nel secondo lustro del Tremila, ha proposto il comportamento caratteristico di un bene prossimo all’esaurimento. Sappiamo che le risorse ancora disponibili costituiscono oltre la metà di quelle sussistenti al tempo delle prime trivellazioni, ma se metà delle disponibilità hanno soddisfatto i bisogni di sei decenni, la crescita dei consumi, il processo accelerato dal recente, generoso contributo dell’Asia, impone di ritenere alquanto più breve il tempo di esaurimento della seconda metà dei giacimenti. Ricordo che nei giorni in cui, tra maggio e giugno 2008, il petrolio toccava il massimo storico, toccava l’apice di 500 euro la tonnellata il rottame di ferro, la chiave della metallurgia mondiale, conoscevano valori mai raggiunti i minerali di cromo, molibdeno e cobalto.

I detentori, immaginiamo il principe saudita che, al centro di un deserto, vive in una reggia in cui tutto è frutto di artificio, l’acqua fresca, il latte, la verdura, hanno continuato a cedere le proprie disponibilità, senza preoccupazioni per il futuro, fino a quando i tempi di esaurimento apparivano tempi secolari: costretti a misurarli in pochi decenni è comprensibile abbiano ordinato di chiudere qualche valvola: al di là di cinquant’anni, spiegano i manuali di economia, solo operatori di particolare preveggenza si preoccupano delle fonti di reddito per sé ed i discendenti, al di sotto di quel limite anche l’operatore meno previdente è sfiorato dalla preoccupazione. Pensiamo al principe saudita cui uno stuolo di giovani signore abbia procreato figli e nipoti: non ha studiato la matematica superiore ma capisce perfettamente l’essenza di un processo esponenziale.

Ma se il principe saudita è indotto alla preoccupazione dai legami familiari, nessuna preoccupazione simile sfiora l’uomo politico dell’Occidente, che, monogamo o poligamo, non rivela, tra le ragioni della propria condotta, alcuna preoccupazione per le materie prime, l’acqua e gli alimenti di cui disporranno figli e nipoti dei propri elettori. Potremmo affrontare l’elencazione delle conferenze internazionali che, da quella sulla popolazione a Bucarest, nel 1974, a quella che, pochi mesi dopo, varava a Roma, il piano per la definita eradicazione della fame dal Pianeta, alle successive. Conferenze e simposi si sono succeduti dilatando il confronto a tutti i temi ambientali. Evito l’elencazione sulla base di una costatazione elementare: dibattiti e protocolli non hanno mutato di un grado la direzione dell’economia mondiale. Il messaggio del Club di Roma, che proponeva di stabilire, tra l’umanità e le risorse, un’economia, una politica, un’etica nuova, è stato ignorato, non ha suscitato l’esecrazione che accolse il messaggio di Malthus, siccome nessuno vuole schierarsi contro l’aritmetica, ma è stato avvolto dal silenzio. Riconoscendo le differenze, pure significative, tra governanti che identificano la guida di un popolo nel suo intrattenimento televisivo e statisti che leggono, con diligenza, i rapporti di scienziati ed economisti, nel suo insieme il ceto politico che governa il Mondo non accetta che lo sviluppo economico debba essere frenato per timore di esaurimento delle risorse che ne sono il propellente. Proporlo sarebbe impopolare, forse elettoralmente impossibile: nella generalità quel ceto si comporta come se il problema della finitezza ed esauribilità delle risorse non esistesse.

Nel profondo credo si debba riconoscere che l’anima dell’Occidente rifiuta che lo sviluppo economico possa conoscere limiti. Ricordo di avere udito dichiarare, a un convegno dell’alba degli anni Ottanta, da una personalità economica tuttora all’apice del prestigio, che la libertà di mercato sarebbe la forma di tutela più sicura delle risorse esauribili: i prezzi informerebbero provvidamente gli utenti della rarefazione dei beni che utilizzano, il loro rialzo indurrebbe comportamenti parsimoniosi, che preverrebbero qualunque carenza. E’ la favola bella del mercato che regola, con intelligenza divina, i consumi e gli scambi, la favola cui hanno creduto, incantati, gli economisti ottocenteschi.

In questa cornice qualche annotazione debbo dedicare alle risorse agrarie, terre fertili e acque, specie vegetali e animali da cui dipende l’alimentazione umana, il tema cui ho dedicato parte cospicua del mio tempo. Annotazioni che riassumo in una constatazione: nel secondo cinquantennio del Novecento si è realizzato un fenomeno assolutamente privo di precedenti, nella storia dei rapporti tra l’umanità e la Terra: privo di precedenti e verosimilmente di replica impossibile. Gli uomini sono raddoppiati, la produzione delle derrate chiave, i cereali, è triplicata. Raddoppiare il numero degli uomini sulla Terra ha richiesto, dalle origini dell’agricoltura alla Rivoluzione agraria moderna, tempi variabili tra i tremila ed i mille anni. Il primo raddoppio in Età moderna avrebbe richiesto quattrocento anni, dal 1450 al 1850: repentinamente i progressi dell’agricoltura hanno reso possibile il primo raddoppio nell’arco di un secolo, da 1,2 miliardi nel 1850 ai 2, 5 nel 1945, quindi il prodigioso raddoppio in quarantacinque anni: i sei miliardi erano superati prima del 2000.

Tra il 1950 ed il 2000 la popolazione del Globo è raddoppiata perché l’aumento della produzione agricola ha consentito di alimentare un numero doppio di uomini. Il fenomeno, nella storia dei rapporti tra la Terra ed i suoi abitanti assolutamente eccezionale, ha determinato nella percezione collettiva un’idea dell’agricoltura che non ha precedenti in nessuna età della storia, il convincimento della possibilità di accrescere le produzioni agricole senza alcun limite. Un convincimento di cui lo storico delle conoscenze agrarie deve suggerire l’inconsistenza ricordando che la prodigiosa triplicazione delle produzioni è stata il frutto della sinergia tra fattori che erano stati apprestati in centocinquant’anni di progresso scientifico, pronti a interagire al proporsi di condizioni economiche e politiche favorevoli. Maturate quelle condizioni, le conoscenze pronte all’impiego hanno utilizzato elementi naturali che non sono più disponibili per ripetere l’evento.

I fattori che hanno consentito la straordinaria realizzazione sono stati essenzialmente sei: il primo, l’abbattimento delle foreste equatoriali agevolato dai nuovi mezzi meccanici, che hanno esteso gli arativi, tra il 1950 e il 1995, di 165 milioni di ettari, sei volte la superficie agraria della Francia, prima potenza agraria europea. Il secondo è stato l’estendimento delle aree irrigue, anch’esso facilitato da strumenti meccanici che hanno reso possibili sbarramenti fluviali un tempo inimmaginabili: in quattromila anni, dagli ingegneri sumeri ed egizi, l'uomo aveva costruito, all’alba del Novecento, dighe e canali per irrigare 40 milioni di ettari, che nel 1950 superavano i 110, nel 1990 raggiungevano i 260. Il terzo fattore, l’esplosione della produzione di fertilizzanti, nel cinquantennio salita da 14 a 140 milioni di tonnellate, misurate negli elementi chimici essenziali, quindi escludendo la tara inerte, il quarto la produzione di antiparassitari: nel clima caldo e umido delle risaie asiatiche si reputa ordinario che insetti e funghi parassiti si approprino di metà del raccolto, di cui gli antiparassitari salvano una parte cospicua: 30-40%. Infine le creature della genetica: un campo di frumento produceva, in India o in Messico, negli anni Cinquanta, dieci-quindici quintali di cariossidi per ettaro, oggi ai tropici si sfiorano produzioni di cento quintali, e l’irrigazione nella stagione secca consente un secondo raccolto, che raddoppia la produzione. Non occorre il ricorso a difficili argomentazioni naturalistiche per dimostrare che la sinergia che si è verificata tra i fattori della crescita straordinaria è stata evento irripetibile: geografi e climatologi sono concordi nel sostenere che la prosecuzione dell’abbattimento delle foreste equatoriali sarebbe un delitto contro le generazioni future, cui consegneremmo un pianeta dagli equilibri radicalmente alterati, l’analisi dell’idrologia di tutti i continenti dimostra che i grandi fiumi che presentavano facilità di sbarramento alimentano, oggi, immensi sistemi irrigui, che i progetti ulteriori, quali la deviazione del Mississippi verso il Texas imporrebbero costi astronomici, e provocherebbero conseguenze climatiche di previsione difficile, contro le quali suggeriscono prudenza i disastri di alcune delle realizzazioni compiute, ad esempio la sorte del Lago d’Aral e quella del Caspio, destinati, pare, a un futuro di stagni melmosi. Mentre è difficile prevedere la realizzazione di nuovi invasi che moltiplichino le superfici irrigue, su tutti i continenti si verifica la sottrazione delle acque ai bacini creati per l’agricoltura per gli impieghi urbani e industriali, mentre i fabbisogni delle colture sono praticamente incomprimibili: la trasposizione di un atomo di carbonio da una molecola di anidride carbonica dell’aria ad una molecola di zucchero nella foglia richiede l’impiego di 500-700 molecole di acqua: qualcuno ha scritto che il processo apprestato dal Creatore sarebbe un processo inefficiente. Nelle aree tropicali oltre all’acqua necessaria ai processi fisiologici ai campi si deve erogare quella necessaria a dilavare i sali dalla superficie, che trascurando la precauzione si accumulano sterilizzando, in qualche decennio, il suolo. Produrre una tonnellata di cereali impone, nelle regioni aride, l’impiego medio di 1.000 tonnellate di acqua.

Non è possibile immaginare, peraltro, di accrescere l’impiego dei fertilizzanti: nelle grandi pianure del Globo, negli Stati Uniti, in Europa e in Asia, mais e riso ricevono 300 chilogrammi di azoto per ettaro, parte cospicua del quale è inevitabilmente destinato alle falde freatiche, né è possibile accrescere l’impiego di antiparassitari, di cui l’evidenza di danni agli ecosistemi ha già imposto pratiche di impiego radicalmente nuove, dall’apprestamento di molecole selettive all’irrorazione solo qualora siano previsti danni maggiori dei costi ecologici dell’intervento.

E’ oltremodo più arduo determinare quanto possa offrire, al progresso agronomico futuro, la genetica. Più di un agronomo rileva che la massa di sostanza secca prodotta, dalle radici alla spiga, dalle colture essenziali, è, oggi, identica a quella di una coltura lussureggiante dell’alba del Novecento: la genetica non avrebbe fatto che spostare nella spiga i carboidrati che allora la pianta convertiva in stelo e foglie: ricordiamo che i frumenti dell’alba del Novecento erano alti quasi due metri, quelli attuali non superano gli 80 centimetri. La genetica sarebbe giunta a sfiorare i limiti biologici delle specie coltivate.

Proposti i rilievi che impone la considerazione di medio periodo, si deve sottolineare che dal 2008 la situazione agroalimentare del Pianeta ha conosciuto un rivolgimento difficile da illustrare, ancor più difficile da spiegare: se dal 1960 gli accrescimenti annui della produttività dei cereali hanno mostrato un sistematico rallentamento, dal 2% annuo a meno dell’1%, due annate eccezionali, il 2007 ed il 2008, si sono prodotte nello spettacolare incremento, rispettivamente, del 5,5 e del 7,1% delle produzioni mondiali, riportando l’incremento del decennio ai valori del 1960. Al duplice incremento ha corrisposto, paradossalmente, una vampata di prezzi senza precedenti dalla crisi, anch’essa petrolifera e cerealicola, del 1972-73. Entro un anno i prezzi internazionali sono tornati al livello precedente la crisi: in tutti i paesi, però, in cui la produzione è carente, i prezzi al consumo sono rimasti superiori di oltre il 25% a quelli precedenti, prezzi insostenibili per la popolazione, che hanno costretto la Fao ad accrescere, in un anno, di 200 milioni il numero mondiale degli affamati.

Ma quanti sono, realmente, gli affamati del Pianeta? Gli antichi cittadini sovietici erano nutriti grazie alle imponenti importazioni dall’America. Nel nuovo regime la produzione di cereali è aumentata di circa il 20%, ma il Governo esporta quantità superiori alla maggiore produzione: mancando le importazioni dei tempi di Breznev, l’algebra pretende che in Russia regni la fame. La Fao, che moltiplica, ad ogni bollettino, i dati sul dramma alimentare di decine di paesi, Egitto ed Etiopia sempre ai primi posti, non propone un dato solo sulla situazione alimentare in Cina e in India, insieme metà della popolazione terrestre, i cui rappresentanti negli organismi internazionali si premurano, verosimilmente, del riserbo che deve circondare gli affari interni delle potenze emergenti. Gli Stati Uniti, dove si realizza la parte più cospicua della recente maggiore produzione mondiale, trasformano quella maggiore produzione in propellente per le proprie automobili, nell’Unione Europea una colorita alleanza di ambientalismo, di simpatie terzomondiste, di sottomissione ai desiderata americani ha completamente dissolto la strategia per la certezza degli approvvigionamenti che ispirò i padri fondatori della Comunità: agricoltori condotti ad accrescere le produzioni, in cinque decenni, dalle certezze stabilite per garantire gli approvvigionamenti, sono travolti dalle esportazioni di paesi dove chi produce verdura o frutta non è in grado di acquistare il pane per i figli: potrei riferire le mie conversazione con i campesinos dello stato messicano di Guanajato.

Non è inverosimile che la Francia torni, domani, ad una strategia agraria nazionale: oggi ci assicura i 60 milioni di quintali di frumento che la Pianura Padana ricoperta di villette a schiera non può più produrre, ma la Francia ha già apprestato gli imponenti apparati portuali per imbarcare quel frumento, domani, verso i paesi che offrano, in cambio, petrolio e uranio. Quando il fato si compirà, i nostri governanti, meno autorevoli di quelli indiani e cinesi, non potranno evitare che i bollettini Fao ci associno ad Etiopia ed Egitto.



relazione al convegno Risorse alimentari tra contraddizioni antiche e incertezze future. Potrà la Terra assicurare il pane (e la carne) a nove miliardi di abitanti? Auditorium de La Nazione, Firenze, 20 novembre 2009.

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