La colonia italiana in Abissinia/XVII
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XVII.
Cattive notizie — Proposte per trasferire la colonia a Keren. Contegno di Zucchi con gl’indigeni — Stella riparte per Keren. Lo Svizzero — Un messo del negus Ailo — Achille Gentilomo. Un brutto scherzo — Arrivo di Bonichi.
Il nostro condottiero era accigliato, o a meglio dire, recava nella sua dimessa fisonomia le traccie del dispiacere, dello scoraggiamento, della disillusione.
Dopo ch’ebbe preso un po’ di ristoro, ci radunò sotto l’albero del Consiglio, e là ci espose le sue idee; ci raccontò tutto quello che aveva inteso da Zucchi, senza nasconderci il suo malessere per aver trovato in quell’uomo un essere diverso affatto da quello ch’egli aveva altre volte conosciuto, e col quale anche al Cairo era stato in intimità di rapporti e in comunanza di affetti.
Ci narrò come, pur troppo, la scarsezza di denaro fosse una tristissima realtà, e come, per giunta, il contegno austero, dispotico di quell’uomo lo avesse alienato dai suoi stessi famigliari, e lo avesse digià reso odiato dagli abitanti di Keren coi quali aveva avuto a che fare in quei giorni medesimi.
Aggiunse ancora che le ciarle e le calunnie dello Spagnuolo lo avevano male predisposto contro di noi e ch’egli non aveva in proposito dissimulato il suo malcontento; ma aveva anzi dichiarato che al suo arrivo avrebbe chiesto conto a tutti, e specialmente a me, del come avevamo impiegato il tempo ed i mezzi ch’erano stati posti a nostra disposizione.
Poco bene, per non dire assai male, pronosticavasi quindi dal suo arrivo alla colonia; eppure lo aspettavamo egualmente con ansia febbrile.
Seppimo ancora che in quei giorni, in cui Stella trovavasi a Keren, erano corse delle trattative fra Zucchi e il capo di quella tribù, per trasferire la nostra colonia in quel territorio, allo scopo di tenere unite le forze che dovevano opporsi alle possibili invasioni dei predoni o delle tribù nemiche; ma un progetto di tal fatta non sarebbesi potuto effettuare dopo che i lavori di costruzione e l’avviamento delle opere d’agricoltura ci avevano costato tanti sudori e tanti sacrifizi.
Infatti Zucchi non accolse quelle proposte, anche per lo scopo politico a cui tendeva, vale a dire a quello d’indurre le genti di Keren a venir esse a stabilirsi a Sciotel, costringendole, se non volevano rimanere isolate, a cercare nella nostra comunanza la loro stessa sicurezza.
Così noi avremmo avuto il vantaggio di raddoppiare di numero, di forza e di prestigio, formando uno Stato rispettabile e bene organizzato.
A quel modo, la villeggiatura che il console di Massaua, signor Munzinger, teneva a Keren, sarebbe rimasta isolata; ciò che sarebbe stato un giusto castigo per un uomo, il quale aveva usato tante vessazioni al padre Stella e lo aveva in tanti modi attraversato, vilipeso, perseguitato.
Alla proposta del capo di Keren, Zucchi rispose che avrebbe deciso all’indomani; ma l’indomani venne, e sebbene quel capo ed altri indigeni fossero stati puntualissimi al convegno, pure non li volle ricevere.
Anzi, essendo egli uscito dalla propria capanna, e avendoli veduti, senza pure degnarsi di guardarli, rivolto ai propri servi, aveva esclamato in linguaggio arabo: Cosa vogliono da me quelle bestie? Mandateli al Diavolo, ch’io non ho più altro a che fare con essi.
E coloro si ritirarono brontolando e minacciando.
Di tale contegno il padre Stella era rimasto scandalezzato; ma non si sentì il coraggio di mettersi in lotta aperta con quell’uomo, per non pregiudicare maggiormente gli affari della colonia, anche troppo compromessi.
„Io — ebbe egli a soggiungere — ho perduto la stima che aveva di lui, nè so capacitarmi di questo suo incomprensibile cambiamento. Ma non pertanto io sono deciso di sopportare qualunque sacrifizio pur di riuscire, anche senza di lui, a far prosperare la colonia, ed all’uopo saprò far valere il mio nome e la mia influenza sugl’indigeni.“
Il mattino appresso si pose in viaggio diretto ad una tribù degli Amarici, poche miglia oltre Keren, portando dei regali al negus Desiaciailo, che voleva mettere a parte d’ogni cosa, e più di tutto per assicurarlo delle nostre buone intenzioni a suo riguardo.
In quello stesso giorno giunse a noi da Keren uno Svizzero mandato da Zucchi a scortare quattro camelli carichi di provvigioni da bocca. Il nuovo compagno spiegò però tale un sussiego, da farci tosto passare la emozione di giubilo provata alla vista delle provvigioni.
Io pensai allora che il nuovo carattere spiegato da Pompeo Zucchi avesse avuto la poco bella virtù del contagio, e che anche i suoi dipendenti ne fossero rimasti affetti.
„Ci siamo ora! — dissi fra me — Pare che avremo qualcun altro, oltre allo Spagnuolo, che seminerà la discordia tra di noi. In questo caso, arriveremo a qualche cosa di sinistro e termineremo collo scannarci.“
E se le mie previsioni non si avverarono letteralmente, non andarono troppo lungi dal vero.
Passammo quel giorno in preda alla noia, alla melanconia e all’incertezza, non potendo prevedere l’esito della missione del signor Stella.
La notte non venne a recarci alcun consiglio; benchè tutti noi l’abbiamo spesa più a pensare ai casi nostri che a dormire.
M’alzai per tempo e mi assisi sulla soglia della mia capanna ad attendere l’uscita dei compagni.
Quand’ecco avanzarsi dall’ingresso della cinta un vecchio indigeno e dirigersi verso di me.
Mi chiese tosto del signor Stella, dicendomi essere stato incaricato dal suo signore il negus Desiaciailo, di doverglielo condurre, pena la testa.
Io gli risposi che il padre Stella erasi appunto recato a lui già da due giorni, e lo consigliai a ritornare, chè ve l’avrebbe trovato.
Senza aggiunger parola, il troppo laconico inviato si licenziò e partì.
Poco dopo, partecipata la cosa agli amici, divenne essa il tema dei nostri discorsi e di mille strane supposizioni.
Una seconda visita, però meno strana della prima sebbene quanto essa inaspettata, venne ad interrompere la discussione, che cominciava a darmi noia.
Il personaggio ch’erasi avvicinato al nostro circolo, proveniva anch’egli da Keren, ed era Achille Gentilomo, un buon amico, col quale ci eravamo trovati la prima volta a Suez.
Rimasi attonito al vederlo; mi alzai, gli strinsi la mano e lo presentai ai nostri che lo ricevettero cordialmente. Anch’egli era giunto con Zucchi.
Mentre stavamo per chiedergli ragguagli che tanto dovevano interessarci, fummo scossi da un allarme partito dagl’indigeni, alcuni dei quali, correndo verso di noi, gridavano che i Marias erano giunti a poca distanza dalle nostre terre e si avanzavano certamente con intenzioni ostili.
Ad un tratto coloni ed indigeni erano in piedi ed in assetto di guerra; le femmine invece, coi loro bambini in braccio e cacciandosi innanzi le proprie mandre, si dirigevano, come al solito, alla montagna ove credevansi al coperto da ogni insidia e da ogni pericolo.
Noi tutti uscimmo, meno Gentilomo, l’ultimo arrivato, il quale, a motivo di un forte dolore ai piedi — effetto delle marcie recenti — non avrebbe potuto combattere. Lo consigliammo ad entrare in una delle capanne e a mettersi a riposare sovra una branda; consiglio che egli accettò di buon grado.
Sfortunatamente tardai a seguire la piccola squadra; per cui, appena fuori della cinta, presi una via diversa e mi trovai poco dopo solo, a qualche distanza dalle piantagioni. Un tiro di fucile mi diede però a conoscere da qual parte si erano diretti i miei compagni, e con tutta celerità tentai di ricongiungermi ad essi.
Dopo un quarto d’ora di cammino, m’accorsi di qualche cosa che movevasi appresso terra, e rallentai il passo. Mano a mano però che mi avvicinava, parevami di scorgere delle forme umane; poi ravvisai che erano indigeni, ma non potevo distinguere a chi appartenessero, se ai nostri od ai nemici, inquantochè stavano distesi al suolo, col capo tutto coperto dagli scudi.
Temei subito d’un aguato, e mi fermai dietro un albero, aspettando che si alzassero, deciso anche a far fuoco e a vender cara la vita se mai mi avessero ravvisato e contassero di perdermi.
Osservando però che mai si movevano, mi feci animo, e scivolando d’albero in albero, sempre cercando di non farmi vedere, arrivai a pochi passi dai medesimi, protetto da un grande cespuglio, attraverso il quale puntai il mio fucile.
A questo mio movimento pare che avessero posto mente, dappoichè li vidi gesticolare e manovrare le lancie in atto di minaccia, quasi volessero slanciarle contro di me.
Io ero già in procinto di far fuoco, allorchè si alzarono improvvisamente e scoprirono le loro faccie. Erano dei nostri indigeni, i quali, vedendomi avanzare solo ed affannoso, avevano voluto prendersi un po’ di spasso — facendomi paura.
Mi vennero tosto incontro, tutti ridenti e festosi, acclamandomi fadab — valoroso — perchè non era fuggito alla loro presenza, ma, sempre avanzandomi, avevo mostrato intrepidezza e sangue freddo.
Unitomi ad essi, rientrammo in paese, ove trovammo anche gli altri e rilevammo che l’allarme era stato dato senza un giusto motivo, ma soltanto per la comparsa di alcuni nomadi, probabilmente calati per predare od anche per ispiare.
Poco dopo rientrarono anche le donne, e l’incidente ebbe fine.
Passò quel giorno senza avvenimenti di rilievo; il nuovo ospite andava migliorando dei piedi e rimettendosi di forze, e lo Svizzero, troppo superbo per degnarsi della nostra compagnia, se ne stava appartato, disponendo i suoi effetti entro una capanna, come fosse stata eretta a suo uso esclusivo; come se egli avesse concorso con le sue fatiche e coi suoi sudori a piantar quelle travi, a disporvi quelle paglie, a distendervi quelle stuoie.
Pur troppo, a questo mondo, non è sì raro il caso che altri approfittino delle fatiche altrui, e vengano tenuti in nessun conto coloro che più arrischiarono, patirono, sacrificarono.
Un terzo visitatore calò tra noi il giorno appresso, l’egregio Bonichi, con seguito d’indigeni, camelli, provvigioni e munizioni.
Appena giunto, dopo scambiati i saluti di convenienza, fu costretto ritirarsi nella capanna di Colombo per mutar gli abiti che erano fortemente bagnati per un acquazzone toccatogli per via.
Il signor Bonichi era un uomo di matura età, ma di bella presenza, di buone e gentili maniere, era un vero gentiluomo, degno amico di Ricasoli, di cui era stato condiscepolo a Firenze.
Aveva vissuto qualche tempo al Cairo, ove esercitava l’avvocatura, e s’era poi unito al Zucchi, voglioso di concorrere anch’egli alla formazione della nostra sfortunata colonia.
Dagl’indigeni, che erano giunti seco lui, avemmo la conferma della arrogante condotta del signor Zucchi, il quale il giorno innanzi aveva tirato un colpo di revolver contro uno dei pastori, perché, secondo lui, non aveva ben guardato due somieri affidatigli, uno dei quali era stato nella notte assaltato da una iena e gravemente ferito.
Il signor Zucchi però, tirando a fuoco e non avendo colpito, metteva in dubbio la tanto decantata perizia degli Europei nel maneggio delle armi, cosa a cui gli indigeni attribuivano un’importanza che era quasi un prestigio.
Aveva poscia sparlato del console Munzinger, e inveito contro due missionari che trovavansi a Keren, usando loro ogni maniera di sopraffazioni.