La colonia italiana in Abissinia/VI
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VI.
Pericoli e timori — L’ultima scarica dell’arma — Momenti supremi — Uomo o belva? — “Ghoitana, ghoitana!„ — Marcia forzata — Fuori di pericolo — Ricondotto ai compagni — Di nuovo in viaggio.
Traversata così la larghezza della selva, mi trovai sopra un vasto spazio di sabbia terminato, di fronte, da un altro tratto di selva. Traversai quello e questo a rapidi passi, e mi trovai tosto sulla sponda di un fiume arido affatto, di cui non ricordo il nome, ma proveniente da alcune delle diramazioni del Nilo. Discesi per la sponda, benchè a disagio, in causa dell’altezza di circa trenta piedi, e d’una ripidezza singolare. Dovetti far scorrere prima il fucile, poi lasciarmi scivolare, sostenendomi a mani e piedi, finchè giunsi al fondo non senza aver corso pericolo di rotolare e di fiaccarmi il collo.
Per buona sorte, il letto del fiume manteneva alcune impronte di camelli, la quale osservazione mi rincorò alquanto, e mi fe’ nutrir la speranza che la carovana fosse passata per di là; ma col proseguire che facevo, mi accorsi che quelle orme, raggiunta una diversione dal fiume, erano vôlte precisamente all’opposto di quella via, che avrebbero dovuto tenere i miei compagni, a quanto almeno m’era dato di raccapezzare.
Ecco dunque ch’io tornava allo stato di abbattimento da cui era uscito allora allora.
Rifeci la via, e salsi l’opposta sponda in faccia al punto da cui era disceso, internandomi in una nuova foresta, e chiamando con tutto il fiato possibile il mio amico Colombo.
Ma anche ivi, silenzio. Mi tenni allora positivamente perduto. Ad ogni foglia che veniva scossa, sia dagli uccelli, sia dalla caduta d’altre foglie, o da qualsiasi altro motivo, sembravami che sbucasse una fiera. La notte si avanzava. Aveva ancora con me due pistole; le scaricai ad intervallo; stetti ascoltando, e lo scoppio dell’arma echeggiò a lungo per la foresta. Di lì a poco, intesi un lontano colpo di moschetto, ma non potei notarne la direzione.
Ognuno può immaginarsi qual fosse la mia disperazione non avendo più polvere, per poter rispondere a quel segnale: le mie armi erano diventate inutili. Mi morsi le dita. Come un forsennato presi alla ventura il primo sentiero che mi capitò sotto ai piedi e corsi a tutta lena, gridando e quasi urlando l’uno o l’altro dei nomi dei miei compagni.
Un movimento nella selva, mi fece però accorto che s’avanzava alcuno.
Era uomo, era bestia?... Qual terribile momento di esitazione! Mi fermai, ritto sulle due gambe, e colla canna del fucile in mano, deciso a vender cara la mia vita. Se è una fiera, pensava tra me, sarà ben difficile ch’io possa salvarmi; ma se è un uomo, sia pure un selvaggio, il calcio del fucile mi difenderà. Aveva meco anche un atagan stambulino, che poteva essermi giovevole; per cui mi portai vicino a un tronco d’albero, rimpetto ad un immenso cespuglio, dal quale, supponevo, sarebbesi probabilmente affacciato il mio nemico. Era grondante di sudore, e per quanto sangue freddo cercassi di avere, pur nullameno i miei occhi erano spalancati, i capelli irti, il cuore mi batteva violentemente. Intanto le pedate si distinguevano sempre più: deciso a tutto, trassi l’atagan dalla guaina, e mi posi in guardia.
Poco dopo, udii, assai d’appresso, una voce umana, che chiamava: Ghoitana! Ghoitana! che in linguaggio tigrè equivale a Signore, Signore! Al secondo appello mi parve di riconoscer quella voce. In un baleno mi staccai dall’albero, e sollecitai il passo per raggiungere quell’uomo, giacchè la voce, per la subita emozione mi era mancata. Quando potei finalmente profferire una parola vi risposi col grido: Enzè, enzè, che significa qui, qui.
Immantinente si aperse il cespuglio, e mi vidi innanzi un indigeno della nostra carovana, armato di scudo e lancia, il quale, ansante e madido di sudore, ma colla letizia nel volto, mi si faceva incontro.
Mostrava quell’uomo le traccie della sofferta fatica. Anch’egli aveva errato lung’ora per incontrarmi; anch’egli aveva sofferto al pari di me il dubbio e la paura: anch’egli dunque rallegravasi fuor di modo per avermi ritrovato. Fu in vero un quadro commovente! Fuori di me, stava già per abbracciarlo; ma egli s’era volto rapidamente e mi mostrava, a cenni, che conveniva affrettarsi.
Si diemmo a correre, benchè non ne avessimo gran voglia, ma per poter uscire al più presto possibile da quel labirinto pericoloso.
Le gambe mi si piegavano ad ogni due passi; ma, tant’è, bisognava sforzarsi; tanto più che l’indigeno, più forte e più pratico di me, mi avanzava d’un buon tratto e volgevasi sovente a borbottarmi: szeè... szeè, che significa: correte.
La corsa durò quasi un ora, non priva di inconvenienti, a motivo delle sinuosità e scabrosità del terreno, e per la quantità di spini che sporgevano dalle piante, per cui ne uscii colle vesti stracciate, le mani e la faccia rigate di sangue.
Giovommi però molto quella tal cuffia che aveva acquistato a Gedda, e che pensò a ripararmi dalle punture alle tempie ed alla testa, chè gli occhi m’era convenuto lasciarli in balia del caso, tanto si rendevano necessari per vedere ove movessi. La buona ventura, però me li tenne salvi, sebbene più d’una volta le mani si fossero insanguinate per essi. Talora mi accadde di dover fermarmi nella corsa, per essersi la berretta scontrata in qualche spina; ed allora, liberandomene, perdevo terreno; la qual cosa mi costringeva a raddoppiar poscia di lena e di sollecitudine per raggiungere il mio salvatore. Ogni qualvolta mi accadevano di siffatti inconvenienti, mi assaliva una tal rabbia, che avrei lacerato coi denti o sbranato colle mani non saprei quale inimico; parevami che avrei lottato persino contro una tigre.
L’indigeno si corrucciava per dovermi aspettare, e picchiava bruscamente il suolo colla sua lancia, in segno d’impazienza. Per tutto compianto delle mie punture, mi ripeteva in tigrè: Aghid, aghid... (presto, presto).
Finalmente, uscimmo da quell’orrida foresta, e ci trovammo in un sito meno folto e assai più praticabile. Rallentammo allora la corsa, che però equivaleva sempre ad una marcia militare forzata. Lo scopo era quello di raggiungere la carovana prima che la notte si fosse di molto inoltrata. E a notte fitta soltanto li potemmo alfine raggiungere.
Siccome erano rimasti dolenti ed in preda ad una crudele incertezza per tutto quel tempo, così non è a direi, qual gioia abbiano dimostrato nel rivedermi. Dopo molte scambievoli ricerche, io narrai per filo e per segno tutte le particolarità del mio smarrimento; e seppi che anch’essi avevano tirato parecchi colpi di fucile per avvertirmi; colpi ch’io non aveva certamente inteso. Dopo di chè, non vedendomi a ritornare, avevano inviato sulle mie traccie tre indigeni, due dei quali erano ritornati senza effetto, e il terzo, più fortunato, mi aveva trovato e ricondotto.
Egli aveva potuto seguire le mie prime orme, e indovinare la direzione che avevo presa. Quelli indigeni sono espertissimi dei luoghi e salvarono più e più volte di quei focosi cacciatori, i quali, se hanno in animo d’inseguire una bestia di qualsiasi genere, non l’abbandonano fin tanto che non l’abbiano raggiunta ed uccisa; non si curano affatto di tener conto delle strade che percorrono e finiscono con lo sviarsi, per modo, che senza il soccorso degl’indigeni, vi lascierebbero la vita.
Montai poco dopo sul mio somiero, chè ne avevo bisogno, per la eccessiva stanchezza, e proseguii il cammino colla solita compagnia per alcune ore. Dopo di che smontai e mi posi al passo, camminando sovra un terreno sabbioso, finchè raggiunsi insieme agli altri, una folta boscaglia, ricca d’alberi giganteschi e di spaziosi cespugli, i cui ramoscelli, attortigliandosi a quelli più grossi degli alberi, formavano una specie di porticato riparatore.
La notte era oscura; quando a quando l’urlo di una belva rompeva il silenzio che regnava intorno a noi. Ivi trovavansi in copia i leoni, le iene, i leopardi, che sollevavano ruggiti terribili da non permetterci un istante di tranquillità d’animo e di pace. Io sentiva, più degli altri, il peso del faticoso viaggio, e più degli altri ero invaso da un certo senso di terrore al passare sotto quella volta di foglie, e a sentirmi lacerare gli orecchi da una musica cotanto disgustosa e straziante.
L’ansietà, colla quale spingevamo la marcia, allo scopo di raggiungere un miglior punto per far sosta, fu una vera agonia. Finalmente ci trovammo in una piccola valle, che ci parve adatta per accamparci.
Scaricati i camelli, stesi a terra la mia coperta e mi vi lasciai cader sopra. La mia spossatezza era si grande che mi addormentai quasi subito. Nel frattempo i compagni s’erano recati a far legna nella vicina foresta, tenendo in mano delle frasche accese per evitare qualche sinistro incontro.
Quando ritornarono, siccome era di consueto, accesero parecchi fuochi sparpagliati per tutelare il comune rifugio; indi Glaudios diedesi la briga di cuocere delle lenti, e di farmi destare quando la cena fu approntata.
Mangiai d’ottimo appetito, presi un buon the, ed assistetti alla conversazione sociale. Alcuno di noi non avrebbe potuto far di meglio, non potendoci il sonno più favorire a motivo degli urli delle iene che ci assediavano.