La colonia italiana in Abissinia/V
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V.
Partenza da Cassala — Alberi giganti — Conversazione all’ombra d’una adansonia — Aneddoti del padre Stella — I viaggiatori francesi — Il console Munzingher — Due leoni — — Una gazzella mi allontana dalla carovana — Mio smarrimento nel deserto.
Al 9 Aprile, ci disponevamo a riprendere il viaggio, togliendo commiato dal sig. Panajoti, che si mostrò afflitto oltremodo per la nostra troppo sollecita partenza; ma siccome non era del nostro interesse il soffermarci colà troppo a lungo, così non potemmo cedere alle istanze di quell’ospite gentile e generoso che ci avrebbe voluto trattenere ancora per qualche giorno.
A noi premeva di guadagnar tempo e di trovarci al più presto possibile sul luogo di destinazione per allestire le capanne anche per coloro che dovevano giungere colla successiva spedizione.
Perciò di buon mattino, salutammo il nostro ospite, che non volle però rimanersene a casa; ma, insellato in fretta e montato un bel cavallo etiope, ci usò l’attenzione di accompagnarci per un bel tratto di strada.
Dopo di che, prese commiato stringendoci ad uno ad uno la mano ed augurandoci prospera la fortuna.
Ci avviammo alla volta di Zaghà, capo luogo della tribù dei Beniahmer, sede d’un governo retto a triumvirato. Siccome avevamo percorso un lungo tratto di via, così verso il mezzogiorno dovemmo sostare in una selva, valendoci dell’ombra di una colossale adansonią per refrigerarci.
Quell’albero gigantesco fu da noi misurato, ed eravamo in dodici a circuirlo, l’uno stretto alla mano dell’altro. L’altezza era presso a poco come quella d’un ordinario campanile, ed i suoi rami, che avevano forma conica, stavano rivolti all’insù e terminavano in un ciuffo composto di molti piccoli rami recanti delle frutta somiglianti alle noci d’America.
Nel seno di cotali rami colossali si formano alcune specie di pozzi in cui usano ricoverarsi avoltoî ed altri rapaci, come grifoni ed aquile. Il legno di quelli alberi è spugnoso, la midolla oleosa, la corteccia grossa circa un pollice e facile ad essere staccata. Della corteccia si fabbricano corde, le quali servono a tener salde le travi colle quali si erigono le capanne, adoperandole però dopo che sieno state per qualche tempo tenute ad ammollire nell’acqua. Allorchè, poste in opera, si asciugano, esse si restringono per modo da servire meglio dei chiodi e degli arpioni.
Accanto all’albero improvvisammo la cucina e cucinammo un po di lenti. Il the vi tenne poi dietro, stando noi seduti in ottima compagnia a raccontarci storielle ed aneddoti.
Il sig. Stella ci narrava che, tre anni prima, egli s’era trovato in quelle medesime regioni, ed erano venuti i propri servi ad incontrarlo allorchè ritornava da Parigi, ove s’era recato per far conoscere e prendere in considerazione i luoghi dei Bogos e l’opportunità di istituirvi una colonia francese.
Il ministero di Francia lo avea burlato, o come suol dirsi, lo andava lusingando, protraendo una decisione, ma nel frattempo movendogli domande e scaltre ricerche sulle posizioni dei luoghi, sugli usi, sui modi di contenersi ecc. allo scopo di sfruttare le fatiche ed i meriti di quell’uomo coraggioso ed onesto, coll’intenzione di mandarvi poscia i propri connazionali, i quali, approfittando della già fatta scoperta, riuscissero a far perdere il prestigio a lui ed ai nostri.
I fatti, a conferma di tali induzioni, non tardarono a manifestarsi e, alcuni giorni prima, che noi abbandonassimo, come si vedrà, la nostra impresa, quattro francesi con un loro capo parigino, per nome Ghuardiè comparvero in codesti luoghi, accampandosi sotto le loro tende non lungi da noi. E non erano i primi che vi giungevano, ma altri ancora n’erano venuti in antecedenza, sin da quando il signor Stella aveva chiesto l’appoggio del Ministero francese per la fondazione della colonia.
Costoro, colla consueta spensieratezza, avevano divisato di riuscire nell’intento, e già credevano di esserci; già facevano sventolare sulle loro baracche il vessillo tricolore; ma assai in breve dovettero abbandonare le mal nutrite speranze, poichè in capo a due o tre giorni, si tolsero di lì per recarsi in Adulis, a cercarvi pane pei loro denti.
Infatti ivi stavano accampati gli Inglesi ch’erano allora in guerra contro l’Abissinia; motivo per cui dovettero tosto retrocedere e accontentarsi di ramingare per quei lunghi sì difficili e pericolosi.
Persuasi finalmente di non poter venirne a capo, e stanchi della misera vita che traevano, girarono verso i paesi Galass al sud-ovest dell’Abissinia, trattando assai bruscamente e colla solita alterigia i servi della carovana, sì che questi, stanchi dei mali trattamenti, si rivoltarono e li misero a morte.
A tal fine conducono la ingiustificata arroganza e la eccessiva presunzione!
Al governo francese stava però sempre a cuore il possesso di quei luoghi; ma non ostante aveva fin dapprincipio negato appoggio ed assistenza al sig. Stella, solo perchè italiano.
Io feci allora a quest’ultimo un’osservazione, che mi parve sanissima ed opportuna: gli chiesi per qual motivo, egli, italiano, non si fosse rivolto fino dalla prima volta al proprio governo, anzichè offrirsi agli stranieri: l’Italia ci doveva trovare il suo tornaconto nell’appoggiare e sviluppare una colonia nell’Abissinia.
Il signor Stella mi rispose francamente ch’egli era stato soltanto missionario incaricato di propagare la religione cristiana in quei paesi, e che, quella volta, i missionari erano assai protetti dai Francesi.
Mi faceva osservare che allora l’Italia era impegnata nella lotta suprema per la sua unità ed indipendenza, e che quindi il governo aveva altri maggiori interessi da curare che non pensare a colonie; e perciò egli s’era rivolto alla Francia nella speranza di un valido e leale patrocinio. Ma colla massima delusione aveva dovuto ricredersene e, preso da giusta collera, avea dato le sue dimissioni da missionario, ciò che gli avea procurato in seguito ogni sorta di vessazioni da parte degli incaricati di Francia in molti paesi dell’Abissinia.
Il console francese Munzingher, residente a Massaua, lo aveva perseguitato più d’ogni altro e calunniato presso il gabinetto di Parigi; egli cercò più e più volte di perderlo con ogni mezzo, anche illecito. Aveva persino cercato di farlo uccidere e non essendogli riuscito, si era accontentato di suscitargli contro la disistima, il disprezzo e l’abborrimento degl’indigeni, facendolo chiamare il Scheitán, che in linguaggio tigrè equivale a Diavolo; titolo questo, che in certi luoghi della tribù dei Bogos, basta a mettere un uomo nei più gravi imbarazzi ed assai spesso a repentaglio della vita 1.
Per buona sorte gli sforzi del console non trovavano eco, ed il padre Stella opponeva ai medesimi una risoluta ed energica condotta, vivendo intrepidamente da solo, ritirato nei suoi propri boschetti, ove contava di vivere a lungo, provando a tutti non essere punto il Diavolo, ma un uomo d’onore e di coraggio.
È perciò, soggiungeva egli poscia, ch’io mi ritrovo ora in seno a voi, e spero di esservi utile di opere e di consigli per raggiungere finalmente lo scopo da tanti anni vagheggiato, e veder sorgere la nuova colonia in prova di buon volere e di concordia ed a decoro ed utilità dell’Italia, mia patria. Sì, egli conchiudeva, noi potremo render noto, stimato ed onorato il nome italiano in queste remote contrade.
Poco dopo, essendoci riposati e ristorati sempre all’ombra della gigantesca adansonia, siccome il sole dardeggiava meno intensamente, ne approfittammo per rimetterci in cammino.
Avevamo percorso poche miglia, allorchè il padre Stella ci ordinò di fermarci presso un luogo, ov’egli nei tempi addietro aveva del pari sostato coi propri servi, allorchè viaggiava per Cassala.
Ci eravamo appena adagiati all’ombra di una siepe, fumando tranquillamente il gogò, che il vicino ruggito di una fiera venne a metterci in confusione.
Di lì a poco, in cima ad una piccola altura, ecco presentarsi due vecchi leoni, o, a meglio dire, un leone colla sua femmina, di straordinaria grandezza.
Benchè fossimo già stati adocchiati dalla terribile coppia, tuttavia il maschio pareva se ne curasse poco; anzi s’era posto maestosamente a giacere, mentre la leonessa gli girava all’intorno, senza togliere lo sguardo da noi, quasi bramosa di cimentarsi.
Alcuni servi chiesero allo Stella il permesso di puntare i fucili per iscaricarli su quel gruppo; ma egli non vi acconsentì, sapendo, che qualora i colpi non avessero raggiunto lo scopo di ucciderli sul fatto, la nostra brigata sarebbesi trovata a mal partito, e difficilmente avrebbesi potuto sostenere l’assalto delle due bestie ferite.
Fu quindi miglior partito il lasciarle in pace, tanto più che il leone non mostravasi disposto affatto ad entrare in lizza, e la sua compagna erasi calmata dei primi trasporti e s’era accovacciata presso di lui.
Quando il signor Stella lo credette opportuno, ci fece alzare e proseguire la marcia. Molti luoghi, pei quali passavamo erano perfettamente noti al nostro egregio condottiero, ed egli c’intratteneva con racconti e con descrizioni dei luoghi e delle avventure toccategli, nonchè dei disastri ai quali erano soggiaciuti altri illustri viaggiatori e perlustratori dell’Africa.
Il tempo così trascorreva più sollecito che mai, e sopportavamo, quasi senza addarsene, le grandi fatiche del viaggio.
Era scorso forse un giorno dalla nostra partenza da Cassala, allorchè, verso le quattro e mezzo pom., la mia mala ventura mi spinse ad allontanarmi dai miei compagni per esercitarmi alla caccia.
Mi tenni a destra della carovana e sempre in vista della medesima, avendo meco il fucile, il mio vecchio saccopane, e la boraccia del cognak.
Appena varcata la foresta, che da ogni lato era foltissima, il malanno mi portò dinanzi agli occhi una gazzella, la cui comparsa mi fece dimenticar dei compagni e del pericolo nel quale sarei incorso scostandomi da quelli.
Mi avvicinai pian piano all’animale per poter giungere al tiro, mentre esso se ne stava pacificamente ritto, come se alcun pericolo non lo minacciasse.
Ad un tratto però si volse, resosi accorto forse del rumore prodotto da qualche mio movimento. Io m’arrestai immantinente, nè mossi palpebra; ero immobile come una statua, duro come una colonna. Trattenni persino il respiro onde ingannar maggiormente la mia preda; ed infatti la gazzella, rassicurata dalla mia immobilità, si moveva salterellando nella piena sicurezza di non essere inseguita.
Un vivo desiderio di prenderla s’era impossessato di me, tanto più che avrei bramato di far con essa una dolce sorpresa ed un grato presente ai miei compagni. Perciò mi raffermai nel proposito e mi diedi a seguitarla. Ma per quanto leggermente io camminassi, non mi venne fatto di occultarle il mio progetto; imperciocchè lo scaltro quadrupede, fermatosi di botto e coltomi in fallo, si diede precipitosamente alla fuga, traendosi, in un batter d’occhio, fuori del tiro del mio fucile e sparendo in breve anche dalla mia vista.
Allora subentrò in me il dispiacere di aver percorso inutilmente sì lungo tratto di via e d’essermi per sì futile motivo separato dai compagni. Rientrato in me stesso, e dopo avermi guardato all’intorno, mi diressi verso quel punto in cui supponeva di potermi ricongiungere ad essi.
Ma la fitta foresta che mi stava di fronte me lo impediva; per cui, colto da un cattivo presentimento, affrettai il passo non senza rimproverarmi della mia stolta imprudenza.
Infatti l’imbarazzo mi si faceva sempre maggiore; non rinveniva traccia umana di sorta; errava come un forsennato chiamando a squarciagola: Colombo! Colombo! e soffermandomi tratto tratto, per ascoltare se alcuno mi rispondesse.
Invano! Mille idee mi si affacciavano alla mente sconvolta, tanto più ch’era sull’imbrunire e già da due ore errava inutilmente. Tirai un colpo di moschetto, e mi accorsi, subito dopo, che difettava di polvere e di palle: non ne aveva che per due sole scariche, una a palla ed una a pallini.
In tali angustie, non sapevo a qual partito appigliarmi, nè qual direzione prendere. Mi spaventava l’idea di dover perire di sete o per le unghie di qualche animale feroce, dei quali, pur troppo, non c’era penuria. Scaricai il colpo della seconda canna ch’era carica a palla, arrischiando di rimanere sprovveduto anche nel caso in cui venissi assalito da qualche fiera. Ciò era la stessa cosa che correre sbadatamente sull’orlo d’un precipizio; ma la speranza di poter essere udito da qualcheduno mi decise anche a quel rischio.
Questa volta, non fu del pari alcuno dei miei che si scuotesse allo scoppio dell’arma, ma una mandra di gazzelle, di cui non feci il minimo caso stante l’agitazione d’animo in cui mi trovava.
Note
- ↑ In prova ch’io ciò non asserisco per animosità o per capriccio, cito le testuali parole colle quali il sig. Arturo Issel, professore di geologia e mineralogia della r. Università di Genova si espresse in argomento, nella relazione del suo viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos:
“Uno degli avversari del povero Lazzarista (il padre Stella) quegli che gli mosse più aspra guerra, fu, mi spiace doverlo dire, un uomo che porta un nome onorato fra i cultori delle scienze geografiche, Werner Munzingher. Io ne fui consapevole solamente dopo il mio ritorno in patria, quando conobbi i documenti, raccolti con scrupolosa diligenza da’ miei compagni, sulla vita dello Stella e sulle vicende della colonia italiana da lui fondata„
— E più innanzi:
“I miei compagni si diedero ogni premura immaginabile per raccogliere documenti e testimonianze risguardanti le vicende e la fine dello Stabilimento di Sciotel, ed il dottore Beccari, tornato in patria, ne espose per filo e per segno una storia imparziale, nella relazione destinata ai suoi mandanti. Ma siccome questa mette in luce alcuni fatti poco lusinghieri pel signor Munzingher (nè poteva essere altrimenti in uno scritto veridico) il consiglio della Società Geografica, mosso da un sentimento di delicatezza, altrettanto esagerato quanto intempestivo, oppose tali difficoltà alla pubblicazione del rapporto, che l’autore credette doverlo ritirare, almeno per ora. La Società Geografica ha negato così il suo concorso ad un atto di riparazione e di giustizia dovuto alla memoria dello Stella ed ha perduto forse l’occasione d’inserire nel suo bollettino (che pure non ha dovizia di buoni lavori) una memoria originale del più alto interesse scientifico„.
(Issel, viaggio nel Mar Rosso e tra i Bogos, Milano, Treves 1872. cap. VI. pag. 88 e 107.)