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Arrivo a Cassala — Incontro cogli Indigeni — Ricevimento festoso — Il signor Panajoti — Pranzo di gala e feste — Olda-Gabriel — Soggiorno a Cassala — Un secondo Maometto — Miracoli — Gli schiavi cordofani — Il nostro piano — Il signor Con.



Alli 30 di Marzo del 1867, Cassala ci stava innanzi agli occhi. Poco prima di entrare nella città, ci abbattemmo in alcuni indigeni della tribù dei Bogos che recavano ai Cassalani delle legna dalle vicine foreste. Fra costoro, molti conobbero il sig. Stella. Gettando rapidamente a terra il loro carico ci corsero incontro, festeggiandoci, prendendo le nostre mani ed avvicinandosele alla fronte. Sempre inchinandoci e prorompendo in esclamazioni di giubilo, ci accompagnarono sino all’abitazione di certo sig. Panajoti, casa Gozicka, intuonando liete canzoni e destando la curiosità del paese, cosicchè vi arrivammo in pieno trionfo, circondati da una moltitudine di negri, ch’era una maraviglia. Non parrà strano se io ricordi che il mio cuore balzava di gioia, vedendomi per la prima volta, e dopo tanto tempo, circondato da persone che mi si dimostravano amiche. [p. 36 modifica]

Allora mi chiamai felice, soddisfatto di aver preso parte a quella spedizione. Un bell’orizzonte balenava al mio pensiero, e già sul volto sereno dei miei compagni io leggeva la medesima sensazione. Pronosticava da ciò un lieto avvenire, nè mai in quel giorno avrei potuto supporre che la nostra situazione si sarebbe in breve mutata, e che i nostri progetti avrebbero dovuto fatalmente svanire.

Il signor Panajoti, che ebbe per fatalità a morire pochi giorni dopo il nostro arrivo, ci mosse incontro e ci ricevette in un vasto cortile, seguito da tutti i suoi servi e dagli schiavi. L’accoglienza fu veramente cordiale. I nostri camelli vennero scaricati e noi fummo invitati a prender riposo sopra alcune brande, approfittando dell’ombra che gettavano le mura del cortile in mezzo al quale sorgeva una piccola abitazione. Era questa una specie di magazzino in cui stava raccolta la famiglia Casanova industriante in animali selvaggi.

Dopo che ebbimo preso un conveniente riposo, sempre presente il sig. Panajoti, giunsero altri servi che ci invitarono ad entrare in un piccolo gabinetto addobbato nel più perfetto gusto orientale.

Colà fummo serviti d’un lauto pranzo in cui abbondavano i latticini, e si ebbe copia di dolci e di vivande preparate con certe frutta a noi sconosciute, e proprie della mensa degli Arabi.

Mentre eravamo tranquillamente seduti ad asciolvere, udimmo un forte schiammazzo che partiva dal cortile ed era prodotto dalle entusiastiche acclamazioni degl’indigeni, che suonavano certe trombe di legno assai lunghe e poco ritorte, a somiglianza di quelle usate in Europa nell’evo medio. La maggior parte degl’intervenuti a quella affettuosa dimostrazione erano vecchi [p. 37 modifica]amici del signor Stella, che essi, nei ritornelli delle loro canzoni, acclamavano e salutavano: «padre dei Bogos».

Tolte le mense, i visitatori furono introdotti nella stanza. E là, inchini profondi, esclamazioni di giubilo e dimostrazioni di affetto, a piacere; senza dimenticare di prenderci le mani e di recarsele alla fronte in segno di umiltà e devozione.

Il signor Stella li fece sedere, e quando il circolo si fu costituito, ebbe principio una brillante conversazione tra essi e lui, il quale dichiarava di averli sempre avuti a cuore durante la sua assenza, e di esser lieto oltremodo di rivederli. Manifestato poscia ai medesimi il desiderio di udire le novità, gli raccontarono che i Marias erano stati battuti, durante la sua assenza, dai Bogos servi del signor Stella, forti e valentissimi giovanotti, da lui istruiti fin da fanciulli e addestrati al maneggio del fucile. Essi avevano disteso al suolo quaranta Marias e ferito un loro capo; poscia avendo marciato sopra il loro paese, lo avevano saccheggiato riportandone un vistoso bottino in vacche. Di questo avevano saputo saggiamente approfittare, comechè fossero assai bene forniti d’ogni altra cosa necessaria e se la passassero da ricchi nel loro piccolo paese di Keren.

Tra gli allievi del signor Stella venne ricordato, siccome quello che si era distinto fra tutti, Olda-Gabriel, che da schiavo del medesimo, passò alla condizione di suo figlio adottivo, e fu da esso lui addestrato nel trattare armi da taglio e da fuoco.

Dai colpi di questo giovane coraggioso, che meritossi il soprannome di eroe del Tigre, non isfuggiva alcuna fiera ch’egli avesse affrontato; aitante della persona, tarchiato, robusto quanto un toro, snello siccome una gazzella, aveva i lineamenti sereni, fiammeggiante [p. 38 modifica]lo sguardo, il labbro sdegnoso. Era però d’un temperamento ottuso, parlava poco, e soltanto dopo essere stato interrogato.

Nella caccia, suo principale diletto, era famosissimo, in ispecialità in quella degli elefanti. Vedremo in seguito, come per l’affetto che questo giovane portava al signor Stella, si affrettasse ad abbandonare anche la caccia per correre a salutarlo e a gettarsegli ai piedi.

Sopraggiunta la notte, ci ritirammo al coperto, vale a dire in un magazzino ove potevamo, più che fosse possibile, essere garantiti dalle punture delle zanzare; ma non potemmo chiuder occhio, pei frequenti ruggiti delle iene che gironzavano intorno alla cinta del paese, in traccia di cadaveri.

Di tratto in tratto, ci destava da quel leggiero sopore in cui cadevamo, qualche colpo di moschetto, tirato da soldati cordofani, i quali vegliavano in sentinella sopra un muro. Luogo più di quello infetto da iene, non mi venne dato, nè prima nè dopo, di ritrovare.

Di primo mattino avemmo le solite visite degl’indigeni. Il signor Stella inviò alcuni de’ suoi servi a Keren per annunziarvi il nostro prossimo arrivo e per disporre in modo che fossimo ricevuti a Zaghà, paese della tribù dei Beniahmer.

Durante il nostro soggiorno di nove giorni a Cassala ci chiamavamo felici, in quanto possedevamo ogni sorta di comodità relative. In quei medesimi giorni era venuto ad alloggiare in casa del signor Panajoti uno Schek, specie di nuovo Messia o di secondo Maometto, chè di lui tale idea m’era formato sino dal primo istante in cui lo vidi.

Era di statura vantaggiosa, ben fatto, snello, di [p. 39 modifica]piacevole ed autorevole fisionomia, con un paio d’occhi neri attorniati da nere ciglia e coronati da sopraciglia foltissime.

Portava una cuffia di seta tessuta in oro e passata a cordoncino d’argento, che gli scendeva fino alle spalle, orlata da una treccia di pelo di camello. La sua sopraveste era di colore azzurro, la bellissima e grande scimitarra, che gli pendeva al fianco, era di mirabile lavoro, cesellata artisticamente e recante sulla lama alcune incisioni sopra soggetti del Corano. Possedeva uno stupendo cavallo arabo, candido, di puro sangue, gelosamente custodito da un piccolo javolet negro.

L’uomo singolare, che, ho descritto, lasciava trasparire dai suoi lineamenti e dai suoi atti, ch’era un uomo astuto, furbo e scrutatore, ma altrettanto bigotto musulmano. Da quell’ipocrita ch’egli era, si dava una importanza straordinaria e misteriosa.

Suo mestiere era quello di chirurgo; ma s’era dato a curare le malattie d’occhi, più a modo di fattucchiero che di scienziato. Custodiva gli ordigni della sua arte superstiziosa entro un forzieretto; e quegli ordigni consistevano in alcune pietre rotonde, di vario colore, ed in una specie di grano-seme, che avea molta rassomiglianza con una fava secca. Toccando con essa gli occhi dei malati, li soffregava, recitando alcune frasi del Corano e promettendo in nome di Maometto, la guarigione.

Gl’indigeni accorrevano d’ogni parte ad ammirare le strepitose cure di codesto chirurgo, traendo alla sua presenza ciechi d’ogni genere, da quelli che avevano perduto la vista da oltre uno, due, dieci e vent’anni, a quelli persino ch’erano nati ciechi. Coloro sorretti dalla speranza che la virtù della santa fava, proveniente dalla [p. 40 modifica]Mecca, avesse a render loro la vista, si sottoponevano a quella cura singolare.

L’applicazione di quel rimedio si eseguiva e combinavasi per modo, che, secondo le dichiarazioni dei pazienti, essi sentivano un certo qual fresco alla parte inferma, che loro procacciava, almeno pel momento, refrigerio e consolazione. Perciò se ne andavano sicuri della futura guarigione. La mercè quindi delle deliberazioni di quelli ignoranti, ne derivava all’impostore siffatta rinomanza, che l’affluenza diventava ogni giorno maggiore.

L’abitazione del signor Panajoti era a tutte l’ore frequentatissima; gl’indigeni accorrevano, chi a veder noi, chi a idolatrare lo Schek che operava i miracoli di cui sopra, chi a impetrar dal medesimo le sante e miracolose sue cure.

Noi intanto giravamo il paese, tutto osservando con minuziosa attenzione, maravigliati della grettezza e della meschinità che riscontrammo in quello strano modo di vivere, e soffermandoci poi, parecchie ore, nella seconda abitazione del signor Panajoti, sita in altro punto del paese, e nella quale tenevansi raccolti varî servi negri che ci servivano a tavola. In questa seconda dimora cenavamo ogni sera, serviti da cinque schiavi cordofani.

Uno di costoro se ne stava ritto in piedi, con un grande fanale tra le mani fin tanto che durava la cena; il secondo teneva un piccolo bacino di metallo con entro una spugna ed un pezzo di sapone; il terzo attendeva alle salviette; il quarto sbarazzava la tavola dalle stoviglie e riceveva dal quinto le vivande che ci venivano poste innanzi con garbo e con rispetto.

Certamente, nell’harem del Sultano le femmine non avrebbero potuto esigere migliore servitù. [p. 41 modifica]

Una sera, terminata la cena, tenemmo seduta per consigliarci a vicenda sul modo di contenerci al nostro ingresso in Sciotel ed in altri paesi. I piani immaginati e comunicatici dal signor Stella erano grandiosi: Trattavasi di occupar terreni, di estendersi, d’istruire, di lavorare, coltivare, fabbricare, cacciare.

Pensavamo di muovere alla conquista di qualche piccola provincia, e in quella e con quella ingrossare la famiglia dei Bogos, per poscia dividere il nostro possesso in sezioni tributarie e dipendenti dal nostro capo; civilizzare quindi, condurre alla moralità ed al benessere, modificare costumi e religione, innalzare l’insegna della libertà e del progresso, dando alla colonia intera un governo progressista e democratico.

I prodotti derivanti dall’esercizio della caccia, dalla coltivazione delle terre, dall’allevamento del bestiame e da altre industrie, dovevano essere ripartiti per modo che d’una metà avesse a fruirne il padre Stella, e dell’altra i suoi compagni, non esclusi quei tanti che avevano in antecedenza esplorato il paese ed alcuni dei quali già si erano congiunti a noi; altri li aspettavamo.

Erano contemplati: Colombo e Ravasano piemontesi, Boccianti, Bonichi e Stefano... toscani, Gentilomo siciliano, Moro da Udine, il celebre Miani da Venezia, Glaudios spagnuolo, Andrea... ungherese, Cicco napoletano, ed io: Gustavo Büchler da Trieste. D’uno svizzero del Canton Grigioni non ricordo il nome; ma c’erano inoltre, certo Ass prussiano e il baverese Con, dei quali darò ora separatamente qualche nozione.

Il primo, vale a dire il prussiano, s’era incontrato a Massaua colla comitiva della seconda spedizione condotta dal sig. Zucchi e l’Ass, abile geografo e uomo politico, era stato incaricato dal governo di Berlino di [p. 42 modifica]percorrere e d’illustrare l’Abissinia; e fu appunto durante le sue escursioni che lo incontrammo noi pure a Sciotel.

Il sig. Con trovavasi a Cassala, ove erasi soffermato per fare acquisto d’animali selvaggi. Quando lo incontrammo colà, possedeva già un antilope, un elefante di media statura e quattro giraffe, una delle quali essendosi malata mentre soggiornavamo colà, il sig. Con la fece uccidere prima che avesse a morire di malattia, e colle carni dell’animale ne allestì un pranzo che trovammo, a dire il vero, eccellente.

Sono grato alla memoria di questo uomo, il quale mi usò il favore di recapitare una lettera alla mia famiglia, in Trieste, città ch’egli visitò e in cui soffermossi alcuni giorni esponendovi il suo serraglio di belve. Altra lettera consegnai pure alla signora Casanova nel giorno 3 Aprile 1867, una settimana prima della nostra partenza per Cassala.