La cieca di Sorrento/Parte terza/XI
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XI.
il cavaliere amedeo.
Egli è ormai tempo che i nostri lettori stringano più intima conoscenza con questo personaggio, che abbiam presentato di volo ne’ precedenti capitoli.
Il cav. Amedeo Santoni, di antica famiglia napolitana, era unico superstite tra cinque figli che suo padre, semplice fornitore di marina, avea procreati con una ricca siciliana... Due maschi e due femmine disparvero dal mondo nel breve spazio di pochi anni, parte a Palermo e parte a Napoli, e Amedeo restò solo ad ereditare le richezze del padre. Amedeo alla morte di suo padre avea sedici anni e duecento piastre al mese. L’ambizione e l’avarizia divoravano il cuore di questo giovanotto, le quali due passioni crescevano in lui in ragione dei suoi anni. Un nastro all’occhiello dell’abito era il suo sogno color rosa; e tutto avrebbe dato, fuorchè i suoi denari, per possedere un titolo di nobiltà e un posto distinto nell’alta aristocrazia napolitana.
Ei sapeva che suo padre avea sostenuto lunga e dispendiosa lite per rivendicare un feudo in Sicilia, al quale andavan congiunti antichi privilegi e titoli; un testamento distruggea queste ragioni, o almeno grandemente le svigorava, un testamento, onde quel feudo doveva essere alienato e venduto per suffragare l’anima del testatore. Non importa alla nostra istoria, nè minutamente siamo informati de’ particolari di questa lunghissima lite; ma il fatto è che un giorno il tribunale di Napoli decise vinta la causa a favore di Amedeo Santoni per non essersi trovato il testamento originale. Pria di questo tempo, e senza sapere il come, il donde e il perchè, Amedeo comparve nella società napolitana con un nastro rosso all’occhiello della sua giubba, e col titolo di cavaliere.
E il cavalier Amedeo si slanciò nel gran mondo, dove in qualche modo chi accolto e ben veduto pel suo spirito e per l’avvenentezza dei suoi modi. Facile parlatore, perchè superficialmente istrutto di arti belle e di lettere, esimio suonator di pianoforte, ricco e giovine, di bella persona, ei brillava tra i fatui dei giorno, e studiavasi di dimenticare e far dimenticare di essere stato suo padre un semplice fornitore.
L’ambizione intanto il rodeva. Pago non era del titolo di cavaliere; avea bisogno di un posto luminoso, di una carica elevata, d’una missione diplomatica; ed eccolo buttarsi tra gli uomini politici, ed insinuarsi nei salotti de’ ministri.
Il marchese Rionero, benchè ritirato intieramente dai pubblici negozii da molti anni, e per sua stessa volontà esiliato in Sorrento e tutto consacrato alle cure che esigeva il miserevole stato della figliuola, godea sempre, per giusta deferenza usatagli, del suo credito e della sua influenza. I ministri andavano talvolta a consultarne la saggia esperienza e il sottil tatto diplomatico, onde agevol gli era di ottenere quel che bramava. Oltracciò, la intemerata sua probità e la sua larga beneficenza avean ristretto attorno a lui un cerchio tale che l’invidia, la calunnia e la maldicenza non osavano invadere e valicare.
Il cav. Amedeo indovinò nel marchese l’uomo che avrebbe potuto servire a’ suoi proponimenti ambiziosi, e fece di avvicinarglisi. Il che non gli fu difficile, essendo amico del conte Franconi, amicissimo del marchese. Un bel mattino adunque il cav. Amedeo si trovava nel casino Rionero a Sorrento.
Veder la cieca e tosto concepire l’ardito disegno di divenir genero del favorito diplomatico fu la faccenda di un istante. E non riposò finchè non ebbe strappato al marchese una promessa di matrimonio. Dissimulazione, ipocrisia, astuzie, tutto fu posto in opera per sedurre l’animo del padre di Beatrice; ma non giunse pero ad ingannar l’anima di costei, nella quale, come in limpido cristallo, venivano a riflettersi i vizi di lui e la mal celata ambizione.
Questi pochi cenni bastano per giudicar di quest’uomo, e per comprendere da quanta rabbia dovette essere divorato allorchè udì l’aborrito Inglese parlare a Rionero come un figlio parla a suo padre.
— Scusate, o signori, se disturbo così amabili intrinsechezze, disse ironicamente il cav. Amedeo; veggo di essere un quarto non invitato.
— Ma che giunge opportuno, osservò Gaetano con ghigno beffardo.
— Amedeo gittò sul medico uno sguardo feroce.
— Sig. cavaliere, in verità non vi aspettavo quest’oggi, disse il marchese, tanto che vi avea scritto una lunga lettera, il cui tenore essendo ingrato per voi, dolmi che ora leggerla dobbiate in mia presenza. Ma l’uomo è nelle mani di Dio, e la volontà umana è sottoposta alle leggi della Provvidenza cui dobbiamo tutti rassegnarci e adorare! Grandi novità abbiamo in famiglia... Saprete il tutto dalla lettera.
— Ho saputo più di quel che volea, rispose fremendo il cavaliere; indovino queste leggi della Provvidenza di cui parlate... Dite benissimo; si vede che questa è l’opera della Provvidenza... in fatti, quale donna se non una cieca sposar potrebbe un mostro?
A queste parole Gaetano si alzò pallido di furore.
— Signore! disse il marchese rivolto al cavaliere; ricordatevi che, siete in mia casa e alla mia presenza.
— Io sono un mostro, disse Gaetano le cui labbra tremavano convulsivamente, perchè Dio così mi fece... ma tu sei un codardo e un infame, indegno di portar questo nastro, che serve a nutrir la tua stolta superbia.
Ciò dicendo, Gaetano, avventatosi al cavaliere, gli strappava dall’occhiello della giubba nera il nastro e a terra sdegnoso il gittava.
Non sappiamo a quale atto di violenza sarebbesi spinto l’orgoglioso Amedeo, se il marchese frapposto non si fosse tra i due rivali.
— Uscite, o signore, disse al cavaliere, voi avete insultato in mia presenza il sig. Blackman e mia figlia... uscite... non soffrirò che qui, in questa sala, al cospetto di questa disgraziata, si scambii tra voi una sola parola, un sol gesto di violenza e di collera.
— Esco, esco, sig. marchese; conosco i riguardi dovuti a me e al vostro nome, ma pria di uscire... prendete, signore, disse rivolto a Gaetano, eccovi il mio indirizzo a Napoli; se avete cuore, domani mi aspetto una vostra visita.
Gaetano raccolse freddamente il bigliettino di fina carta porcellana, e lo intascò.
Il cav. Amedeo era già fuori.