La cieca di Sorrento/Parte prima/I
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I.
lo studente di medicina.
In quel laberinto d’infiniti viottoli, ronchi e stradelle non più larghe d‘un distender di braccia, dai cento barbari nomi, vestigia funeste di straniera gente, attraversando le quali si ha sempre una certa sospensione di animo, come quando si visita una carcere o un ospedale; in quell’ammasso di luride e nere case ammucchiate le une sulle altre, e così poco rallegrate dalla luce del sole; in quei quartieri, dove l’occhio e il pensiero dell’opulenza penetran di rado, e che pur raccolgono nelle umide loro pareti oneste famiglie di giornalieri di bassa mano; in quella rete insomma di popolati chiassuoli antichi, di cui compongonsi i quartieri del Mercato, del Pendino e del Mandracchio, e che con un solo e generico nome soglionsi addimandare la Vecchia Napoli, giace un vicoletto, o meglio un bugigattolo, uno di que’ mille che destano una specie di paura in petto dello stesso Napolitano che per la prima volta va a visitarli. Questo vicoletto storto, malaugurato e fetido porta il nome di Vico Chiavetta al Pendino: indarno, o lettore, ti sforzeresti di trovarlo in quell’almanacco ibero-gallo-latino di vice-regnale memoria, tranne che per qualche casualità in esso t’imbatti.
Da un’ora è passata la mezzanotte del 10 novembre 1840.
Soffia con violenza il vento di terra ne’ vecchi archi di quelle fabbriche da’ mezzi tempi, urlando come demone arrabbiato sull’addormentata città, e squassando le imposte secolari delle finestre.
Il silenzio di quella strada domina assoluto e solenne negl’intervalli che il vento mette nelle sue grida...
È l’ora in cui la generazione degl’infelici e de’ sofferenti trova nel sonno il balsamo delle sue piaghe.
Ma che cosa fa quell’uomo da costa a quel tavolo, su cui brucia il mozzicone d’una candela di sego colorata? Che cosa è gittato su quel tavolo? Cielo! una testa!.. una testa umana!.. ed il sangue è tuttavia rappreso sulla parte svelta dal tronco!... Ed un coltello... è nelle mani di colui!
Non vi spaventate... Quell’uomo non è mica un assassino... egli è semplicemente uno studente di medicina.
Allo smorto chiarore della candela rivelasi il suo volto bruno, magro, incavato e brutto. Egli ha il capo coverto da capelli rossi ma duri e ricci; il labbro superiore sporge in fuori carnuto, e tocca quasi la punta d’un naso grosso aquilino: direbbesi che gl’irsuti peli dei baffi non trovino luogo per ficcarsi tra quelle due prominenze, e li vedi però contorcersi in varie guise e quasi a forma d’istrice comporsi. I suoi occhi non poco inchinati allo strabismo, sono impertanto pregni di vivacità ed estremamente movibili sotto una fronte larga e spianata, in mezzo alla quale una ruga profonda apre un gran solco, come ferita, ovvero come la traccia d’una maledizione onde Iddio l’ha fulminata. Nel complesso della fisonomia di quest’essere umano leggesi a prima vista l’odio che ei concepir riebbe per ogni bellezza, e quell’irascibilità di carattere naturale nei deformi; ma, meglio studiando i suoi lineamenti, restasi colpito dalla espressione di profonda sagacità di cui sono improntati, e da quella solenne imponenza di cui rivestesi il volto di quegli uomini che fanno della scienza la consueta loro occupazione.
La meschina candela serve più a gittare sinistre ombre nella camera, anzichè a rischiararla; pochi libri in quarto sono ammucchiati in un angolo di muro; alquanti sono aperti sul tavolo, ed indicano che da poco il giovane ha cessato dall’attingervi il pasto intellettuale.
Le pareti della camera, lottanti tra il bianco e il nero, davanle piuttosto l’aspetto d’une prigione, tanto più che freddo e umido erane il suolo senza mattoni.
La miseria senza dubbio, con tutta la sua corte di privazioni, di stenti e di sofferenze, regnava in quella casa; quello squallore, quella povertà, quelle ricordanze della morte, quella notte così tetra e oscura, quelle voci lamentevoli che il vento facea passare attraverso le imposte, tutto parea che mettesse in bocca al padron di quella casa le bibliche parole: Da ogni parte l’anima mia è presa di tristezza, fino alla morte: restate qui, e vegliate con me.
Ed in fatti, pel girare che quel giovane facea talora le sue pupille quasi spaventate intorno intorno alla camera, sembrava che invocato avesse qualche compagno che fosse rimasto a vegliare con lui.
Quest’uomo, cui diresti all’apparenza già di matura età, ha solo di pochi anni varcato il quinto lustro; nomasi Gaetano, ed è calabrese.
Sono circa due ore che non si è mosso d’accanto a quel tavolo, con gli occhi immobilmente fissi in quel livido capo. Ma che cosa fa? Perchè di repente si è alzato a soprassalto ed ha gittato un logoro cencio su quella testa, dando uno sguardo verso un canticello della camera?
Ah! una donna, una vecchia riposa sovra un misero pagliereccio gittato a terra, ed involta in uno straccio di coperta di pessima lana. Nel sonno essa avea chiamato a nome Gaetano, e questi, credutala desto, si era subitamente rivolto verso di lei, non senza un moto di spavento, imperocchè due ragioni avea di nasconderle quel pezzo anatomico.
Quella donna era la madre del padre di lui.
La donna dormiva tuttavia, e Gaetano, il quale camminando sulla punta dei piedi erasi fatto ad esplorare se mai destata si fosse, tornato era al suo posto, e discoperto avea di bel nuovo quell’avanzo di ospedale! Egli ricade sulla sedia; appoggia la sua testa sulle due mani spiegate, e s’immerge novellamente nella cupa meditazione ispiratagli da quel tetro e mutilato compagno.
Certamente non sono pensieri di scienza, investigazioni anatomiche, o studi pratici, quelli che in questo momento concentrano l’attenzione del giovane calabrese; perciocchè, se le sue idee volgessero a ripassare sul pezzo anatomico le lezioni apparate il mattino nelle sale degl’Incurabili, egli dovrebbe andar di continuo sfibrando i plessi nervosi, o tagliando i viluppi muscolosi, o scovrendo i nascosti vasellini, o seguendo, sotto il sistema nervoso, le diramazioni arteriali ed i mille vasellini ond’è tappezzato in ispecial modo l’organo del pensiero. No, questa volta non è la scienza che assorbe i pensamenti di quel giovane, o almeno nel momento in cui il presentimo ai nostri lettori.
Perchè mai due grosse lagrime gli cadon fredde e pesanti dalle ciglia stanche di veglia?
Perchè mai i suoi capelli si rizzano sulla sua pallida fronte?
Perchè i suoi occhi fanno un giro convulsivo nelle loro orbite, e poscia ai chiudono, quasi per isfuggire ad un oggetto di orrore?
Orrende rimembranze si avvoltano in quel capo, e vi si aggruppano come densi nugoloni forieri d’imminente uragano.
Un’ora buona trascorre in quella muta e selvaggia contemplazione del teschio incarnato; ma il sonno si abbatte sulle palpebre di Gaetano; la natura reclama i suoi dritti; e fa d’uopo obbedirle.
Egli si leva, e pone il teschio in una cassa di latta, nella quale ordinariamente pone i pezzi anatomici che tragge seco dall’Ospedale e che riporta quivi fedelmente il domani, per essere trasportati al Camposanto, insieme agli altri cadaveri e membra disgiunte che ogni sera vengono raccolte nelle sale anatomiche.
La casa di Gaetano è composta di una stanza che ha in fondo un’alcova, ov’è riposto il suo letticciuolo. Trista, oscura, umida e malefica, questa abitazione, come tutte quelle di quei quartieri malsani, non riceve l’aria e il lume che da una finestra dai vetri quasi tutti rotti e crollanti, la quale riesce sovra la piazzetta Zecca dei Panni.
Prima di andare a letto, il giovane studente si avvicina alla finestra, e sprolunga uno sguardo sulla strada; una lanterna rischiara una canova, o piuttosto una caverna a volte lugubri e metiliche come tomba. Alla squallida e incerta luce della lanterna, due uomini usciti dalla cantina discorrono tra loro in modo sommesso e misterioso..... Dopo aver parlato per poco, uno di essi tragge dalla fodera del suo cappello un puntuto e largo coltello, che riflette cupamente la sua pallida lama sotto i raggi di quella morta luce, e, cacciatoselo nella manica d’una cacciatora di velluto che avea dì sotto al mantello, entrambi si perdono nelle ombre, come due lupi nelle macchie di selvaggia foresta.
— Come quelli! esclama tristamente Gaetano, seguendo con gli occhi finchè può i movimenti di quei due uomini... Forse le stesse tenebre investivano queste contrade!.. forse nella stessa canova fu ordito il delitto!.. forse la stessa giornata di oggi, 10 novembre!.. e forse la stessa morte!!... oh! maledetta nei secoli sia quella sera!... maledetta... mille volte maledetta, quella notte!... maledetto quel luogo in cui fu tramato e commesso il misfatto!... maledetto, mille volte maledetto chi prestò il consiglio o il braccio a Nunzio Pisani per compire l’opera infame!
Queste ultime parole, pronunziate con crescente e disperata energia, destarono a soprassalto la vecchia, che si pose a sedere in letto, esclamando:
— Dio! Dio mio! Che brutto sogno ho mai fatto!
Gaetano intanto, da lei inosservato, radeva il muro della stanza per recarsi al suo letto.