La Teseide/A Fiammetta

A Fiammetta

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A FIAMMETTA


GIOVANNI BOCCACCIO


DA CERTALDO






Comechè a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dove io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m’è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel Donna, la piacevole immagine della vostra intera bellezza; la quale, più possente che ’l mio proponimento, di sè e di Amore, giovane di anni e di senno, mi fece soggetto: e quella quante volte mi venne con intero animo contemplando, piuttosto celestiale che [p. 2 modifica]umana figura esser con meco dilibero. E che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo; perocchè ella con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando, non so con che ascosa soavità, l’afflitto cuore, gli fa quasi le sue continove amaritudini obliare, e in quello di sè medesimo genera un pensiero umilissimo, il quale mi dice: questa è quella Fiammetta, la luce de’ cui begli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de’ nostri ferventi disii. O quanto allora me a me togliendo di mente, parendomi essere ne’ primi tempi, li quali, io non immerito, ora conosco essere stati felici, sento consolazione. E certo se non fossono le pronte sollecitudini, delle quali la nimica fortuna m’ha circondato, che non una volta ma mille in ogni piccolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abbracciando morre’ mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere: il quale, ancorachè voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non mi abbandona. Nè possono nè potranno le cose avverse, nè il vostro turbato aspetto spegnere nell’animo quella fiamma, la quale, mediante la vostra bellezza, esso vi accese; anzi essa più fervente che mai con isperanza verdissima vi nutrica. Sono adunque del numero de’ suoi soggetti com’io solea. Vero è che dove bene avventurato già fui, ora [p. 3 modifica]infelicissimo mi ritrovo, siccome voi volete, di tanto solamente appagato, che torre non mi potete ch’io non mi tenga pur vostro, e ch’io non v’ami; postochè voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate: e tanto mi hanno, oltre a questo, le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince, e merita uomo guiderdone. La qual cosa non so se a me averrà; ma come che seguire me ne debbia, nè da sè mi vedrà diviso umiltade, nè fedele servire stanco giammai. E acciocchè l’opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne’ dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d’udire, e talvolta di leggere e una e altra storia, e massimamente le amorose, siccome quella che tutta ardeva nel fuoco nel quale io ardo (e questo forse faciavate, acciocchè i tediosi tempi con ozio non fossono cagione di pensieri più nocevoli); come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta del suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che piacciono, previene: trovata una antichissima storia, e al più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d’amore, e sì per coloro de’ quali dice che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e in rima acciocchè più dilettasse, e massimamente a voi, che già con sommo titolo le mie rime esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu dell’altre più gravi, desiderando di piacervi, ho ridotta. E ch’ella da me per voi sia compilata, due cose fra le altre il manifestano. L’una si è, che ciò [p. 4 modifica]che sotto il nome dell’uno de’ due amanti e della giovine amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me, e voi a me di voi (se non mentiste) potrete conoscere essere stato fatto, e detto in parte. Quale de’ due si sia non discopro, chè so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossono, il voler bene coprire ciò che non è onesto manifestare, da noi due infuori, e ’l volere la storia seguire, ne sono cagione: ed oltre a ciò dovete sapere che solo il bomero aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e quale fosse innanzi, e quale sia stata poi la vita mia, che più non mi voleste per vostro, discernere. L’altra si è il non aver cessata nè storia, nè favella, nè chiuso parlare in altra guisa; conciossiacosachè le donne siccome poco intelligenti ne sogliono essere schife: ma perocchè per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell’altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere; e acciocchè l’opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, desiderando di disporre con affezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l’avessono disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l’opera vi pongo la contenenza.

Dico adunque, che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani Arcita e Palemone, come innamorati di Emilia Amazzone per lei combattessono, posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare d’onde la donna fosse, e come ad Atene venisse, e chi fossero essi, e come quivi venissero similemente: [p. 5 modifica]laonde, siccome promesso v’ho, alla loro storia due se ne pongono; e primamente, dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ippolita reina delle Amazzoni, e la cagione di essa e la vittoria seguíta discrivo: procedendo oltre, come Teseo prese Ippolita per isposa, e con lei insieme Emilia sua sorella trionfando ne menò ad Atene: quivi, acciocchè onde e come i due amanti venissono sia aperto, un’altra battaglia e la felice vittoria della quale seguíta, fatta da Teseo co’ Tebani, premessa la cagione, si disegna; e come appare, i due giovani presi in quella, parte del trionfo di Teseo, vennono in Atene, dove e come da lui imprigionati furono, e come e in quel tempo di Emilia s’innamorassono, procedendo si legge. Pervenendo poi da questo alla liberazione fatta di Arcita, a’ preghi di Peritóo, e al pellegrinaggio suo ad Egina, e alla sua vita, e alla tornata di esso sconosciuto ad Atene, e al suo dimorare con Teseo. Quindi scrivendo quale Palemone rimanesse, e come a lui la tornata di Arcita sotto cambiato nome si discoprisse, e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare egli uscisse della prigione, e la battaglia per lui fatta nel bosco; mostrando appresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo riconosciuti fossero, manifestandosi essi medesimi; e quello che Teseo con loro componesse, e la loro tornata in Atene: dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l’avvenimento di molti principi a una futura battaglia, e i sacrificii fatti da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia, e chi vincesse; e dopo [p. 6 modifica]a tutte queste cose l’infortunio di Arcita, e il suo trionfo, la liberazione di Palemone, le sponsalizie di Emilia, e la morte di Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l’onore publico fattogli da Teseo e dagli altri greci principi a seppellirlo, ed il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furono poste; e ultimamente come Emilia fosse conceduta a Palemone, e le sue nozze, e de’ principi la partita finendo si trova.

Le quali cose se tutte insieme, e ciascuna per sè, o nobilissima Donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere; e quindi la mia affezione discernendo, il preso orgoglio lasciare, e lasciato potrete la mia miseria in desiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossono le dette cose, e vincesse la vostra alterezza la mia umiltà, in questo una cosa sola per supremo dono addomando, che dando ad essa luogo, il presente piccolo libretto, poco presente alla vostra grandezza, ma grande alla piccolezza mia, tegnate. Questo, se ’l fate, alcuna volta ne’ miei affanni sarà di refrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani, nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più preghi, se quella grazia, la quale io ebbi già in voi, non se ne fosse andata. Ma perocchè io del niego dubito con ragione, non volendo che a quell’uno che di sopra ho fatto, e che spero, siccome giusto, di ottenere, gli altri nocessero, e senza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio; ultimamente pregando colui che mi vi diede, allorachè io [p. 7 modifica]primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m’ha tolta.