La Scimitarra di Budda/40. La battaglia

40. La battaglia

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39. La Scimitarra di Budda Conclusione

40.

LA BATTAGLIA


Quantunque la pioggia scrosciasse, i campanelli e le catene del gran «T» dorato suonassero e stridessero, il vento ruggisse, la folgore tuonasse, gli avventurieri, dall'alto della piramide, avevano udito il cupo rimbombo del pezzo d'artiglieria ed avevano scorto la fiamma balenare sui bastioni della città. Cosa era avvenuto perché si sparasse il cannone ad un'ora così tarda? Annunziava qualche straordinario avvenimento, o chiamava alle armi la popolazione? Un peguano li aveva spiati, o un raham era corso a Pegù a dare l'allarme? Cosa mai si preparava nelle ombre della notte? Questi erano i pensieri che si affollavano nella mente di quei quattro uomini.

– Scendiamo – disse il Capitano, che stringeva nella destra la Scimitarra.

In un baleno scesero la gradinata, saltarono sulle sporgenze, quindi sulle piatteforme e da ultimo a terra, dirigendosi di gran corsa verso le campane. A mezza strada s'incontrarono coi malesi che accorrevano in loro aiuto.

– Il cannone ha tuonato! – esclamò il capitano della banda, agitando come un forsennato la sua pesante sciabola.

– Siamo scoperti, ne sono sicuro – disse Giorgio.

– I miei uomini sono pronti a combattere.

Un secondo colpo di cannone tuonò sui bastioni della città.

– Gettiamoci sulla città! – esclamò l'americano che cominciava a inebriarsi.

– Saccheggiamola – appoggiò il malese.

– La Scimitarra di Budda è mia! – gridò Giorgio. – In ritirata!

La notte era sempre tempestosa. Le folgori solcavano a due, a tre, a cinque, la massa delle nubi, descrivendo zigzag spaventevoli, ora precipitandosi sulle sommità dei più alti alberi, ora sulle vette dei monti e ora girando attorno allo Scioè-Madù. Il vento soffiava con indicibile violenza mescendo i suoi ruggiti agli interminabili scrosci del tuono, piegando e torcendo le piante, spezzando i bambù, strappando i gambi di riso, involando le tegole dei monasteri, scuotendo i campanelli e le catene delle pagode. Era una vera notte d'inferno.

I trentotto uomini, senza scambiare una parola, con gli orecchi ben tesi e gli occhi ben aperti, continuavano a ritirarsi attraversando boschi e piantagioni. Giorgio li guidava, ma ciò non gli impediva di gettare di quando in quando un lungo sguardo alla famosa arma del dio asiatico che stringeva con tanta forza da sfidare una tenaglia.

Quell'arma che tante fatiche, tanti sacrifici, tanti pericoli era costata agli intrepidi avventurieri era davvero magnifica. Nella forma era una scimitarra pressoché eguale a quella dei tartari, ma quale finezza, quale metallo e quale impugnatura! Era di un acciaio purissimo, sottilissimo, che lasciava scorgere le venature come i celebri kriss del Borneo; su di una faccia vedevasi inciso in sanscrito il nome di Budda; sull'altra, in carattere cinese, quello dell'imperatore Khieng-Lung. L'impugnatura era di oro massiccio, scolpita, cesellata, le cui figure richiamavano alla mente le numerose incarnazioni di Visnù, una delle più grandi divinità dell'India. All'estremità, poi, vedevasi un diamante della più bell'acqua, più grosso d'una noce e che il Capitano stimò valere non meno di duecentocinquantamila lire.

Il drappello marciava da venti minuti, quando trovossi dinanzi ad una specie di collina isolata, cinta tutt'intorno da rocce. Sembrava un antico vulcano con un gran cratere nel mezzo.

– Alt! – disse il Capitano.

Come se quel comando fosse stato inteso dai peguani, un terzo colpo di cannone rimbombò in direzione della città. Un sordo fremito percorse le file dei malesi.

– Il nemico! – esclamò il capitano malese.

Il vento portava ai loro orecchi il fragoroso rullare di un gong.

– Cosa facciamo? – chiese il malese, che aveva una pazza voglia di menar le mani.

– Saliamo lassù, – disse Giorgio – poi vedremo.

Si slanciarono su pei ripidi fianchi della collina e, malgrado la pioggia che cadeva, i torrenti che scendevano spumeggiando di roccia in roccia, i sassi che rimbalzavano di piattaforma in piattaforma, giunsero sulla cima. I due capitani, dato uno sguardo a quel luogo che enormi rupi difendevano tutto all'intorno, si spinsero fino sull'orlo del versante opposto, che era tagliato quasi a picco.

– Vedi nulla? – chiese Giorgio, dopo aver osservato attentamente la sottostante pianura coperta di fitti canneti.

– Nulla – rispose il malese.

– E odi nulla?

– Sì, il gong che continua a strepitare.

– Scenderesti tu?

– Sì, e subito.

I due capitani raggiunsero la banda che si era riparata sotto una roccia e che stava cambiando le cariche alle carabine e alle pistole.

– Partiamo – disse Giorgio. – Il fiume è a mezzo miglio da noi.

La truppa attraversò quella specie di campo trincerato e guadagnò la china opposta. Quasi nel medesimo momento un fischio acuto s'alzò fra i canneti della oscurissima pianura.

– Avete udito? – chiese il capitano malese.

– Sì – disse Giorgio. – Uomo o serpente?

– Non conosco rettili capaci di emettere un fischio così potente.

– Vedi nulla fra i canneti?

Il malese sporse innanzi la testa, dilatò gli occhi, tese gli orecchi e ascoltò attentamente.

– Non odo nulla e non vedo nulla – disse.

– C'è qualche cosa laggiù – esclamò l'americano. – Ho visto un luccichio.

I trentotto uomini rimasero immobili sull'orlo della china, spiando ciò che accadeva nella pianura. Dopo il fischio, più nulla erasi udito all'infuori del tuono e dei gemiti del vento.

– Avanti! – disse Giorgio dopo alcuni minuti, con tono risoluto.

– Alt! – comandò invece il malese.

Un razzo erasi alzato sopra una folta macchia e descriveva nell'aria una grande curva. Scoppiò sulle teste dei malesi, spargendo all'intorno variopinte scintille.

– In ritirata! – comandò Giorgio. – I peguani sono imboscati laggiù.

Il drappello rifece prontamente la via percorsa e scese il versante opposto, ma tosto si arrestò. Un secondo razzo saliva lentamente verso il cielo. Anche là, dunque, c'erano nemici imboscati.

– Siamo bloccati! – esclamò il capitano malese. – Oracan! La matassa s'imbroglia e io comincio ad aver sete di sangue.

Non c'era da ingannarsi. I peguani, approfittando dell'oscurità, li avevano seguiti senza far rumore e li avevano circondati, risoluti, senza dubbio, a punire i profanatori della sacra piramide e a riconquistare la Scimitarra di Budda.

– Che facciamo? – chiese il polacco.

– Si dà battaglia – disse Giorgio.

Oracan! – esclamò il malese. – Parlate bene, Capitano. Alle armi! Maometto è con noi!

La difesa fu subito organizzata. Come si disse, la cima della collina era difesa al nord e al sud da rocce perfettamente lisce, impossibili a scalarsi, e all'est da una ripida discesa, difficile a superarsi sotto il fuoco di una mezza dozzina di carabine. Non era accessibile che verso l'ovest, ma quivi la salita si restringeva formando una specie di gola lunga e stretta fiancheggiata da immense rupi sventrate, traforate in mille guise. I malesi e i bianchi si radunarono presso quella gola, dopo aver preparato una mina di trenta chilogrammi di polvere in una piccola grotta. Solo otto uomini furono incaricati della difesa della salita orientale.

– Coraggio, amici – disse il Capitano. – Calma, e fuoco a colpo sicuro.

La tempesta a poco a poco si calmava. Le masse di vapori si erano squarciate e lasciavano trapelare qualche raggio di luna. Solamente al nord, verso i monti, ancora lampeggiava e rumoreggiava il tuono. I combattenti si erano appostati da soli dieci minuti, quando s'udì il gong strepitare nella sottostante pianura.

Al chiarore dell'ultimo lampo fu scoperto l'esercito peguano armato di fucili, di scimitarre, di lance, di scuri, di coltellacci, muovere all'assalto, seguito da un'orda di raham, di phonghi e di talapoini. Malesi e bianchi s'accomodarono fra le rupi e armarono di furia le carabine. Era tempo!

Un drappello di cento e più uomini, superata la costa, si presentò all'entrata della gola, pronto a slanciarsi all'assalto.

– Attenzione! – s'udì gridare il capitano Giorgio.

I gong battevano la carica. Un lampo, due, venti, cento, duecento, balenarono nella pianura, estendendosi a dritta e a sinistra. Erano i peguani che facevano un fuoco infernale tentando di sloggiare i profanatori dello Scioè-Madù. S'udiva il piombo fischiare per ogni dove, rimbalzare sulle rupi basaltiche e cadere tutto all'intorno assieme a crostoni di roccia. Un fumo biancastro e denso s'alzò fra i canneti.

– Fuoco! – comandò Giorgio.

La collina, tutta d'un colpo, avvampò come un cratere in attività. Dietro ogni rupe, da ogni crepaccio, da ogni fessura, uscivano lampi seguiti da detonazioni.

L'effetto di quella scarica fu disastroso pei peguani che salivano senza alcuna precauzione. S'udirono urla strazianti, imprecazioni, gemiti, poi si vide un fuggi fuggi generale. Parecchi uomini, colpiti a morte, capitombolarono fra le rocce e rotolarono giù pel pendio. Un profondo silenzio era succeduto alle detonazioni dei fucili, alle urla dei combattenti e ai gemiti dei feriti. La gran pianura era tornata silenziosa e oscurissima; però, fra i canneti, si vedevano luccicare ancora le armi. Cinque minuti erano trascorsi, quando tornò a farsi udire il fragoroso rullare dei gong, seguito dall'acuto suono di parecchi pullanays (flauti).

– Tutti alla gola! – urlò l'americano, che erasi avanzato fino alle prime rocce.

Un corpo di tre o quattrocento peguani erasi formato ai piedi della collina e saliva agitando freneticamente le armi.

I gong batterono per la seconda volta la carica e tutti quegli uomini si slanciarono coraggiosamente all'assalto, colle sciabole fra i denti e gli archibugi in mano. I malesi, che si erano tutti aggruppati dinanzi alla gola riparandosi dietro a enormi rocce, puntarono i fucili e fecero piovere sul nemico una grandine di palle. Alcuni uomini caddero sui pendii della collina, ma gli altri continuarono a salire vociferando spaventosamente, fanatizzati dai raham che marciavano alla testa, sfidando intrepidamente la morte. La moschetteria divenne ben presto furiosa. I malesi caricavano e scaricavano incessantemente, mescendo le loro urla feroci alla possente voce dell'uragano. Malgrado ciò, i peguani salivano, sempre, risoluti a morire tutti piuttosto che retrocedere. In capo a pochi minuti giungevano a poche centinaia di passi dalla gola, dove si arrestarono un istante per scaricare le loro armi. Un malese, colpito in fronte, cadde fulminato; un secondo, che si teneva a cavalcioni di un'alta rupe, colpito nel petto cadde giù, fracassandosi le costole; due altri vacillarono e stramazzarono ai fianchi di Giorgio.

– Stiamo per essere sopraffatti – gridò James. – Bisogna dar fuoco alla mina.

– Fatela accendere – rispose il Capitano scaricando la sua carabina.

– Vado io!

L'americano, malgrado il vivissimo fuoco dei peguani, saltò sopra le rocce, si gettò a terra e si mise a strisciare verso la piccola grotta che trovavasi a mezza gola. Giorgio, alla testa di una dozzina di malesi, mosse arditamente verso i peguani sparando fucilate e pistolettate, onde ritardare di qualche minuto la loro marcia.

Ad un tratto si udì, fra il tuonare delle carabine e degli archibugi, la voce dell'americano che gridava:

– Si salvi chi può! La mina scoppia!

I malesi retrocessero di corsa seguiti dall'americano e si rifugiarono sull'opposto versante della collina. In quell'istesso momento i peguani si slanciarono nella gola gettando urla di trionfo. Passò mezzo minuto, lungo quanto un secolo per gli avventurieri. D'improvviso una colonna di fuoco si slanciò attraverso le tenebre e la terra fremette per mezzo miglio all'ingiro. Una orrenda detonazione vi tenne dietro, seguita da urla di terrore. Le rupi, staccatesi, vacillarono e crollarono entro la gola, seppellendo non pochi peguani, mentre dall'alto grandinavano pezzi di macigni d'ogni dimensione.

Giorgio si slanciò in cima a una roccia e guardò. I peguani, atterriti, fuggivano disperatamente giù per la collina.

– Avanti! – comandò.

Un istante dopo, i malesi e gli avventurieri, superate le rovine, scendevano di corsa la collina. Ai piedi di essa s'incontrarono col secondo corpo peguano che accorreva in aiuto dei compagni. L'urto fu sanguinosissimo. I malesi, ebbri di sangue e di polvere, urtarono furiosamente i peguani. Il Capitano, circondato dai suoi amici, era alla loro testa e segnava la via. La mischia fu breve. I peguani, già demoralizzati dalle prime sconfitte e mal guidati, dopo un tentativo per sbarrare la via, volsero le spalle lasciando parecchi dei loro sul campo di battaglia. Il Capitano, visto il passo libero, si slanciò innanzi gridando:

– Tutti dietro di me! In ritirata!

Il coraggioso drappello, assai assottigliato, attraversò la pianura di corsa, dirigendosi verso il fiume. Era tempo! Una nuova onda di peguani sbucava dai boschi circostanti, correndo verso il luogo della pugna. Una gara di velocità s'impegnò fra i vinti e i vincitori. I malesi, gettate le munizioni per essere più liberi, correvano come lepri, sempre preceduti dai quattro avventurieri che avevano le ali ai piedi. I peguani li inseguivano. Avevano percorso più di mezzo miglio e cominciavano a perdere il respiro, quando apparve il fiume sulle cui acque ondeggiava il praho colle vele sciolte. La prua del legno s'infiammò e un nembo di mitraglia solcò l'aria. I peguani, sfiniti per la lunga corsa, scoraggiati, spaventati, volsero le spalle fuggendo verso la città. Un secondo sparo affrettò i loro passi. I quattro avventurieri e i malesi erano giunti sulla riva. Le imbarcazioni furono lanciate in acqua e li trasportarono a bordo.

Pochi minuti dopo il praho, a vele spiegate, scendeva la rapida corrente del Bagò-Kiup, dirigendosi verso l'alto mare.