La Scimitarra di Budda/23. Le pazzie di due fumatori d'oppio
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23.
LE PAZZIE DI DUE FUMATORI D'OPPIO
A mezzodì dell'indomani, dopo che il Capitano e il cinese erano usciti in cerca di notizie, l'americano e il polacco, camuffati da ricchi borghesi e armati dei loro bowie-knife, lasciavano l'albergo coll'idea di intraprendere qualche cosa di grande. I due valentuomini volevano, prima di sera, avere la Scimitarra di Budda in loro mano!
Appena in strada, malgrado i prudenti consigli del Capitano e del cinese, accesero le pipe, rialzarono i baffi, si tirarono il cappello sull'orecchio e cominciarono a farsi largo, l'americano distribuendo calci e scappellotti e il polacco cacciando le dita negli occhi a quei cinesi che si ribellavano a quel brusco trattamento.
Così, ora atterrando qualche contadino, ora tirando la coda a qualche borghese, ora mandando a gambe levate qualche facchino, ora accecando qualche barcaiolo, giunsero sul quai.
– Dove andiamo, sir James? – chiese il polacco, schiacciando il cappello ad un povero diavolo che lo aveva urtato.
– In una taverna a bere, ragazzo mio – disse l'americano. – Bisogna ubriacare una mezza dozzina di questi cialtroni, se si vuol sapere qualche cosa.
– Ma parleranno? Mi sembra che nessuno abbia voglia di chiacchierare sulla Scimitarra di Budda.
– Vedrai, ragazzo, che noi li faremo cantare più forte dei galli.
– Avete comperato qualche bevanda miracolosa?
– Non ce n'è bisogno, mio caro. Se troviamo un uomo che sa qualche cosa e che non vuol discorrere, lo rapiremo e poi lo arrostiremo a lento fuoco. Con simile trattamento tutte le lingue si sciolgono.
– Mille bombe! I vostri mezzi non sono dissimili da quelli delle pellirosse.
– Se non facciamo così, non si riuscirà a nulla. Orsù, cerchiamo una taverna.
– Eccone là una che fa per noi. A dire il vero mi sembra un po' oscura e...
– Meglio, ragazzo – l'interruppe l'americano. – Potremo torcere qualche collo e strappare qualche coda senza essere visti.
I due valentuomini entrarono nella taverna che, a giudicarla dall'aspetto, doveva essere la peggiore della città. Era vastissima, assai bassa, a mala pena illuminata da otto o dieci lanterne di talco, ingombra di tavoli di bambù zoppicanti e inzuppati di liquori e di grasso, attorno ai quali dimenavansi e urlavano facchini, barcaioli, ladri, banditi, borsaioli e soldati, ingoiando enormi tazze di forti bevande. Tutt'all'intorno si vedevano tazze infrante, lanterne sfondate, pipe rotte, sgabelli fracassati, montagne di ossami, ubriachi stesi sotto i tavoli e tralicci di bambù sui quali russavano fragorosamente e si agitavano convulsamente schiere di fumatori d'oppio.
L'americano e il polacco, soffocati dal fumo delle pipe e dalle esalazioni dei liquori, assordati dalle urla, dai canti, dal baccano di tutti quei bevitori, in orgia forse da due o tre settimane, si misero a girare cercando un posticino per sedersi.
– Diamine! – esclamò l'americano. – Ma questo è un inferno! Guardati dagli ubriachi, Casimiro, ed evita di calpestare qualche addormentato, se non vuoi buscarti una coltellata. Qui siamo fra i briganti.
– Vi confesso, sir James, che nelle taverne di Canton non ho mai visto una simile scena. Guardate là quanti fumatori d'oppio!
– E quei mangiatori d'oppio appoggiati ai muri, colla testa fra le ginocchia e che sembrano moribondi?
– Ma si mangia l'oppio?
– Il Capitano mi disse che nell'Asia centrale molti e molti sono i mangiatori d'oppio, e chi vi si abitua difficilmente abbandona tale vizio. Il disgraziato continua finché il veleno lo uccide.
Il polacco si avvicinò a quegli uomini che parevano mongoli, stretti gli uni vicini agli altri, tremanti, che respiravano con grande fatica. I loro occhi avevano perduto il solito splendore, le labbra pendevano inerti mostrando i denti convulsamente stretti, la faccia era pallida, disfatta. Di tratto in tratto un forte tremito scuoteva le membra di quei miserabili, seguito da sussulti nervosi alla faccia e da un rauco suono che irrompeva dalle cavità del petto. Casimiro s'arretrò inorridito.
– Mettono ribrezzo – disse.
– Sono veramente schifosi – disse l'americano.
Compirono il giro della taverna, arrestandosi dinanzi ai tavolini da giuoco, dove facchini, barcaioli e ladri perdevano i loro danari, la loro capanna e le stesse loro vesti, ed entrarono in una seconda stanza assai più piccola.
Si sedettero ad un tavolino zoppicante di fronte a un cinese, il quale, sdraiato su di una sedia di bambù, pallido come un cadavere, cogli sguardi spenti, in preda ad una apparente calma, ad una specie di sonnambulismo, fumava una pipa carica d'oppio.
– Con quel fumatore lì non c'è da far bene – disse l'americano.
– Abbiamo là dei giuocatori, sir James – disse il polacco. – Offriremo da bere, e quando saranno ubriachi li faremo parlare.
– Hai ragione, ragazzo. Ehi, taverniere del malanno! Ohe! Cinese, ragazzo, padrone, porta del whisky!
Alle strepitose chiamate dell'americano, un garzone accorse.
– Hai un barile di whisky? – chiese l'americano, mostrandogli una manata d'oro.
– Whisky? – esclamò il cinese, facendo una smorfia. – Che roba è questa?
– Che asino! Avrai almeno del gin, del brandy, del rhum o del... che so io, dei liquori infine.
– Non so che liquori siano. Se volete sam-sciù di eccellente qualità...
– Porta il tuo sam-sciù, ma tanto da ubriacare dieci uomini.
Il garzone, visto che i due bevitori avevano molto oro, portò un pentolone della capacità di quindici litri.
– Mille lampi! – esclamò il polacco, impressionato da tanta abbondanza. – Volete bere tutta questa roba, sir James?
– La berremo, ragazzo – rispose l'americano. – Animo! Si tracanni e senza risparmio.
Tuffarono le tazzine nell'enorme pentola e si misero a bere l'infernale liquore, come se bevessero della semplice birra.
In capo a mezz'ora il contenuto del pentolone era scemato di un buon terzo e i due beoni si dondolavano precipitosamente sulle malferme sedie. L'americano, che vedeva doppio, offrì da bere ad alcuni cinesi che stavano seduti ad un tavolo vicino, colla speranza di ubriacarli e di farli parlare. Venti volte, dopo aver parlato di politica, di storia e di geografia a modo suo, tirò in campo la Scimitarra di Budda, ma con nessun successo. Tutti quegli uomini ignoravano che cosa fosse quell'arma.
– Auff! – esclamò l'americano, che non aveva più voce e che sudava come se uscisse da un forno. – Qui non si fa bene. Quei galantuomini bevono, ma non vogliono parlare. Di' un po', Casimiro, hai la testa un po' squilibrata tu?
– Un pochino, sir James.
– Anch'io, ragazzo mio. Che abbiano mescolato qualche narcotico nel sam-sciù?
– No, deve essere il fumo dell'oppio.
– Proviamo a muoverci.
– E dove andiamo?
– A giuocare una manata di tael a quel tavolo. Non ti sembra che là si giuochi?
– Sì, sì, giuochiamo, sir James. Guadagneremo, ne ho la certezza.
I due amiconi, non troppo saldi in gambe, si avvicinarono al tavolo dove un barcaiolo e un facchino erano occupati a spogliarsi di quel poco che possedevano. Attorno ad essi stavano sette od otto brutti figuri, senza dubbio i compari.
– Oh! Oh! – esclamò James, vedendo il barcaiolo levarsi la giacca e gettarla sul tavolo. – Quel povero diavolo ha perduto il suo ultimo sapeke e ora giuoca le sue vesti.
– E poi giuocherà la sua barca, se ne ha una, poi la sua casa – disse Casimiro. – La partita sarà interessante. Stiamo un po' a vedere.
Il barcaiolo, dopo aver un po' esitato, agitò due dadi, poi li agitò il facchino.
– Partita perduta – disse James.
Il barcaiolo lo guardò di traverso, poi gettò sul tavolo le sue scarpe, ma perdette ancora.
L'americano, che si divertiva immensamente, stava per gettare una manata di sapeke a quello sfortunato, quando questi trasse il suo coltello piantandolo sul tavolo.
I compari si scambiarono alcune parole sottovoce, poi il facchino rotolò i dadi. Il barcaiolo pure li rotolò. Subito un urlo selvaggio gli uscì dalle labbra; aveva ancora perduto.
D'improvviso afferrò il coltello, e con terribile sangue freddo si fece saltare il dito mignolo della mano destra, che aveva giuocato contro un tael!1
Non aveva ancora deposto il coltello, che un vigoroso pugno lo mandava a gambe levate.
– Miserabile! – tuonò l'americano, che non era stato capace di frenarsi.
– Ehi! – gridò uno dei giuocatori, avvicinandosi a lui. – Che vuoi tu?
L'americano, invece di rispondere, snudò il bowie-knife. I giuocatori, spaventati, infilarono precipitosamente la porta seguiti dal mutilato.
– Che bricconi! – esclamò lo yankee. – Mi spiace di non aver rotto la testa a tutti quei ladri.
– Io ho visto un cinese tagliarsi tutte le cinque dita, sir James – disse il polacco. – I cinesi sono giuocatori più sfrenati dei messicani e dei peruviani.
– Hai ragione, Casimiro. Orsù, beviamo che ho sete.
Tornarono al loro vaso che era già mezzo vuoto e ricominciarono a bere con tanta furia, da ubriacarsi completamente.
L'americano, che non sapeva più ciò che si facesse, dopo di aver spezzato più di venti volte la sua tazza, di aver fatto portare nuovo liquore, di aver dato da bere a parecchi ubriaconi, di aver ammaccato qualche occhio e rotta qualche testa, di aver cantato su tutti i toni in inglese, in cinese, in italiano, in francese, arrestò uno dei garzoni gridandogli:
– Ehi, furfante, portami una pipa! Oggi è giorno di baldoria e io voglio fumare l'oppio.
– Che fate? – domandò il polacco, che conservava ancora un barlume di lucidità. – Vi ubriacherete, sir James.
– Chi si ubriaca? – tuonò l'americano. – Mille pipe d'oppio non ubriacano due uomini della nostra fatta. Ehi, garzone, due pipe!
– Il Capitano ci ha proibito di fumare.
– Fumeremo poco, due o tre boccate, tanto da salire nel paradiso di Budda, rischiarato dalle centomila lanterne. Dell'oppio, dell'oppio!
Il garzone fu pronto ad accorrere portando due pipe di conchiglia colla cannuccia di bambù e due pallottoline d'oppio, grosse come un cece, passate in uno spillo. I due ubriaconi, dimenticati i compagni che forse li aspettavano chissà con quale impazienza, si sdraiarono sui graticci di bambù e accesero la pallottolina.
Le prime impressioni che provarono nell'aspirare il fumo del velenoso narcotico, furono una calma inesprimibile, un senso di benessere, un alleviamento di testa, una leggerezza tale da far loro credere di galleggiare nell'aria; poi una ilarità insolita ed una maggior alacrità ed energia dei sensi. Rapiti da queste sensazioni, continuarono a fumare fino a che le loro palpebre divennero pesanti.
La loro faccia non tardò a impallidire, gli occhi a contornarsi di un cerchio azzurrognolo, le loro mosse a diventare convulse, i battiti dei polsi si accelerarono sensibilmente, le labbra fremettero, le loro forze mancarono. In preda ad una specie di sonnambulismo, lasciarono sfuggire, senza accorgersene, le pipe, si sdraiarono sui tralicci e sprofondarono nel mondo dei sogni.
Visioni le une più spaventevoli e più strane delle altre, passavano e ripassavano dinanzi ai loro occhi, impressionando vivamente la loro fantasia, logorando le loro forze e la loro sensibilità.
Ora erano mostri di dimensioni gigantesche, coperti di armi e di fiori e imbrattati di sangue e di latte, che venivano innanzi danzando disordinatamente; ora nani deformi, colle membra tronche, gli occhi schizzanti fuoco, che facevano capolino fra colossali pentole di sam-sciù e bottiglie di whisky; ora divinità cinesi dei templi di Fo che si contorcevano in mille guise; ora neri individui, coperti di lunghi peli e di lunghe code che divoravano dei bambini, e ora processioni di dannati coi petti aperti, le membra fracassate, le teste schiacciate.
A poco a poco, a quelle visioni terribili tennero dietro visioni di banchetti, di feste liete, dove fate bizzarre dalle vesti cinesi protendevano le braccia, come ad invitarli ad una festa. E si sentivano trascinati in un ballo turbinoso, pazzo.
L'americano finì i suoi sogni precipitando dentro un mare di whisky e il polacco dentro una tazza di thè fiorito bollente!
Erano le sette della sera, quando James si svegliò, sorpreso di non essersi annegato nel mare di whisky. Era debolissimo e ancora mezzo ubriaco. Scosse il polacco che russava fragorosamente e lo svegliò.
– Andiamocene, ragazzo – borbottò. – Un'ultima tazza... di sam-sciù e usciamo... da questo inferno. Non mi raccapezzo più... più.
Gettarono sul tavolo alcuni tael, tracannarono un'altra tazza di liquore, si presero a braccetto e uscirono, l'uno cantando in inglese lo yankee-dodle e l'altro in slavo l'inno sacro di Dombrowsky con un accordo da far scappare la gente.
Per un certo tratto di via andarono innanzi urtando la gente, dispensando a destra e a sinistra pugni e scappellotti, poi si arrestarono sul quai, presso un gruppo di persone, stretto attorno ad un tao-sse, specie di indovino, che faceva levare ad un uccellino dei pezzettini di carta scritta.
– Ragazzo, – disse l'americano – se interrogassimo quell'uomo per... per sapere ove si cela la Scimitarra? Che magnifica idea!
– Ben pensata, sir James. Urrah per... per la Scimitarra di Budda!
Reggendosi l'un l'altro, si fecero largo avvicinandosi al tavolo.
L'americano con un pugno schiacciò il povero uccellino e, mettendosi sotto il naso dell'indovino, si mise a gridare:
– Mio bell'uomo... io ti regalo... capisci, ti regalo dell'oro, ma bada... muso giallo... bada che se mi inganni... ti metto allo spiedo o ti schiaccio... come ho schiacciato il tuo uccello.
Gettò sul tavolo un tael, che l'indovino, malgrado il suo spavento, si affrettò a raccogliere, e continuò traballando a destra e a sinistra:
– Dimmi, mio bell'uomo dal muso storto... dimmi se tu sai dove... dove tutte queste canaglie hanno nascosto la Scimitarra di... di Budda? Tu lo sai di sicuro, tu, tu, ma... Cosa succede che la terra non sta ferma?
– Tu sei ubriaco – disse l'indovino.
– Io ubriaco! – gridò lo yankee, fracassando il tavolo con un solo pugno. – Io ubriaco! Guardami, brutta faccia!
Lo yankee si levò il cappello, mostrando la sua testa coperta di capelli e gettò via gli occhiali affumicati, mostrando i suoi occhi tutt'altro che obliqui. L'indovino e le persone che erano vicine gettarono un grido di stupore.
– Tu non sei cinese! – esclamò il tao-sse, dando indietro.
L'americano si mise a ridere sgangheratamente. Il polacco, che era meno ubriaco, lo prese per una mano tentando di trascinarlo via, ma senza riuscirvi.
– Cosa importa a te se non sono cinese? – gridò James. – Io sono James... James Korsan, libero cittadino americano... e tu... tu sei un birbante. Ah! Ah! che brutta faccia hai!... Ah!... Ah!... Ah!...
– Dalli all'americano! Dalli, dalli! – si mise a gridare l'indovino.
James, quantunque ebbro, capì che correva un gran pericolo. Il suo pugno cadde furiosamente sul naso dell'individuo che si schiacciò gettando sangue. Un grido di rabbia rimbombò fra la folla.
– A morte gli stranieri! Accoppa quei cani!
L'americano e il polacco, un po' spaventati per la brutta piega che prendevano le cose, cercarono di battersela prima che tutta la popolazione accorresse ad accerchiarli, ma quaranta o cinquanta braccia li arrestarono.
– Largo, ragazzi! – gridò James. – Io sono... sono un cinese come voi. Che diavolo!... State buoni, ragazzi.
La sua voce fu soffocata dalle urla della folla furiosa.
– Al fiume gli stranieri! Alla cangue i ladri! Accoppa! Ammazza! Dalli, dalli! – si gridava dappertutto.
James cercò di respingere i più vicini, ma ricevette in cambio sei o sette pugni.
Il polacco con quattro calci si fece largo.
I facchini e i barcaioli, eccitati dalle urla strazianti del tao-sse che perdeva sangue a catinelle dal naso schiacciato, si fecero animosamente innanzi alzando i pugni.
Il polacco e l'americano, armati delle gambe della tavola, caricarono la folla menando botte da orbi, fracassando cappelli, rompendo teste, pestando costole.
Bastarono cinque minuti per fugare tutti quei cinesi.
– Battiamocela – disse il polacco.
– Giù botte! – urlò l'americano. – Ci impadroniremo della città.
– E il Capitano?
– Al diavolo il Capitano!
– Ma verranno i soldati e faranno fuoco su di noi. Battiamocela subito, sir James.
In fondo alla via apparve una pattuglia di soldati. L'americano, vedendo i fucili, se la diede a gambe, seguito dal suo degno compagno.
Cinque minuti dopo, ansanti, stringendo ancora le loro mazze, entravano nell'albergo.
Note
- ↑ Simili atrocità sono comuni fra i giuocatori cinesi.