La Montagna di luce/11. Il mangiatore d'uomini

11. Il mangiatore d'uomini

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11.

IL MANGIATORE D'UOMINI


Quattro ore dopo, un po' prima del tramonto, mentre la folla si rovesciava nuovamente nella piazza dove le bajadere intrecciavano le loro danze e gl'incantatori di serpenti radunavano i loro rettili per distribuire loro i recipienti di latte regalati dal rajah, Toby ed i suoi compagni lasciavano il bungalow per recarsi ad esplorare il terreno battuto dal mangiatore d'uomini.

Volevano cercare un posto adatto per preparare l'imboscata e anche vedere le trappole preparate da alcuni coraggiosi indiani che poi non avevano più visitate per paura di venire divorati dalla terribile fiera.

Il rajah aveva messo a loro disposizione una splendida ruth, carro monumentale, veramente originario dell'India, interamente coperto, con portiere riparate da grate di bambù sottilissime e tirato da quattro buoi grossissimi e bianchissimi che avevano le corna dorate, anelli pure d'oro al naso, e gli zoccoli e la coda dipinti in rosso.

Sono vetture riservate ai ricchi ed ai grandi dignitari, quantunque siano così incomode da renderlo insopportabili agli europei.

Quattro sikkari, ossia battitori dei boschi, già abituati alle cacce di quei pericolosi felini e che conoscevano a menadito i dintorni delle miniere, dovevano scortarli ed aiutarli nella pericolosa impresa.

– Probabilmente, con tutto questo baccano, la bâg non avrà lasciato il suo nascondiglio – disse Toby, mentre il carro cigolando e trabbalzando si dirigeva verso i sobborghi della città. – Tuttavia non è da fidarsi di quelle vecchie tigri. Quando meno si crede, piombano addosso.

– Non l'aspetteremo questa notte? – chiese Indri.

– Quando saremo giunti sul luogo, vedremo. Hai fatto condurre una capra?

– Ve ne sono due legate dietro il ruth – disse Dhundia.

– Possiamo tentare l'agguato nella fossa.

– O su un palco – disse Indri. – È forse da preferirsi se il luogo sarà boscoso.

– Decideremo dopo – rispose Toby.

Di passo in passo che il pesante carro s'allontanava dal centro della città, le urla ed i suoni diventavano sempre più fiochi.

I sobborghi erano deserti, perché tutti i loro abitanti si erano rovesciati sulle piazze a godersi gli spettacoli notturni.

Un silenzio quasi assoluto regnava al di là della cinta, rotto appena dai muggiti dei quattro buoi e dallo stridere delle ruote.

Cominciavano i terreni diamantiferi, i quali si estendono fino presso la città, allontanandosi poi verso il centro dell'immenso altipiano e lungo i pendìi orientali.

Il terreno era tutto traforato e coperto qua e là di monticelli di ciottoli e di cespi enormi di gelsomini allora in fiore, i quali espandevano acuti profumi.

Delle tettoie vastissime e delle capanne, disposte senza ordine, a capriccio dei minatori, s'alzavano qua e là intorno agli scavi, mentre nel centro giganteggiava una noria, la quale però ora non girava più.

Le miniere di Pannah sono le più antiche che si conoscano, come sono pure le più celebri, ricavandosi da esse diamanti d'una tale purezza da superare quelli del Brasile e anche quelli del Transwaal.

La zona diamantifera attraversa antichi terreni d'alluvione divisi in strati orizzontali sovrapposti, formati per lo più da detriti di gneiss e di carbonati e che hanno in media uno spessore di tredici o quattordici metri.

Si estende per circa trenta chilometri verso il nord-est di Pannah, formando i centri minerari di Myra, di Etawa, di Kamarya, di Brispur e di Baraghari, e produce diamanti che hanno degli splendori meravigliosi che variano dal bianco puro al nero con tutte le gradazioni intermedie del rosa, del giallo e del verde bruno.

– Vorrei possedere tutte le ricchezze che si nascondono sotto questi terreni – disse Toby, il quale aveva alzate le grate di bambù per meglio osservare il campo diamantifero. – Se questi strati si lavorassero con sistemi più moderni, darebbero delle raccolte favolose, mentre invece questi minatori usano dei procedimenti che sono affatto primitivi e che non sono stati variati da secoli e secoli.

– Tuttavia il rajah deve ricavare delle grosse somme – disse Indri.

– La rendita annua di queste miniere si calcola a due milioni, ma chi può dire quanti diamanti vengono rubati sia dai lavoratori che dai sorveglianti? Anzi il rajah ne è tanto convinto, che ha fissato lui stesso il reddito di questi campi diamantiferi per non venire derubato del tutto.

– E se la raccolta dei diamanti fosse minore della somma fissata da lui? – chiese Indri.

– Tanto peggio pei direttori, perché se non viene raggiunta, prende tre o quattro di costoro e li fa decapitare.

– Un sistema molto spiccio.

– Che dà però risultati meravigliosi, – rispose Toby, – perché i due milioni fissati dal rajah vengono versati puntualmente e ti assicuro che ne avanzano anche ai direttori. Infatti sono tutti ricchissimi.

– Sono grossi i diamanti che si scavano in queste miniere?

– Il peso medio di essi non eccede generalmente i sei carati; tuttavia se ne sono trovati anche di quelli di sessanta, settanta e anche ottanta.

– E se ne mandano in Europa?

– No, rimangono tutti in India.

– Pure mi hanno detto che anche in Europa si vendono diamanti di Pannah.

– È vero, Indri – disse Toby. – Invece sono diamanti brasiliani che vengono mandati qui e che poi sono spediti in Inghilterra ed in Olanda con etichette indiane.

– Ed è qui che è stata trovata la Montagna di luce? – chiese Dhundia.

– Sì, in questi terreni – rispose il cacciatore. – È una istoria curiosa quella del Kohinoor, come viene chiamato quel famoso diamante.

«Il minatore che la trovò non era già un minchione. Accortosi che quel diamante poteva valere dei milioni, invece di consegnarlo subito ai sorveglianti, pensò di appropriarselo, certo di avere nelle mani la fortuna d'un rajah.

«La cosa però non era facile, perché, come voi saprete, quando i minatori escono dai pozzi, vengono frugati minuziosamente.

«Inghiottirlo non era possibile, essendo troppo grosso, e poi se i sorveglianti se ne fossero accorti, lo avrebbero subito condotto nella fossa in attesa che tornasse ad uscire d'altra via.

«Cosa fa l'astuto minatore? Con un sangue freddo ed un coraggio straordinario, si produce in una coscia una orribile ferita usando la scure che teneva in mano, nasconde nella carne viva il diamante e si fascia con un fazzoletto.

«Vedendolo così malamente conciato, i guardiani non si sognano nemmeno di frugarlo e lo lasciano tornare a casa perché si curi.

«Due settimane dopo il diamante, che pesava duecento e novantanove carati e che perciò valeva dei milioni, veniva venduto per centomila lire.

«Stava per venire asportato da Pannah, quando un agente del rajah fermò il possessore, obbligandolo a venderlo.

«Così è ritornato nelle casse del principe, il quale lo tiene gelosamente nascosto per tema che gli venga rubato.»

– E che noi gli riprenderemo – disse Indri, sottovoce. – Quanto viene stimato?

– Due milioni di lire.

– Posso pagare questa cifra senza andare in rovina – disse Indri.

– Anche se tu la raddoppiassi, il rajah la rifiuterebbe, perché quel diamante è per lui un talismano prezioso.

– Ne farà a meno e si prenderà i due milioni che io gli rimetterò quando avremo in nostra mano il Kohinoor.

– Io non gli darei più nulla – disse Dhundia.

– Indri non è un ladro – rispose l'ex favorito del guicowar, con accento severo.

Mentre il cacciatore ed i due indiani chiacchieravano, il ruth continuava ad inoltrarsi attraverso i campi diamantiferi, completamente abbandonati dopo la comparsa del terribile mangiatore d'uomini.

Ormai la città era lontana e non si distinguevano quasi più i suoi lumi. Ogni rumore poi erasi assolutamente spento.

L'altipiano, fino allora poco alberato, si copriva d'una folta vegetazione, essendo quel luogo ancora vergine. I minatori non erano giunti fino a quel luogo e le piante non erano state abbattute.

Macchioni di tamarindi enormi si succedevano assieme a gruppi di bambù alti dodici o quindici metri e di splendidi lauri.

Erano quelli i dominii del mangiatore d'uomini.

Il carro, giunto sul margine d'una distesa di bambù e di erbe giganti, si era arrestato.

Sahib – disse il capo degli sikkari, accostandosi allo sportello. – Non sarebbe prudente avanzarsi di più col ruth. La bâg frequenta queste macchie.

Toby prese la sua carabina e le munizioni e balzò a terra seguìto da Indri e da Dhundia.

– Un bel luogo per imboscarsi – disse, dopo d'aver girato lo sguardo intorno. – La tigre non poteva trovare un posto migliore per nascondersi.

– Ci fermiamo qui? – chiese Indri.

– Pianteremo il nostro campo.

– E poi?

– Ci inoltreremo fra queste macchie e andremo a cercare un luogo adatto per costruire il palco.

– Vuoi aspettare la tigre questa notte?

– Giacché siamo qui e la notte è chiara, approfittiamone. Non sempre le tigri lasciano i loro covi e mi è accaduto sovente di attendere una di quelle belve parecchi giorni.

– Allora approfittiamo di questa mezz'ora di luce per preparare l'agguato – disse Indri. – La costruzione del palco non richiederà che pochi minuti.

Lasciarono due sikkari a guardia del carro, si fornirono di viveri, e guidati dagli altri due che portavano delle scuri e delle corde, entrarono fra le macchie.

Non si esponevano pel momento ad alcun pericolo, perché difficilmente le tigri lasciano i loro covi prima del tramonto del sole. Le loro stragi non le compiono che di notte, avendo bisogno delle tenebre per piombare inosservate sulle prede.

A duecento passi dal carro, cominciava la vera foresta, formata da ammassi di bambù, da piccoli tek, da banani foltissimi, da sandali rossi, da alberi gommiferi e da banian smisurati, i cui rami, curvandosi verso il suolo e piantandosi in terra, formavano altrettanti tronchi pronti a procreare nuove piante.

– Che luogo selvaggio – disse Indri. – Nemmeno a Baroda ho veduto selve simili a questa.

– È una delle più belle dell'altipiano, – rispose Toby, – e anche una delle più pericolose, perché non sono le sole tigri ad abitarla.

– Dove costruiremo il palco?

– Vedo là uno spiazzo che ci servirà a meraviglia. Vi è un banian che con la sua ombra ci nasconderà agli sguardi della bâg.

– Siamo sufficientemente lontani dall'accampamento? Tu sai che le vecchie tigri sono molto prudenti e che evitano con gran cura i fuochi accesi attorno agli attendamenti.

– Abbiamo percorso già un chilometro e basterà.

Avevano raggiunto lo spiazzo dove desideravano alzare il palco. Era una piccola radura circondata da tamarindi e da banani, e quasi nel centro si estendeva un banian che da solo formava una minuscola foresta.

Scelto il luogo, gli sikkari si misero subito al lavoro per preparare il palco, il quale consiste in una semplice piattaforma formata di rami, sorretta da quattro grossi bambù di cinque o sei metri, altezza sufficiente per tenere i cacciatori fuori di portata dagli slanci di quelle pericolose fiere.

Gli sikkari, che sono abilissimi in tale genere di costruzioni, abbatterono parecchi bambù grossi quanto la coscia d'un uomo e d'una resistenza incredibile, quindi recisero una certa quantità di rami di tamarindo assai flessibili e perciò facile ad intrecciarsi. Aiutati anche da Toby e dai suoi compagni, in meno di un'ora la piattaforma fu innalzata e assicurata con solide corde.

Era larga tre metri, lunga quattro e alta cinque metri. Gli sikkari si provarono a scrollarla e furono soddisfatti della sua solidità.

Presso i margini furono ammassati dei rami per meglio nascondere i cacciatori, poi la capra che avevano condotta fu attaccata ad uno dei tronchi del banian, là dove l'ombra era più folta, onde la tigre non potesse subito scorgerla e portarla via.

– Ritornate al campo e non muovetevi fino a domani mattina – disse Toby agli sikkari. – Se udite degli spari, non inquietatevi.

– Buona fortuna, sahib – risposero i due indiani, prendendo i loro fucili e le loro scuri. – All'alba saremo qui.

Pochi istanti dopo scomparirono frettolosamente sotto le piante, ben contenti forse di tornarsene all'accampamento, sotto la protezione dei fuochi già accesi dai loro compagni.

Toby, fatto prima il giro del banian, raggiunse Indri e Dhundia, i quali si erano già inerpicati sul palco aiutandosi con un bambù, su cui erano state fatte delle profonde incisioni per appoggiarvi i piedi.

– Ceniamo, innanzi a tutto – disse il cacciatore. – L'uomo a digiuno non ha il polso fermo.

– E si batte male – aggiunse Indri.

– Purché la tigre non venga ad interromperla per reclamare la sua parte – disse Dhundia, il quale non seppe frenare un brivido a quel pensiero.

– Avremo il tempo necessario per mangiare e anche di fare delle pipate – rispose Toby. – Non verrà a trovarci così presto.

In un canestro avevano messo un'anitra bramina arrostita, dei pasticci di riso, alcune bottiglie di birra ed una di gin.

Si accomodarono nel centro della piattaforma, dove i rami e le traverse di bambù erano più solide, e si misero a mangiare, tranquilli come si trovassero non già in mezzo al dominio del mangiatore d'uomini, bensì nel salotto del bungalow.

Solamente Dhundia non pareva affatto rassicurato e di quando in quando s'interrompeva per guardare verso il banian, in direzione della capra.

La luna intanto era sorta e versava sulla foresta i suoi raggi azzurrini, facendo scintillare le lucide canne dei bambù.

Fra le macchie non si udiva il più lieve rumore, regnando dovunque una calma completa. Le gigantesche foglie dei banani si mantenevano rigide, mancando il più debole soffio di vento, ed i pennacchi delle gigantesche canne conservavano pure una immobilità assoluta.

– Che calura – disse Indri. – Si direbbe che in questa foresta non vi è né un cane selvaggio, né uno sciacallo, né un'antilope.

– La tigre probabilmente li avrà distrutti – disse Dhundia.

– Questo silenzio produce una certa impressione.

– È infatti una notte tranquilla – disse Toby, accendendo la pipa. – Mi ricorda un'altra sera eguale, terminata tragicamente per me e per uno dei miei più coraggiosi sikkari. Porto ancora sul dorso le tracce d'un superbo colpo d'artiglio e che per poco non mi fracassava la spina dorsale.

– Ricevuto da una tigre? – chiese Indri.

– Sì, e da una bâg admikanevalla, come quella che aspettiamo – rispose Toby, gettando in aria una nuvola di fumo azzurrognolo e profumato. – Che notte emozionante, miei cari!... È stata una delle più tremende provate in tanti anni di caccia.

– Racconta, Toby – disse Indri. – Il tempo passerà più presto.

– Non è una istoria troppo incoraggiante per uomini che aspettano una delle più formidabili fiere – rispose Toby, ridendo. – Può impressionare sfavorevolmente.

– Non sono alle mie prime cacce, tu lo sai.

– Allora ascoltatemi.

Prima di cominciare si alzò guardando in tutte le direzioni, poi sturò la bottiglia del gin, dicendo:

– Finché la capra tace, non abbiamo nulla da temere. Forse la bâg non si è ancora decisa a lasciare il suo covo.

Vuotò un bicchierino, indi riprese, sdraiandosi fra i due indiani:

– L'avventura che sto per raccontarvi non è recente, perché è avvenuta circa quattro anni or sono.

«In quell'epoca mi trovavo ancora nel Bengala e facevo frequenti escursioni alla foce del Gange, dove le tigri sono numerose quanto gli sciacalli che infestano il Malabar.

«Ero sbarcato su una di quelle isole accompagnato da un valente sikkari che mi aveva accompagnato anche nelle mie corse attraverso l'India centrale, quando alcuni indigeni che mi conoscevano, vennero ad avvertirmi che una tigre admikanevalla aveva attraversato il fiume Jor, divorando dei fanciulli ed una donna.

«Avevano anzi aggiunto che si trattava di una femmina e che era seguìta da un giovane tigrotto non più grosso d'un gatto.

«Desideravo da molto tempo di poter possedere una piccola tigre per ammaestrarla; l'occasione era quindi propizia per procurarmela, uccidendo prima la madre.

«Mi feci indicare il posto frequentato dalla bâg e andai ad imboscarmi accompagnato dal mio fedele sikkari.

«Voi già sapete che una admikanevalla è una tigre che ormai ha assaggiata la carne umana e che non cercherà altro che vittime a due gambe.

«Ordinariamente sono bestie piuttosto vecchie, le quali, non possedendo più l'agilità necessaria per assalire di slancio gli animali, s'imboscano su un sentiero aspettando l'uomo o la donna.

«Ma sapete pure che sono anche le più pericolose e le più audaci, osando spingersi perfino nei villaggi per rapire le persone che commettono l'imprudenza di addormentarsi fuori dalle loro capanne.»

– È vero – disse Indri. – Nessun pericolo le trattiene, pur di procurarsi della carne umana.

– In quell'epoca avevo già uccise molte tigri e mi ero convinto da lunga pezza che simili cacce non erano poi così pericolose per un cacciatore dotato d'un certo sangue freddo e sicuro dei propri colpi.

«Ed infatti le tigri, se non temono l'indigeno, il quale ordinariamente è sempre male armato, cercano quasi sempre di evitare l'uomo bianco perché sanno che possiede un fucile che non sempre fallisce.

«Raggiunto il sentiero frequentato dalla admikanevalla, non tardai a scoprire le orme del feroce animale. Esse si dirigevano verso un foltissimo macchione di bambù tulda, in mezzo alle cui canne avevo già osservato numerosi ossami.

«L'aria in quel luogo era impregnata da un nauseante odore di carne corrotta, segno evidente che là dentro doveva trovarsi il covo della belva.

«Ispezionato il terreno, rimandai al loro villaggio gl'indigeni che mi avevano guidato, i quali mi sarebbero stati più d'impaccio che di utilità, e mi nascosi, col mio sikkari, dietro il tronco d'un enorme latania.

«La notte era calata, una notte oscura come la gola d'un camino, essendosi il cielo coperto di fitte nuvole.

«Dai fangosi canali che solcavano quelle terre sature d'acqua, e dove imputridivano i cadaveri degl'indiani abbandonati alla corrente del Gange per evitare le spese della cremazione, si alzava una nebbia pesante, carica di esalazioni pestifere, di cholera e di febbri.

«Non udivo altro rumore che il sordo gracchiare dei marabù, i quali banchettavano sulle rive dei canali, rimpinzandosi della carne dei morti.

«Cominciavo ad annoiarmi ed a provare anche i primi brividi della febbre, quando il mio sikkari, che stava sdraiato presso di me, mi sussurrò all'orecchio:

«"La bâg viene".

«Il mio uomo era nato fra quei pantani, asilo delle tigri, e non poteva ingannarsi. Mi alzai lentamente sulle ginocchia, sperando di veder la fiera ad uscire dai macchioni di bambù invece non scorsi, né udii nulla.

«"Rimanete qui, sahib" mi disse l'indiano. "Vado a scovarla."

«Prese il suo fucile e s'allontanò strisciando come un serpente. Dopo pochi istanti era scomparso.

«Passarono alcuni minuti d'angosciosa attesa per me. Si può essere coraggiosi, nondimeno vi sono certi momenti nella vita in cui si provano mille paure.

«Tutto d'un tratto il silenzio della notte fu rotto da una fragorosa detonazione. Era la carabina del mio sikkari: l'avrei distinta fra cento altre.

«Stavo per muovermi, quando udii il mio uomo a urlare:

«"Sahib! La tigre!"

«Mi ero appena alzato. Un grido straziante, terribile, era giunto ai miei orecchi: era un grido di morte.

«Pallido, coi capelli irti, col cuore serrato come da una morsa di ferro, mi slanciai verso il luogo donde era echeggiato.

«Giunto sull'orlo d'una radura, vidi una scena che non dimenticherò più mai. Il mio sikkari giaceva al suolo e una grossa tigre, dopo d'avergli squarciato il ventre, aveva cacciato il muso tra le fumanti viscere del disgraziato.

«Puntai la carabina, un fucile a due colpi che non aveva mai mancato, e premetti il grilletto. La carica non partì.

«Stavo per far scattare il secondo, quando la fiera, con un balzo improvviso, mi piombò addosso cadendo dietro di me.

«Provai un dolore atroce, come se la spina dorsale mi fosse stata strappata tutta d'un colpo, eppure non perdetti il mio sangue freddo.

«Voltarmi, scaricare il secondo colpo del mio fucile e fracassare il muso della fiera, fu un solo momento.

«Era appena caduta, quando stramazzai anch'io, perdendo i sensi.

«Quando tornai in me, mi trovavo nella capanna del capo del villaggio. I suoi uomini mi avevano raccolto, quasi svenato, a due passi dal cadavere della tigre, colle mani ancora strette attorno al mio fucile.

«Lottai un mese fra la vita e la morte, e quando potei lasciare il mio giaciglio, vidi dinanzi a me il tigrotto che gl'indigeni avevano trovato presso la madre, mentre stava succhiandole il sangue che le usciva dalla ferita.»

– Ed il tuo sikkari? – chiese Indri.

– Quando gl'indiani lo trovarono, non ostante l'orribile squarcio che gli aveva messo a nudo gl'intestini, viveva ancora.

«Aveva avuto la forza di chiedere:

«"Bâg mahryaya?" (la tigre è morta?)

«Poi aveva chiusi gli occhi e si era aggomitolato su se stesso, mandando un ultimo sospiro.

«Il disgraziato era morto.»

– Ed il tigrotto? – chiese Dhundia.

Toby stava per rispondere, quando la capra, legata ad uno dei tronchi del banian, mandò un belato.

– La bâg! – esclamò il cacciatore. – Silenzio!...

Anche Indri era diventato pallido.