La Montagna di luce/10. La caccia al fakiro

10. La caccia al fakiro

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10.

LA CACCIA AL FAKIRO


L'immenso corteo continuava la sua marcia attraverso le principali vie della città con un frastuono crescente.

Anche la folla, eccitata da quella musica assordante e dal fanatismo religioso, univa le sua urla a quelle dei fakiri, delle baiadere e dei sacerdoti, plaudendo senza posa i quattro disgraziati che si agitavano all'estremità delle antenne, percuotendo gli scudi colle spade e gettando fiori.

Toby ed i suoi compagni si erano messi in coda al corteo per non farsi schiacciare dalla folla la quale si accalcava nelle vie meno larghe, travolgendo, senza farci caso, donne e fanciulli.

– Si direbbe che tutti questi uomini sono diventati pazzi – disse Toby.

– E per poco non lo divento anch'io – rispose Indri, sorridendo. – È questa musica strepitosa ed incessante che produce questo effetto.

– Infatti ho i nervi straordinariamente eccitati. In quale stato saranno poi quelli degli uncinati?

– Forse più tranquilli dei tuoi.

– Rimarranno molto appesi?

– Finché i carri avranno fatto quattro volte il giro della pagoda.

– Che tormento!... Domani non saranno più vivi.

– Tutt'altro, Toby. Tu non puoi immaginarti quale resistenza abbiamo noi indiani. Fra pochi giorni quegli uomini saranno guariti e pronti a ricominciare.

– Lo fanno per fanatismo?

– Qualche volta sì, non sempre però. C'entra anche il guadagno.

– Non ti comprendo, Indri.

– Essi espiano sovente i peccati di qualche ricco. Un uomo, supponiamo, fa un voto, quello di farsi appendere alla prima festa del tirunal. All'ultimo momento gli manca il coraggio, ma non osa rompere la promessa per paura della collera della sua divinità. Cosa, fa? Paga un disgraziato qualunque perché prenda il suo posto.

– E lo trova sempre?

– Vi sono tanti concorrenti che non ha che da scegliere.

– Mi stupisce che il governo inglese permetta queste sanguinarie processioni.

– Se volesse impedirle, scatenerebbe delle sommosse religiose, le cui conseguenze potrebbero essere funeste. È già molto che sia riuscito a far sorvegliare i carri da guardie indiane per limitare il numero di coloro che si fanno schiacciare sotto le ruote. Pochi anni or sono in ogni festa non vi erano meno di due o trecento morti. Si vedevano perfino delle donne gettarsi sotto i carri assieme ai loro figli.

– Per andare più presto nel paradiso di Brahma, è vero, Indri? – disse Toby, con accento ironico.

L'ex favorito del guicowar crollò la testa senza rispondere, mentre invece Dhundia, che lo aveva udito, guardava il cacciatore con occhi biechi.

Il corteo intanto era giunto presso la pagoda, girandole intorno. Gli uncinati, esausti dalla perdita di sangue e vinti forse dall'insopportabile tormento, avevano finito di agitarsi e pendevano inerti all'estremità delle lunghe antenne.

Solamente il fakiro di quando in quando, con uno sforzo supremo, si contorceva, facendo delle orribili smorfie.

La tensione della pelle del dorso dei disgraziati era visibilissima. Se la cintura non li avesse sorretti, la carne si sarebbe certamente stracciata sotto le incessanti scosse dei carri.

Toby e Indri e soprattutto Dhundia, non perdevano di vista il fakiro.

Quando videro i carri arrestarsi dinanzi al tempio e le antenne abbassarsi per liberare gli uncinati dall'atroce supplizio, tentarono di aprirsi il passo fra la folla.

Fu però una fatica vana. Quando, dopo una mezz'ora, poterono giungere presso i carri, il dio e gli uncinati erano stati condotti nel tempio.

– Entriamo anche noi – disse Toby. – Forse lo ritroveremo.

– Tu non puoi seguirci – disse Indri. – Dimentichi che sei un europeo? La folla ti farebbe una cattiva accoglienza e forse peggio. Lasciamo fare a Bandhara; non lascerà il fakiro.

– Allora torniamo al bungalow a fare i nostri preparativi e mangiare un boccone.

Si aprirono il passo fra le migliaia d'indiani che s'accalcavano intorno al tempio, e quando si trovarono fuori, s'accorsero di trovarsi soli.

Dhundia era scomparso.

– Dove sarà andato? – si chiese Toby, con qualche inquietudine.

– Si sarà smarrito – rispose Indri.

– O che abbia approfittato dell'occasione per non venire con noi alla caccia del mangiatore d'uomini?

– Dhundia non è pauroso. Ci raggiungerà al bungalow.

Mentre tornavano verso il palazzo reale, ben contenti di non udire più quel frastuono, Dhundia si sforzava di giungere nella pagoda.

Era visibilmente inquieto. Aveva udito l'ordine dato a Bandhara di seguire il fakiro, e conoscendo la prodigiosa abilità del cornac e anche la sua profonda affezione per Indri, non aveva avuto che un solo pensiero: mettere in guardia Sitama.

Approfittando della folla, era rimasto indietro, lasciando che Toby e Indri s'allontanassero, poi si era diretto più rapidamente che aveva potuto, verso la pagoda.

– Forse Bandhara non ha ancora raggiunto Sitama – si era detto. – Se arrivo prima di lui, il cornac perderà inutilmente il suo tempo.

Con sforzi prodigiosi era riuscito a giungere sulla gradinata della pagoda ingombra di fakiri, i quali continuavano a trapassarsi le carni con lunghi aghi e con stili affilatissimi.

Dal tempio uscivano urla acute come se dei fanciulli venissero tormentati e che i tam tam, le trombe ed i cimbali non riuscivano a soffocare.

Era lo scioglimento di voti fatti da inumani genitori, una delle più atroci cerimonie che destano orrore anche fra gli stessi indiani, perché i torturati sono poveri fanciulli.

I piccoli martiri che devono scontare i peccati dei padri o delle madri, durante le feste del tirunal vengono condotti nella pagoda, dove i sacerdoti cacciano nelle parti molli dei loro fianchi dei fili metallici assicurati a cordicelle.

I parenti prendono quelle corde e trascinano quei miseri attorno al tempio, una, due o tre volte, a seconda del voto fatto.

Dhundia, abituato a quell'atroce spettacolo, passò senza provare nessun fremito fra i fanciulli che venivano condotti attorno alla pagoda fra suoni e canti per soffocare i lamenti dei martirizzati, e si diresse verso un angolo, dove dei sacerdoti si erano attruppati dinanzi ad una mostruosa divinità rappresentante Kalì, la dea della morte e delle stragi.

Ogni pochi passi però si arrestava, guardando attentamente la folla che lo circondava. Temeva di scorgere il volto del cornac.

I quattro uncinati, pallidi, esangui, col viso coperto da un sudore freddo, stavano seduti su di un gradino, mentre alcuni sacerdoti cercavano di riunire a loro le carni orrendamente squarciate dagli arpioni.

Sitama era fra costoro e pareva il meno sofferente di tutti.

Quel briccone doveva possedere indubbiamente una volontà più che straordinaria ed una resistenza incredibile, per mostrarsi quasi ilare dopo l'atroce supplizio.

Scorgendo Dhundia, si era lentamente alzato, guardandolo fisso. Aveva compreso che qualche cosa di grave doveva essere avvenuto, per andarlo a trovare perfino nella pagoda.

Si gettò indosso un ampio dubgah di seta gialla, regalo dei sacerdoti, si coperse il capo con un turbante, si aprì il passo fra la folla, stupita di tanta forza d'animo e scomparve dietro le enormi colonne del tempio.

Dhundia lo aveva seguìto, scivolando cautamente fra le persone che lo circondavano, cogli sguardi sull'allerta, pronto a celarsi nel caso che avesse incontrato il cornac.

Non era ancora certo che quell'uomo fosse riuscito a scoprire il fakiro, pure era tutt'altro che tranquillo.

Una cosa però lo confortava: che Bandhara non poteva aver avuto il tempo né la comodità di trasformarsi e che quindi l'avrebbe subito riconosciuto.

Sitama, certo di essere seguìto, si era fermato dietro una colonna, poi si era diretto verso una delle uscite della pagoda, confondendosi fra la folla.

Camminava però adagio, sbirciando sempre Dhundia, né si rimetteva in cammino se non quando era sicuro di essere stato veduto dal suo compare.

Di passo in passo giunse così nel bazar di Pannah, dove centinaia di giocolieri inghiottivano spade, maneggiavano pesi enormi o irritavano serpenti che facevano uscire dalle ceste col suono di certi flauti.

Si fermò dinanzi ad un gruppo di persone che stavano ammirando un incantatore di serpenti il quale scherzava con una mezza dozzina di cobra-capello e di serpenti gulabi, poi si confuse fra di esse.

Chi lo avesse veduto, non avrebbe di certo sospettato in Sitama il fakiro che mezz'ora prima era stato staccato dall'antenna dopo un supplizio così atroce.

Pareva un tranquillo indiano intento a godersi quello spettacolo pericoloso.

Dhundia, fatto il giro dei curiosi per accertarsi che non vi era Bandhara, s'appressò a Sitama, mormorandogli all'orecchio:

– Bada: t'hanno messo alle calcagna il cornac di Bangavady.

Il fakiro aveva trasalito.

– Mi ha già scoperto? – chiese, senza voltarsi.

– Non lo so, ma Bandhara ti troverà di certo e non ti lascerà finché noi rimarremo qui.

– L'hai veduto dietro di me?

– No.

– Puoi seguirmi?

– Sì, per alcuni minuti.

– È tornato al bungalow il cacciatore?

– E anche Indri – rispose Dhundia.

– Vieni e ingannerò Bandhara – disse Sitama.

Uscì dal circolo formato dai curiosi, attraversò parte del bazar e si fermò dinanzi ad una tenda che s'appoggiava ad un piccolo chiosco di legno, occupato da alcuni saltimbanchi e giocolieri.

Dhundia capì, da un segno fattogli, che doveva aspettarlo in quel luogo, e si mescolò fra gli spettatori che s'affollavano dinanzi al chiosco, dove delle ragazzine, seminude, curvate all'indietro, stavano raccogliendo colle palpebre delle pagliuzze piantate a terra e dei bottoni di metallo ai quali erano appesi, con delle sottili cordicelle, dei pezzetti di piombo.

Erano trascorsi appena dieci minuti, quando Dhundia si sentì toccare le spalle.

Si volse e si vide dinanzi un indiano che aveva una lunga barba nera, il volto solcato da striature nere e che portava sulle spalle una cesta formata di sottili bambù, nella quale era piantata una spada.

Era accompagnato da un ragazzino di sette od otto anni, quasi interamente nudo, magro come un chiodo e con due occhietti nerissimi ed intelligenti, e da quattro uomini che portavano degli istrumenti musicali.

– Cosa vuoi? – gli chiese Dhundia.

– Non mi riconosci? – chiese l'indiano, sorridendo.

– Sitama! – esclamò Dhundia, stupito.

– Se tu non mi hai ravvisato, vuol dire che io posso ingannare anche il cacciatore, Indri e fors'anche Bandhara.

– La tua trasformazione è completa.

– Allora andiamo al palazzo reale.

– Perché avvicinarci al bungalow?

– Per far perdere le mie tracce. Bandhara non potrà supporre che un uomo che ha subìto la sospensione, possa aggirarsi là dove il pericolo sarebbe maggiore. La folla è enorme sulla piazza e le mie orme si perderanno più facilmente.

– E le tue ferite?

– Mi ho fatto mettere sopra un cataplasma che noi soli sappiamo comporre e che me le rimarginerà presto.

– Tu sei di ferro, Sitama.

– O d'acciaio – rispose il fakiro, sorridendo. – Andiamo: voglio mostrare al cacciatore ed a Indri il giuoco della cesta. Se non mi riconoscono, potrò seguirli ancora e ridermi anche di Bandhara.

– Può essere un'imprudenza.

– Od un colpo di testa magistrale – rispose Sitama. – Io ti precedo.

– E chi è questo fanciullo?

– Uno dei nostri.

– E quegli uomini?

Dacoiti.

Sitama fece un gesto ai suonatori e si mise in cammino traversando il bazar ingombro di venditori di tappeti, di stoffe di seta, di armi, di vesti e di centomila arnesi diversi, provenienti da tutte le provincie dell'Indostan.

Dhundia gli si era messo dietro, tenendosi però a quindici o venti passi.

Si guardava sempre intorno, cercando di scoprire Bandhara, senza però riuscirvi.

– Forse cerca Sitama nella pagoda o nelle sue vicinanze – disse. – Avrà un bel da fare a trovarlo e forse perderà il suo tempo inutilmente.

La folla che si accalcava in tutte le vie, ritardava il cammino al fakiro ed ai suoi compagni. Erano vere ondate di cittadini e di montanari dell'altipiano che si rovesciavano nelle vie a rischio di farsi schiacciare dagli elefanti montati dai principi del sangue o calpestare dai cavalli delle scorte.

Il frastuono non era cessato, anzi tutt'altro, quantunque ormai la processione fosse terminata.

In tutte le piazze, in tutte le vie, sulle terrazze e nei cortili delle case, si udivano rullare tamburi e tamburelli, suonare flauti, chiarine e trombe ed echeggiare i tam tam; a urlare i fakiri giunti in grosse bande da tutti i villaggi dell'altipiano, e sfiatarsi i giocolieri.

Vi era di che perdere la testa e anche da rimanere sordi per qualche settimana.

Un europeo non avrebbe certamente potuto resistere a lungo a quel frastuono che riesce invece tanto gradito agl'indiani.

Quando, dopo una buona ora, Sitama ed i suoi compagni giunsero sulla piazza, questa brulicava di cittadini e di soldati per assistere alla sfida dei grandi dignitari di corte recantisi al tempio.

Passavano mostruosi elefanti coperti d'oro, di gualdrappe frangiate e adorne di pietre preziose; splendidi destrieri montati dalle guardie del rajah e palanchini scintillanti d'oro portati da robusti montanari indossanti vesti sfarzose con nastri azzurri, rossi e gialli.

Splendidi specialmente i gialleder, ossia i palanchini dei ricchi, coperti di stoffe variopinte ricamate in seta ed oro coi bastoni argentati che terminavano con una testa di tigre e sorretti da indiani d'alta statura e seguìti dai servi che tenevano alti gli sciata, ossia ombrelli di ricca stoffa con frange, ed il manico d'argento cesellato.

Sitama fendette la folla e andò a fermarsi sotto il bungalow abitato da Toby e da Indri, facendo cenno ai suoi compagni di disporsi all'ingiro e di cominciare la musica.

Dhundia intanto era entrato con passo frettoloso, fingendosi trafelato ed inquieto.

– Dov'è il cacciatore? – aveva chiesto ai servi, accorsi alla battuta del tam tam appeso alla porta.

– È qui, sahib – disse il maggiordomo. – Ti aspetta da un'ora, ed essendo inquieto per la tua assenza, ha mandato i suoi due servi a cercarti.

Entrato nella saletta pianterrena, trovò Toby e Indri seduti a tavola, dinanzi ad un vaso colmo di birra e ad un pudding di dimensioni mostruose che il rajah aveva loro mandato onde festeggiassero degnamente il tirunal.

– Dove sei stato finora? – chiese Indri, vedendolo entrare. – È già un'ora che ti aspettiamo.

– Ed è anche un'ora che io vi cerco – rispose Dhundia.

– E da qual parte? – chiese Toby, con un lieve accento ironico, perché non credeva affatto che l'indiano si fosse realmente smarrito.

– Dalla parte del tempio – chiese Dhundia. – Supponevo che vi foste recati colà per rivedere quel fakiro.

– L'hai ritrovato? – chiese Indri.

– No: quando io entrai non vi era più nella pagoda. Mi hanno detto che l'avevano portato via quasi morente.

– Morisse davvero – disse Toby. – Io sono certo che quello era uno spione.

– E di chi spione? – chiese Dhundia.

– Di qualcuno che ha interesse a perdere Indri – rispose Toby, guardandolo fisso.

– Può darsi – rispose Dhundia, con voce tranquilla.

– Hai veduto Bandhara? – chiese Indri.

– No.

– Avrà seguìto il fakiro – disse Toby. – Così sapremo se morrà o vivrà.

– Anche se vivesse, ne avrà per parecchie settimane – osservò Dhundia. – Quell'uomo, ammesso che fosse una spia, per ora non ci darà alcun impiccio.

Toby stava per tagliare il pudding, quando un concerto strepitoso echeggiò proprio sotto le finestre del bungalow.

– Chi viene ad importunarci? – chiese Toby. – Ho già gli orecchi sfondati.

In quel momento entrò il maggiordomo dicendo:

Sahib, un povero indiano desidera mostrare al famoso cacciatore il giuoco della cesta, uno dei più straordinari spettacoli che si possano vedere in Pannah.

– Che vada al diavolo!...

– È un povero uomo, sahib.

– E non conviene ad un europeo rimandarlo – aggiunse Dhundia. – Si direbbe che il gran cacciatore è un avaro.

– Non inimichiamoci questa gente, Toby – disse Indri. – D'altronde non ti rincrescerà vedere questo giuoco che è uno dei più strabilianti.

Il cacciatore, a cui premeva non guastarsi cogli abitanti della città, si arrese alle osservazioni dei due indiani e si affacciò alla veranda che circondava il bungalow.

Molta gente si era radunata dinanzi alla palazzina, formando un semicerchio che di momento in momento s'ingrossava.

Seduti sui gradini del bungalow, tre indiani stavano eseguendo un terzetto monotono con delle sumaë, specie di chiarine che dànno dei suoni aspri, mentre un quarto li accompagnava con l'urni, istrumento consistente in una noce di cocco aperta, fornita d'un bastone e d'una corda e che si suona con un archetto che per lo più è carico d'ornamenti.

Sitama, ormai irriconoscibile, aveva deposta in terra la cesta sulla quale stava seduto il fanciullo in attitudine angosciosa.

Il fakiro fingeva di essere in preda ad un accesso di furore e agitava la spada facendola scintillare sulla testa del fanciullo e pronunciando minacce.

– Cosa fa quell'uomo? – chiese Toby. – Vuole ammazzare quel ragazzo?

Udendo la voce del cacciatore, Sitama aveva alzata la testa e lo aveva salutato con un profondo inchino.

– Sta' attento – disse Indri, il quale, al pari di Toby, non aveva riconosciuto il fakiro. – Quell'uomo ti mostrerà un giuoco stupefacente e che tu non hai mai veduto.

– Conosco l'abilità veramente straordinaria dei giocolieri indiani – rispose Toby.

Sitama aveva intanto cominciato a correre attorno alla cesta, minacciando e sfiorando il fanciullo colla lama affilata della sua spada, mentre i suonatori precipitavano la musica.

Ad un tratto il ragazzo sollevò bruscamente il coperchio e scomparve nel paniere come se avesse voluto sfuggire ai colpi di Sitama.

Subito i quattro suonatori, abbandonati i loro strumenti, si erano gettati sulla cesta pestandola in modo da ridurla una vera focaccia, quindi estratti i loro coltelli, l'attraversarono in tutti i sensi.

Per alcuni istanti si udirono dei lamenti strazianti mandati dal fanciullo, il quale pareva, o almeno era da supporsi, che fosse stato crivellato, poi più nulla.

– Ma dov'è fuggito il ragazzo? – chiese Toby, stupito. – Nella cesta non ci deve essere più.

– T'inganni – rispose Indri. – V'è ancora.

– È impossibile! Il paniere poteva a malapena contenerlo, mentre ora è tutto schiacciato.

– Guarda e te ne persuaderai.

I suonatori avevano ripresi i loro istrumenti, intonando una marcia selvaggia.

Un momento dopo una voce che pareva venisse di molto lontano, si fece udire: era quella del fanciullo.

Toby, al colmo dello stupore, guardò Indri.

– È incredibile! – esclamò.

La voce diventava sempre più distinta come si avvicinasse, mentre la cesta a poco a poco si rigonfiava, riprendendo la forma primiera.

Ad un tratto s'aprì ed il fanciullo balzò fuori. I coltelli non lo avevano nemmeno toccato perché il suo corpo, interamente nudo, non presentava la menoma scalfittura.

– Vi era dentro? – chiese Indri, ridendo.

– Questo giuoco è stupefacente! – esclamò Toby, lanciando verso il fanciullo una manata di rupie. – Come si spiega?

– Solo quel giocoliere potrebbe dirlo, ma non lo rivelerebbe a nessun prezzo. È un segreto che non si vende.1

Sitama, raccolte le rupie e fatto un nuovo inchino, si era allontanato coi suoi uomini ed il fanciullo.

Ormai era certo di non essere stato riconosciuto e si sentiva in grado di sfidare anche Bandhara.


Note

  1. Questo giuoco, veramente meraviglioso, che i soli indiani sanno fare, non è stato spiegato da nessun europeo.