La Gemma del Fiume Rosso/12. Il tha-ybu della caverna

12. Il tha-ybu della caverna

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Il tha-ybu della caverna


Il sole era tramontato da parecchie ore, quando dalla casa offerta dai due capi delle Bandiere Nere e Gialle alla Gemma del Fiume Rosso, uscirono con cautela due forme umane, passando silenziosamente fra i guerrieri addormentati intorno al fuoco semispento.

Erano la vecchia Man-Sciù e suo figlio Ong. Avevano atteso pazientemente che tutti dormissero nel villaggio, premendo ad entrambi che Sun-Pao e Kin-Lung non si mettessero in sospetto per quella gita notturna.

Usciti dal villaggio, Ong, che serviva di guida alla madre, aveva piegato verso la costa occidentale che si manteneva sempre altissima e cosparsa di alberi di cocco, le cui foglie rendevano maggiore l’oscurità.

– Ti ricordi la via? – chiese la vecchia quando furono così lontani da non poter essere uditi da nessuno.

– Sì, madre – rispose Ong. – Quantunque mi sia recato una sola volta alla caverna, so dove si trova.

– Avremo da camminare molto? Le mie gambe non sono più robuste.

– Appena una mezz’ora.

– Dormirà il tha-ybu?

– Mi hanno detto che alla notte veglia sempre. Si pretende che quantunque lo abbiano acciecato veda egualmente le stelle.

– I mostri! – mormorò la vecchia con accento di odio. – Non bastava loro avermelo rapito! Me l’hanno anche acciecato.

– Che cos’hai, madre? – chiese Ong sorpreso.

– Nulla, ragazzo. Tu eri allora troppo giovane per ricordartelo.

– Chi?

– Il tha-ybu.

– L’ho veduto quando ero bambino?

– Sì, Ong, e ti ha fatto saltare sulle sue ginocchia.

– L’indovino? Abitava con noi?

– Nella nostra capanna, ma allora noi eravamo a Seul, nel paese della Gemma del Fiume Rosso. Non ti ricordi di un bel fiume, che scorreva dinanzi ai nostri campi, sulle cui rive ti conducevo sovente a giuocare?

– Mi pare, madre – rispose il giovane. – Deve essere trascorso molto tempo.

– Dieci anni.

– E vi era il tha-ybu con noi?

– Sì e la sua fama d’indovino era grande anche allora. Venivano dei mandarini e perfino dei principi dai più lontani paesi ad interrogarlo e mai s’ingannava nelle sue previsioni. Fu la sua celebrità che lo rovinò e che mi rese per sempre infelice.

– E perché, madre?

– Il tha-ybu delle Bandiere Gialle e Nere era morto. Le tribù ne domandavano un altro. Kin-Lung e Sun-Pao avevano udito parlare di quello che abitava con noi e decisero di rapirlo. Una notte le loro barche salirono il fiume, invasero la nostra dimora e lo portarono via, lasciando me e te soli senza più nulla, perché quei banditi, prima di partire, avevano tutto incendiato e tutto distrutto.

– Kin-Lung e Sun-Pao! – esclamò Ong stringendo i denti. – E perché non me l’hai detto prima, madre? Invece di arruolarmi sotto le loro bandiere avrei cercato di ucciderli.

– Avrei perduto anche il figlio oltre il marito.

– Il marito, hai detto! – esclamò Ong fermandosi.

– Sì, il tha-ybu era tuo padre, Ong – disse la vecchia con profonda commozione.

– Madre!... Spiegati!...

– Ci eravamo incontrati un giorno sulle rive del Fiume Rosso – proseguì Man-Sciù, facendo cenno a Ong di camminare. – Egli non era allora un tha-ybu, bensì un povero lanzu, senza fortuna, un disgraziato al pari di me, deforme e per di più affamato. Mossa a compassione del suo misero stato, io l’avevo accolto nella mia capanna e ci amammo. Eravamo felici e Gautama aveva benedetto la nostra unione dandoci un figlio: tu, Ong. Col trascorrere degli anni, la fama dell’antico lanzu era aumentata e non si parlava che del tha-ybu. Vennero le Bandiere Nere e Gialle e me lo rapirono, spezzando per sempre la nostra felicità. Io non avevo prima di allora udito mai parlare di Sun-Pao e di Kin-Lung, né delle loro isole.
Costretta dalla miseria, dopo che i nostri campi erano stati distrutti e la nostra casa bruciata, ero fuggita sulle montagne di Seul dove avevo trovato ricovero e protezione presso il padre di Lin-Kai. Fu solamente da quei montanari che potei apprendere il nome dei rapitori di mio marito ed il luogo ove l’avevano condotto. Ti feci arruolare sotto le bandiere dei due capi per aver notizie di loro e preparare la mia vendetta.

– Chi ha acciecato mio padre? – chiese il giovane con accento feroce.

– I due capi delle Bandiere Nere e Gialle. Nel nostro paese si dice che i tha-ybu ciechi dalla nascita od in seguito a qualche accidente, siano i migliori e che possano leggere meglio di tutti gli altri sul gran libro del destino. Kin-Lung e Sun-Pao non esitarono quindi a privare della vista tuo padre, facendogli passare dinanzi agli occhi la lama arrossata di un coltello.

– Noi lo vendicheremo, è vero, madre?

– E vendicheremo anche Lin-Kai, il cui padre ci ha raccolti e sfamati per lunghi anni.

– Madre, mi hanno detto che è stato il tha-ybu, che si è opposto alla morte di Lin-Kai. Sapeva che tu dovevi riconoscenza al padre di quello sventurato?

– Lo avevo fatto avvertire da un montanaro, che era caduto prigioniero delle Bandiere Nere negli ultimi combattimenti.

– Dunque egli sa anche che tu sei viva? – chiese Ong.

– E che aspettavo l’occasione propizia per vendicarlo e liberarlo. Ecco perché ho unito la mia sorte a quella della Gemma del Fiume Rosso.

– E sarà lontano quel giorno? Io odio a morte Sun-Pao e Kin-Lung e, se vuoi, li ucciderò. Io so che tu, al pari delle Bandiere Nere, possiedi dei filtri. Dammene uno e avvelenerò i loro cibi.

– Sarebbe una morte troppo dolce – rispose Man-Sciù. – La punizione sarà ben più terribile, specialmente quando impegneranno fra di loro la lotta per disputarsi la Gemma del Fiume Rosso ed il vincitore saprà che ha ucciso...

– Chi?

Un orribile ghigno contrasse le labbra della vecchia.

– È un segreto che appartiene a tuo padre ed a me. Lo saprai solo il giorno in cui Kin-Lung avrà ucciso Sun-Pao o questi avrà freddato quello.

La vecchia tacque, non rispondendo più alle domande di Ong.

Affrettava il passo, invitando il figlio a precederla, per non cadere nei numerosi crepacci che solcavano l’alta ripa.

Seguivano allora una muraglia di rocce che lasciava a metà altezza una piccola sporgenza, fiancheggiante il mare.

Sotto si udivano le onde infrangersi con cupi boati e si vedevano scintillare fra la spuma le bocche luminose dei pescicani.

Ong aveva preso la vecchia per una mano, tenendola ben stretta per paura che perdesse l’equilibrio e precipitasse nell’abisso.

Percorsi duecento passi, si fermò dinanzi ad una piccola spianata di pochi metri di estensione.

Seduto sopra una roccia, colle gambe penzolanti nel vuoto, un uomo stava immobile, col viso volto verso la luna che splendeva superbamente riflettendosi in mare.

Era piccolo come Man-Sciù e deforme, con una gamba assai pronunciata, la testa grossa, come Ong, e quasi interamente pelata, con una barba lunghissima, che all’estremità si attortigliava come quella di certi fakiri dell’India, e tutta bianca.

Aveva indosso un mantello di stoffa scura, con dei ghirigori segnati in bianco e delle figure e delle lettere indecifrabili, e portava, appesa al collo, una borsa di pelle contenente chissà quali oggetti di magia.

– Il tha-ybu – disse Ong che si era arrestato all’estremità della spianata.

– Fermati sul sentiero, figlio – disse la vecchia. – Tu verrai più tardi ad abbracciare tuo padre.

Si avvicinò silenziosamente alla roccia, e, giunta presso all’indovino, gli gettò le braccia al collo con slancio appassionato, dicendo con voce dolce:

– Il tha-ybu del Fiume Rosso non conosce più la sua donna che da tanti anni lo piange? Non si ricorda più di Man-Sciù?

Il tha-ybu aveva mandato un grido. Con un gesto rapido si era sbarazzato del mantello, mostrando il suo corpo quasi ischeletrito, e aveva preso fra le mani il capo della vecchia, fissandone il volto con due occhi che pareva avessero perduto la loro luce.

– Man-Sciù! La mia donna! – aveva esclamato, con voce singhiozzante. – Gautama sia benedetto!

Quei due esseri così disgraziati erano rimasti qualche tempo stretti l’uno all’altro, senza più parlare. Soltanto sordi singhiozzi uscivano dalle loro labbra.

– Sì, sei la mia Man-Sciù – disse finalmente il tha-ybu. – Ti vedo e gli anni non hanno cancellato dalla mia memoria il tuo viso.

– Tu mi vedi! – esclamò la vecchia.

– Ti vedo – ripeté il tha-ybu.

– Non ti hanno acciecato i miserabili?

Invece di rispondere l’indovino si era attirato sul petto, per la seconda volta, la vecchia, chiedendole con voce tremante:

– Che cosa è avvenuto di nostro figlio, Man-Sciù?

– Egli vive ancora.

– Potrò un giorno rivederlo?

– Più presto di quel che credi.

– E chi ti ha condotto qui? Chi ti ha fatto attraversare il mare?
Dieci lunghi anni senza udire più mai la tua voce. Quante sofferenze in così lungo tempo! Mia povera Man-Sciù, quale felicità provo in questo momento!

– Io sono venuta qua colle Bandiere Gialle e Nere per accompagnare una fanciulla.

– La Gemma del Fiume Rosso?

– Che cosa ne sai tu? – chiese la vecchia.

– Sapevo che i due capi erano partiti per recarsi a prenderla. Era la fidanzata di Lin-Kai, il figlio dell’uomo che ti aveva accolta e protetta dopo il mio rapimento, è vero Man-Sciù?

– Sì.

– Lo crede morto Sai-Sing?

– No, sa che fu rapito dai due capi e che gli fu fatto bere il filtro rosso e siamo venuti qui per salvarlo e per vendicarci dei due miserabili.
Potremo noi strapparlo a Kin-Lung ed a Sun-Pao? Io sono venuta da te per vederti innanzi tutto e per chiederti che cosa devo fare.

– Che cosa temi tu?

– Che lo uccidano.

– Un giovane mi aveva narrato ogni cosa, mi aveva detto che i capi andavano a prendere la Gemma del Fiume Rosso, ed io, prevedendo che quei due ladri di mare al loro ritorno non avrebbero esitato a uccidere Lin-Kai, li ho prevenuti.

– Tu!...

– Lin-Kai è al sicuro e a quest’ora tutti credono che egli si sia annegato – disse il tha-ybu.

– E sei stato tu che lo hai salvato?

Il tha-ybu alzò le sue palpebre che apparivano coperte di profonde lividure e, mostrando a Man-Sciù gli occhi, disse:

– Avevano creduto d’avermi acciecato, invece io ci vedo ancora.
Quando mi fu passato dinanzi alle pupille il ferro rovente che doveva farmele crepare, delle lagrime cadevano dai miei occhi. Quel velo fu sufficiente a salvarmi la vista. Mi finsi cieco e mi lasciai condurre in quella caverna che s’apre dietro di me. Mi avevano privato della luce perché, come tu sai, i tha-ybu che non vedono sono i migliori per indovinare il futuro.

– Come hai potuto aiutare Lin-Kai? – chiese Man-Sciù.

– Ho saputo il luogo ove Kin-Lung l’aveva relegato. Approfittando dell’assenza dei capi, tre notti or sono, disceso sulla spiaggia, mi sono impadronito d’un canotto e mi sono recato là dove si trovava il disgraziato giovane. Avevo giurato di ricompensare la buona azione fatta da suo padre verso di te e verso nostro figlio. Sono sbarcato senza che nessuno mi vedesse. I due guardiani e Lin-Kai dormivano nella capanna. Ho sorpreso le due Bandiere Nere e le ho pugnalate colle loro stesse armi, poi ho portato via il prigioniero, dopo d’aver avuto la cura di deporre le sue vesti ed il suo cappello sulle scogliere.

– Se qualcuno ti avesse veduto! – esclamò Man-Sciù rabbrividendo. – O se si sospettasse di te?

– D’un cieco? Sii tranquilla, donna mia. Nessuno mi ha mai veduto attraversare il sentiero che costeggia il mare, impresa impossibile per un uomo privo della vista.

– E dov’è ora Lin-Kai?

– Vieni, Man-Sciù – disse il tha-ybu.

La prese per una mano e le fece attraversare lo spiazzo. All’estremità si apriva un’apertura profonda e oscura, da cui usciva un tanfo insopportabile. Era la caverna delle rondini salangane che gli serviva d’asilo.

Accese una lampada, formata d’un mezzo guscio di noce di cocco ripieno di cotone imbevuto di resina, e s’inoltrò nell’antro.

A quella luce improvvisa, miriadi di graziosi uccelli, somiglianti alle rondini marine, che nidificavano in fondo ai crepacci, si erano messi a svolazzare disordinatamente per l’ampia caverna, le cui volte erano altissime.

Il tha-ybu, senza preoccuparsi dello spavento che aveva invaso i volatili, s’introdusse in una galleria laterale che s’avanzava nel cuore della parete granitica ed entrò in una seconda caverna più piccola della prima, col suolo cosparso di fina arena e di foglie secche.

In un angolo un giovane bellissimo, di forme superbe, che aveva la capigliatura lunga, nerissima e inanellata, giaceva su un mucchio di foglie di banano che pareva fossero state appena raccolte.

Anche nel sonno, un sorriso da ebete gli errava sulle labbra.

– Lo vedi? – chiese il tha-ybu.

– Lin-Kai!... – esclamò la vecchia. – Povero giovane!...

– Nessuno sospetterà mai che egli si trovi qui – disse l’indovino. – Questa seconda caverna comunica col mare e tutti ne ignorano l’esistenza.

– È sempre pazzo?

– Sì, ma è una pazzia dolce; il filtro rosso non fa soffrire più di quattro ore. Egli non ricorda più nulla. È come un bruto, come una pianta che vegeta; la sua memoria è stata spenta. Anche se tu lo mettessi di fronte alla Gemma del Fiume Rosso rimarrebbe impassibile.

– Dall’incendio ho strappato i tuoi filtri compreso il verde che è l’antidoto del rosso.

Un lampo illuminò le pupille smorte del tha-ybu.

– Allora noi lo faremo fuggire e poi lo guariremo – disse.

– Quando?

Il tha-ybu stava per rispondere, allorché udirono al di fuori un fischio modulato, seguìto poco dopo da un grido che pareva mandato da un lupo rosso. Man-Sciù aveva trasalito.

– È un segnale di allarme di Ong – disse.

– Di nostro figlio!... – gridò il tha-ybu.

– È lui che mi ha condotto qui.

– Che lo veda!... Che lo veda!...

Ong entrava in quel momento nella caverna, chiamando:

– Madre!... Madre!...

Man-Sciù e l’indovino si erano precipitati nel corridoio.

– Che vuoi, Ong? – chiese la vecchia.

– Vi sono degli uomini che s’avanzano sul sentiero – rispose il giovane. – Io li ho...

Non ebbe il tempo di finire. Il tha-ybu l’aveva stretto fra le braccia, portandolo vicino alla lampada.

– Mio figlio!... – esclamò. – Questo incontro mi compensa di tanti anni di patimenti.

Man-Sciù, che si era spinta verso l’uscita della caverna, tornò rapidamente indietro.

– È Sun-Pao che viene – disse.

Il tha-ybu si era violentemente separato dal figlio.

– Che cosa viene a fare qui quel maledetto? – ruggì. – Sarà il primo che morrà.

– Non è solo, padre – disse Ong.

– E poi la vendetta non sarebbe completa – disse Man-Sciù.

– Nella caverna di Lin-Kai!... – comandò l’indovino.

Man-Sciù e Ong erano appena scomparsi nella galleria tenebrosa, che Sun-Pao appariva sulla soglia della caverna, scortato da quattro dei suoi più fidati guerrieri.

– Chi viene a disturbare le meditazioni del tha-ybu? – chiese l’indovino con voce collerica. – La notte è fatta per me da che il sole si è per sempre oscurato ai miei occhi.

– Sono io, Sun-Pao – rispose il capo. – Io sono venuto perché ho bisogno di te.

Il tha-ybu rispose con un grugnito, che indicava il suo malumore per quella improvvisa visita.

– Hai interrogato gli astri questa notte? – chiese il bandito.

– Sì ed ho scorto, attraverso le mie palpebre, una stella che brillava di luce intensa sopra il picco di questa isola.

– Quella della Gemma del Fiume Rosso?

– Sì.

– Declinava verso le isole mie o verso quelle di Kin-Lung?

– Si teneva immobile.

– Che cosa significa?

– Che finora Gautama non ha deciso se la Gemma del Fiume Rosso sarà sposa tua o di Kin-Lung.

– Tu che sei il migliore e più famoso indovino del Tonchino e che puoi interrogare a tuo piacimento lo Spirito Celeste e anche quello Marino, devi sapere da quale parte piegherà la stella e fors’anche costringervela.

– Posso predirti da qual parte inclinerà e niente di più.

– Allora fammi la predizione.

– La vuoi? – chiese il tha-ybu.

– Sì, così almeno, se la sorte mi sarà contraria, potrò prepararmi a disputare la Gemma a quel cane di Kin-Lung.

– Piegherà verso le isole di quello che hai chiamato cane.

Un urlo feroce, che pareva quello d’una tigre furibonda, sfuggì dal petto del bandito.

Si tolse dalla cintura la scimitarra e l’aizzò sul capo del tha-ybu, gridando:

– Maledetto stregone! Non predirai più il futuro.

Stava per spaccargli il cranio, quando nel corridoio si udì un brontolìo minaccioso.

Sun-Pao, se era feroce e valoroso, era soprattutto superstizioso e temeva la misteriosa potenza dei lanzu e dei tha-ybu.

Udendo quel brontolìo si era arrestato, guardando con terrore l’oscura galleria.

– Perché non colpisci? – chiese il tha-ybu con accento beffardo.

– Chi v’è là dentro? – chiese invece Sun-Pao, battendo i denti pel terrore.

– Poco fa ho veduto aggirarsi in quella galleria uno spirito.

– Chi era?

– Quello di Lin-Kai – rispose il tha-ybu.

Sun-Pao era retrocesso vivamente, col viso pallido.

– Ti ha parlato? – chiese tremando.

– Sì, egli era venuto da me per avvertirmi che si preparava a vendicarsi.

– Se Lin-Kai è morto!

– Eh! – fece il vecchio indovino, scuotendo la testa. – Qualche volta anche i morti, per volere di Gautama, tornano sulla terra. E poi chi ti ha detto che egli sia morto?

– Io e Kin-Lung abbiamo trovato le prove del suo suicidio.

– Allora era veramente il suo spirito quello che io aveva veduto vagare sotto la galleria.

– Ah! Lo spirito! – esclamò Sun-Pao. – Ti lascio in sua compagnia, non amando aver a che fare coi morti. Buona notte, tha-ybu, e ricordati che terrò gli occhi aperti sopra di te.

Ciò detto, Sun-Pao uscì dalla caverna e s’inoltrò sul sentiero, seguìto dai suoi uomini, scomparendo fra le rupi.

Si era appena allontanato che Ong uscì dalla galleria, tenendo in pugno la catane.

– Padre – disse. – Ero pronto ad uccidere quel miserabile e a quest’ora non sarebbe più vivo se mia madre non me lo avesse impedito.

– Tua madre ha fatto bene a trattenerti, Ong – rispose il tha-ybu. – I guerrieri di Sun-Pao non ti avrebbero risparmiato.

– E se ti avesse ucciso?

– Non poteva osarlo. Voleva solo spaventarmi, ne ero sicuro.

– Ed io invece ho spaventato lui – disse Man-Sciù. – Ha creduto che quel brontolìo l’abbia mandato l’anima di Lin-Kai?

– Temo il contrario, mia buona Man – rispose il tha-ybu. – Egli è superstizioso ma è anche furbo e sospetto che cerchi di sorprendermi. Hai udito le sue ultime parole?

– Sì, Cantubi.

– Egli veglierà o mi farà vegliare.

– Che abbia avuto il sospetto che Lin-Kai si sia rifugiato qui?

– Lo suppongo.

– Se tornasse con altri a visitare la caverna?

– Giungerà troppo tardi. Tra mezz’ora la luna sarà tramontata e noi metteremo in salvo Lin-Kai. Se lo trovassero qui ucciderebbero senza pietà lui e anche tutti noi. Ong, va’ a spiare il sentiero che costeggia il precipizio e tu, Man, seguimi.

Mentre il giovane usciva, il tha-ybu rientrò nel corridoio, poi nella seconda caverna e con una scossa svegliò Lin-Kai.

Il giovane aveva alzato il capo, girando intorno uno sguardo [privo] d’espressione, fermandolo poscia sull’indovino. Un riso da ebete gli spuntò sulle labbra.

– Alzati – comandò il tha-ybu con voce imperiosa.

Lin-Kai parve che facesse uno sforzo supremo per afferrare il senso di quelle parole, poi lentamente si drizzò.

– Ti capisce? – disse Man-Sciù, guardando con profonda compassione quel bel giovane, un giorno orgoglio della sua tribù ed ora ridotto in quel miserando stato.

– Sì – rispose l’indovino – ma bisogna che lo guardi fisso. Obbedisce più ai miei occhi che alla mia parola.

S’accostò ad un angolo della caverna e spinse poderosamente un masso, facendolo scorrere entro una specie di scanalatura.

Un buffo d’aria fresca e umida, impregnata di emanazioni saline, uscì dal foro lasciato aperto da quel macigno.

Il tha-ybu prese per una mano Lin-Kai, fece cenno a Man-Sciù di alzare la lampada e si cacciò in quell’apertura, il cui suolo nero, cosparso di fuchi secchi, scendeva rapidamente.

– Dove ci conduci? – chiese Man-Sciù.

– Questo passaggio mena sulla spiaggia – rispose l’indovino.

– E poi?

– Ho nascosto la barca che mi ha servito a condurre qui Lin-Kai e che avevo rubata al villaggio delle Bandiere Nere. Tu vi entrerai con Ong e col pazzo.

– E tu?

– Io non posso allontanarmi. Sun-Pao può tornare da un momento all’altro e se non mi trovasse si metterebbe in sospetto.

– E dove condurremo questo povero giovane?

– Vi è una caverna marina a duecento passi dallo sbocco di questo passaggio, che io solo conosco e la cui apertura è nascosta da folti cespugli. Lo condurrai in quel luogo. Dirò a Ong che cosa dovrà fare per trovarla.

– E chi rimarrà con Lin-Kai? La Gemma del Fiume Rosso mi aspetta.

– Vi resterà Ong. Tu, che sai guidare un canotto quanto un battelliere del Fiume Rosso, tornerai seguendo la costa. Non ti consiglio di riattraversare il sentiero; Sun-Pao non deve essersi allontanato.

Continuarono a scendere, curvandosi di tratto in tratto per non urtare col capo contro la volta che si abbassava sempre. Un frastuono assordante, prodotto dal rompersi delle onde, si propagava nella galleria, destando l’eco.

Finalmente si trovarono su una scogliera di pochi metri di estensione.

Il mare tutto intorno muggiva spruzzandola di schiuma.

– Eccoci all’aperto – disse il tha-ybu. – Ci troviamo sotto il sentiero che costeggia il precipizio. Ed ecco lì la barca, nascosta entro quel cavo. È leggera e basterà una spinta per gettarla in acqua.

Mise le sue mani sulle spalle di Man-Sciù, contemplandola per qualche minuto agli ultimi raggi dell’astro notturno che in quel momento tramontava in mare.

– Domani sera pronuncerò la profezia – disse. – Lo dirai alla Gemma del Fiume Rosso e le dirai pure che viva tranquilla.

– Su chi cadrà la scelta? Su Sun-Pao o su Kin-Lung?

Un sorriso sinistro sfiorò le labbra dell’indovino.

– Sono dieci anni che attendo la mia vendetta – disse con voce cupa. – La mia sarà più terribile di quella ideata da te. Conosco Sun-Pao e Kin-Lung ed i loro uomini e domani sera assisteremo alla distruzione di questi banditi.

– È dunque vero il segreto che mi hai confidato per mezzo del montanaro che mi avevi mandato?

– Sì.

– Kin-Lung e Sun-Pao sono...

– Silenzio, Man-Sciù. A domani sera.

Le impresse sulla rugosa fronte un bacio e rifece la via percorsa.

Ong lo aspettava nella caverna.

– Padre, – disse il giovane – non ti sei ingannato. Sun-Pao veglia sul sentiero.

– Raggiungi tua madre e fa’ quanto ti dirà. Troverai il nascondiglio appena oltrepassata la sesta scogliera, là dove vedrai la parete di basalto rientrare. Rema silenziosamente e aspetta che la luna sia tramontata. Non dimenticare che Sun-Pao è sul sentiero e che potrebbe udirti.

– Sarò prudente, padre.

– Quando avrai ricondotto tua madre al villaggio, tornerai presso il pazzo e veglierai su di lui. Domani sera tutto sarà finito e noi torneremo sulla terra dei nostri padri, che da dieci lunghi anni non rivedo. Rivedrò anche il nostro Fiume Rosso, sulle cui rive ho amato tua madre e...

Si era interrotto. Una strana commozione gli aveva soffocato la voce.

– Ong, figlio mio – disse con un singhiozzo. – Se le mie torture e la mia infelicità non fossero ancora finite? Anche ieri sera ho interrogato gli astri e la mia stella era oscura.

– Che cosa temi ancora, padre? – chiese il giovane.

– Non lo so; eppure sento che un’altra disgrazia mi sta vicina. Maledetti!... Guai a voi!... Sarò implacabile!...

Si strinse, con frenesia, il giovane fra le braccia, spalancando le palpebre semiabbruciate dal calore intenso della catane infuocata, poi si separò bruscamente, risalì la galleria, riattraversò le due caverne e si sedette sullo scoglio, lasciando penzolare le gambe nel vuoto.

Ascoltava, col cuore sospeso, trepidante, guardando il mare che era diventato tenebroso. La luna da qualche istante era scomparsa e una profonda oscurità aveva avvolto la superficie liquida e le Sette Isole delle Bandiere Gialle e Nere.

Passarono parecchi minuti. D’improvviso un urlo acuto s’alzò fra le tenebre. Pareva il grido d’un uomo che muore.

Il tha-ybu era balzato in piedi, col viso trasfigurato e gli occhi schizzanti dalle orbite.

– Sciagura! Sciagura! – gridò. – Sun-Pao, sii maledetto!...