La Cortigiana (1525)/Atto terzo/Scena settima
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Pietro Aretino - La Cortigiana (1525)
Atto terzo
Scena settima
Scena settima
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Flaminio e Valerio.
- Valerio
- Tu sei entrato in gran farnetico da mezz’ora in qua; ma se tu me crederai, attenderai a servire.
- Flaminio
- In effetto io son deliberato mutare padrone, perché disse lo spagnolo che gli è meglio perdere che mas perdere. Oimè, quando io penso che quindici anni l’ho servito né mai mangiò né cavalcò ch’io mancassi in servirlo, e non ho niente, e’ mi vien voglia d’annegarmi, e non son però tanto ignorante che fossi gettato via il farmi qualche bene.
- Valerio
- Questo lo causa la Fortuna, la qual s’ha piacere non solamente di fare ch’un signore indugi a fare bene a un servitore, ma di fare un grandissimo Re di Francia prigion senza proposito niuno.
- Flaminio
- Per certo che se i signori volessero, romperebbono questa mala sorte di chi li serve, come fece a questi giorni il nepote d’Ancona, Arcivescovo di Ravenna, che per non esser reuscito un benefizio, che al virtuoso messer Ubaldino aveva dato, tolse mille scudi a interesse e donògnene; e cosí restò guasta la Fortuna.
- Valerio
- Non se ne trova degli Arcivescovi di Ravenna, si non uno, sai?
- Flaminio
- E però voglio irmi con Dio, ch’almeno averò un padrone che mi guarderà in volto una volta el mese e che forse, quand’io gli parlerò, mi risponderà non ch’io sia pazzo e di mia testa, e non m’impegnerò la cappa [e] il saio per cavarme la fame. Odi questa, Valerio: ieri vacò un beneficio che valeva cinquanta scudi. Gli diedi el primo aviso e non volse dirne per me una parola, ma l’ha fatto dare al figliolo de la Sibilla ruffiana.
- Valerio
- I signori vogliono fare a modo loro, essaltare chi li piace e roinare chi li piace. Qui bisogna votarsi a la buona Fortuna e pigliare el meglio che l’omo può, ch’insomma un che sempre serve non ha mai nulla, e [un che] un dí serve il primo giorno è ricco. Né bisogna però disperarse, perché ’l guadagno de la mercanzia cortigiana sta in un punto non aspettato.
- Flaminio
- Sí, ma questo punto non si forma mai per un disgraziato; e forse che quando andai a stare seco le promesse non fur larghe? Per certo che chi avventa e lancia le parole bisogna poi ch’ei faccia volare i fatti. Ma io muterò padrone.
- Valerio
- Dove voi tu ire, adesso, ch’è in disordine tutto il mondo? Se vai a Milano, el Duca sta come Dio vole; a Ferrara, quel principe attende ad altro ch’a fare bella corte; a Napoli non ci son piú li Re; a Urbino el signor è anche fastidioso, in disagio per i passati danni. E credi a me, che quando pate la Corte di Roma, patono gli altri ancora
- Flaminio
- Anderò a Mantoa, dove la eccellenzia del Marchese Federico non nega el pane a niuno et ivi mi tratterrò tanto che Nostro Signore acconci le cose del mondo, non sol d’Italia; e poi ritornerò, ch’io son certissimo che Sua Santità rileverà la virtú come fece Leon suo fratello,
- Valerio
- Riparlimi di qui a poco e farai a modo mio, ché te ne trovarai bene. Loda il padrone, e quando egli è in camera, con donna o ragazzo, di’ che dice l’ufficio, ch’insomma loro vogliono che s’adorino le bone e le triste opere che loro fanno. Tu sei sciolto de la lingua e vivi a la libera, e in questa maniera non piace né incresce se non il vero.
- Flaminio
- Chi fa mal ha bene, Valerio! Pur ti ritroverò e farò quello che meglio mi potrà succedere, benché l’invidia che è sempre visibile per le sale, camere e scale de la Corte, da me non è mai stata veduta. Or pensa s’io son misero; ma l’ho caro, perché non sarò mai causa de la dannazione de l’anima de niuno cortigiano.
- Valerio
- E gli altri hannola vista in te, l’invidia, ché pur dici che ’l padrone fa bene a chi no ’l merita.
- Flaminio
- Io non dico questo per invidia, ma per offendere il poco iudizio suo.
- Valerio
- A Dio!