L'isola misteriosa/Parte terza/Capitolo XX

Parte terza - Capitolo XX

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XX.


Uno scoglio isolato sul Pacifico — L’ultimo rifugio dei coloni dell’isola Lincoln — La morte in prospettiva — Il soccorso inaspettato — Perchè e come giunga.

Uno scoglio isolato, lungo trenta piedi, largo quindici, emergente dieci piedi appena — ecco il solo punto solido che i flutti del Pacifico non avessero invaso.

Era tutto quanto rimaneva del Palazzo di Granito! La muraglia si era capovolta, poi spezzata, ed alcune delle rupi della gran sala si erano ammonticchiate in guisa da formare quel punto culminante.

Tutto era scomparso nell’abisso; il cono inferiore del monte Franklin lacerato dall’esplosione, le mascelle laviche del golfo del Pesce-cane, l’altipiano di Lunga Vista, l’isolotto della Salute, i graniti di Porto Pallone, i basalti della cripta Dakkar, la lunga penisola Serpentina, pur tanto lontana dal centro eruttivo! Dell’isola Lincoln, non si vedeva più che quello stretto scoglio, che serviva allora di rifugio ai sei coloni ed al loro cane Top.

Gli animali erano periti anch’essi nella catastrofe, gli uccelli al pari d’ogni altro rappresentante della fauna dell’isola, schiacciati tutti od annegati; e per fino il disgraziato Jup aveva, ahi! trovato la morte in qualche crepaccio del terreno! [p. 94 modifica]

Se Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert, Pencroff, Nab, Ayrton avevano sopravvissuto, gli è che, riuniti allora sotto la loro tenda, erano stati precipitati in mare, nel momento in cui i rottami dell’isola piovevano d’ogn’intorno.

Quando tornarono alla superficie, più non videro, a mezza gomena di distanza, se non quel cumulo di roccie verso cui nuotarono e su cui posero piede.

Ed era su quella roccia nuda che vivevano da nove giorni! Alcune provviste, messe a parte prima della catastrofe nel magazzino del Palazzo di Granito, un po’ d’acqua dolce che la pioggia aveva versato in un cavo dello scoglio — ecco tutto quanto i disgraziati possedevano.

La loro ultima speranza, la nave, era stata spezzata, e non vedevano mezzo alcuno di lasciare quello scoglio! Non avevano fuoco, nè legna per farne. Erano destinati a perire!

In quel giorno, 18 marzo, non rimanevano più loro che provviste per due giorni, benchè non avessero consumato che lo stretto necessario. Tutta la loro scienza, tutta la loro intelligenza nulla potevano in quelle condizioni. Erano unicamente nelle mani di Dio.

Cyrus Smith era tranquillo. Gedeone Spilett, più nervoso, e Pencroff in preda ad una collera sorda, andavano e venivano su quello scoglio, Harbert non lasciava l’ingegnere e lo guardava come per chiedergli un ajuto che costui non poteva dare. Nab ed Ayrton erano rassegnati alla loro sorte.

— Ah! miseria! miseria! ripeteva spesso Pencroff. Se avessimo non fosse altro che un guscio di noce per condurci all’isola Tabor! Ma niente, niente!

— Il capitano Nemo ha fatto bene a morire! disse una volta Nab. [p. 95 modifica]

Nei cinque giorni successivi, Cyrus Smith ed i suoi disgraziati compagni vissero colla massima parsimonia, non mangiando se non il necessario per non morire di fame; estremo era il loro indebolimento. Harbert e Nab cominciavano a dare qualche segno di delirio.

In queste condizioni potevano essi serbare pur l’ombra d’una speranza? No.

Qual era l’unico loro scampo? Che una nave passasse in vista dello scoglio? Ma tutti ben sapevano per esperienza che i bastimenti non visitavano mai quella parte del Pacifico. Potevano essi far conto che, per una coincidenza veramente provvidenziale, lo yacht scozzese venisse proprio in quel tempo a ricercare Ayrton nell’isola Tabor? Era improbabile, e poi, ammettendo anche ch’esso venisse, siccome i coloni non avevano pensato di deporre una nota che indicasse i mutamenti sopravvenuti nella situazione di Ayrton, il comandante dello yacht, dopo di aver percorso l’isola senza frutto, doveva riprendere il mare e tornare a più basse latitudini.

No, essi non potevano serbare speranza alcuna d’essere salvati, ed una terribile morte, la morte per fame e per sete, li aspettava su quella rupe. Già essi erano distesi sullo scoglio inanimati, senza più la conoscenza di quanto accadeva intorno a loro.

Solo Ayrton con un supremo sforzo risollevava ancora la testa e gettava uno sguardo disperato sul mare deserto,

Ma ecco che nel mattino del 24 marzo le braccia d’Ayrton si protesero verso un punto nello spazio.

....Si risollevò egli, ginocchioni da prima, poi in piedi, e parve fare colla mano un segnale.

Una nave era in vista dello scoglio! Quella nave non correva già alla ventura. Lo scoglio era per lei una meta a cui si dirigeva in linea retta, forzando [p. 96 modifica]

[PAGINA MANCANTE NELLA SCANSIONE, il testo seguente proviene dall'edizione Bemporad 1914]

...a tutto vapore, ed i disgraziati l’avrebbero vista da molte ore, se avessero avuto ancora la forza di osservare l’orizzonte!

— Il Duncan! — mormorò Ayrton, e ricadde senza movimento.

[p. 335 modifica]Il Duncan! mormorò Ayrton.

Vol. VI, pag. 96.