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Se Cyrus Smith, Gedeone Spilett, Harbert, Pencroff, Nab, Ayrton avevano sopravvissuto, gli è che, riuniti allora sotto la loro tenda, erano stati precipitati in mare, nel momento in cui i rottami dell’isola piovevano d’ogn’intorno.

Quando tornarono alla superficie, più non videro, a mezza gomena di distanza, se non quel cumulo di roccie verso cui nuotarono e su cui posero piede.

Ed era su quella roccia nuda che vivevano da nove giorni! Alcune provviste, messe a parte prima della catastrofe nel magazzino del Palazzo di Granito, un po’ d’acqua dolce che la pioggia aveva versato in un cavo dello scoglio — ecco tutto quanto i disgraziati possedevano.

La loro ultima speranza, la nave, era stata spezzata, e non vedevano mezzo alcuno di lasciare quello scoglio! Non avevano fuoco, nè legna per farne. Erano destinati a perire!

In quel giorno, 18 marzo, non rimanevano più loro che provviste per due giorni, benchè non avessero consumato che lo stretto necessario. Tutta la loro scienza, tutta la loro intelligenza nulla potevano in quelle condizioni. Erano unicamente nelle mani di Dio.

Cyrus Smith era tranquillo. Gedeone Spilett, più nervoso, e Pencroff in preda ad una collera sorda, andavano e venivano su quello scoglio, Harbert non lasciava l’ingegnere e lo guardava come per chiedergli un ajuto che costui non poteva dare. Nab ed Ayrton erano rassegnati alla loro sorte.

— Ah! miseria! miseria! ripeteva spesso Pencroff. Se avessimo non fosse altro che un guscio di noce per condurci all’isola Tabor! Ma niente, niente!

— Il capitano Nemo ha fatto bene a morire! disse una volta Nab.