L'eroina di Port Arthur/10. Fra la ghesha e Shima
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10. FRA LA GHESHA E SHIMA
I fari elettrici si erano appena accesi, proiettando i loro fasci di luce azzurrognola verso l'imboccatura dell'avamporto, quando Yamaga e Shima lasciarono il faro dopo aver dato fuoco alla lanterna girante. La fanciulla, per non essere riconosciuta, aveva conservato il costume delle pescatrici cinesi coprendo il capo con un ampio cappello di feltro nero e gettandosi sulle spalle un pesante cappotto di panno grossolano, guernito di pelle di pecora, onde ripararsi dal freddo che era intenso in quell'epoca. La notte era tutt'altro che bella. Un vento gelato, che soffiava dal nord, sibilava fra le scogliere fiancheggianti la rada, travolgendo il nevischio strappato alle vicine colline ed una nebbia pesante calava sul mare avvolgendo a poco a poco la flotta russa, le batterie e la piccola città.
Di quando in quando delle grida d'allarme echeggiavano in lontananza, accompagnate da qualche squillo di tromba, a cui facevano eco le sirene delle corazzate e degli incrociatori, con muggiti prolungati.
Yamaga, tenendosi stretta al braccio la fanciulla, attraversò la prima linea delle batterie basse, rispondendo colla parola d'ordine ai «chi va là» delle sentinelle vigilanti sulle casamatte e sui bastioni e giunse ben presto sulle calate che erano immerse nella più profonda oscurità, essendo tutti i proiettori elettrici volti verso l'avamporto.
Una fila di casette di aspetto piuttosto elegante, a due piani, con giardinetti all'intorno, si stendeva al di là delle linee ferroviarie che erano state collocate per collegare i diversi fortini incaricati della difesa del porto interno. Yamaga, che conosceva a menadito la cittadella, si orizzontò rapidamente, malgrado l'oscurità, e si fermò dinanzi ad una minuscola palazzina che era quasi isolata.
— È questa — disse.
Shima non rispose; il giapponese aveva sentito il suo braccio tremare fortemente.
Alzò gli occhi verso le finestre che erano chiuse, e vide trapelare, attraverso le persiane di una, dei sottili fili di luce.
— La ghesha non si è ancora coricata — mormorò Yamaga. — Lasciate che vada avanti io o non vi aprirebbe di certo.
Con un urto poderoso aprì il cancello del giardino e si accostò alla porta della palazzina alzando e lasciando ricadere fortemente il battente.
Un momento dopo una voce di donna chiese in giapponese chi si cercava.
— Ho da consegnare un biglietto del signor tenente Boris — rispose Yamaga nell'egual lingua. — Aprite, signora.
Un istante dopo la porta fu aperta da Naga istessa, la quale forse si trovava sola.
— È Boris che vi manda? — chiese la ghesha, squadrando il giapponese con aria sospettosa ed alzando la lampada che teneva in mano, per meglio osservarlo.
— Sì, signora — rispose Yamaga, cercando d'inoltrarsi.
— Date.
— Dovete firmare una carta prima e che preme al tenente.
— Entrate.
Attraversarono il vestibolo e Naga lo introdusse in un grazioso gabinetto ammobiliato un po' alla cinese e un po' all'europea, riscaldato da una stufa che spandeva all'intorno un dolce tepore.
— Scusate — disse Yamaga, guardandola fissa. — Quantunque voi indossiate vesti europee, io giurerei che voi siete una mia compatriota. Mi sono ingannato?
— No — rispose freddamente Naga.
— E giurerò anche di avervi veduta nelle case di thè di Yokohama — continuò Yamaga.
— Chi siete voi? — chiese la ghesha che pareva fosse divenuta estremamente diffidente, e guardava il giapponese con una certa apprensione. — Sembrate un cinese e non un mio compatriota.
— No, sono un figlio dell'Impero del Sol Levante e voi siete la ghesha Naga, che tutti ammiravano a Yokohama. Mi sono ingannato?
— Chi siete voi? — chiese la suonatrice con terrore.
— Sarebbe inutile che vi dicessi il mio nome — rispose Yamaga. — Non vi spiegherebbe nulla, anzi avrei tutto da temere, non essendo più voi una suddita dell'Impero e non battendo più il vostro cuore per la patria mia.
La ghesha era diventata bianca come un cencio di bucato ed aveva chinata la testa come fosse stata dolorosamente colpita da quel rimprovero.
— Infine che cosa volete? — chiese dopo un breve silenzio. — Datemi quel biglietto.
— Non ho avuto nulla da quel russo — disse il giapponese, con accento quasi di disprezzo.
— Allora...
— Che me ne vada, è vero, signora, sì dopo...
Si era tratto da parte e sulla soglia era apparsa improvvisamente Shima, cogli occhi sfavillanti ed il volto contratto da una terribile espressione d'odio intenso. Gettò via il cappello e lasciò cadere il pesante cappotto che la rendeva irriconoscibile, dicendo:
— Mi conosci, Naga?
La ghesha aveva fatto quattro o cinque passi indietro, appoggiandosi contro la parete ed aveva mandato un grido di terrore.
— Shima?
— Sì, la figlia del gran daimio di Yokohama, a cui tu hai rubato il fidanzato — disse Yamaga.
La ghesha, passato il primo istante di spavento, aveva fatto atto di accorrere verso la finestra per dare l'allarme. Yamaga, che la sorvegliava, le tagliò rapidamente il passo, poi estratta una rivoltella gliela puntò contro, dicendole con voce minacciosa:
— Al primo grido che mandi, fanciulla, io faccio fuoco. Tu devi ascoltare la figlia del gran daimio.
Naga si era lasciata cadere sulle ginocchia, nascondendosi il volto fra le mani.
— Che mi si uccida — disse.
Shima, che fino allora era rimasta muta, dardeggiando sulla rivale uno sguardo fiammeggiante, aveva fatto alcuni passi innanzi, mettendosi sotto la lampada sospesa al soffitto, che illuminava la stanza.
— Sì — disse con voce tetra — io sono Shima, la figlia del gran daimio di Yokohama, l'ex fidanzata di Boris.
— Prendetevi la mia vita, signora — disse Naga.
— E quando io ti avessi uccisa, credi tu che Boris mi amerebbe? — chiese Shima con accento sdegnoso. — Quell'uomo che ha causato la morte di mio padre, ormai non potrebbe essere più mio sposo, perché fra me e lui vi è un abisso ed un rivo di sangue. Ami quell'uomo?
— Sì — mormorò Naga con un soffio di voce.
— Se ti proponessi di lasciarlo, concedendoti in cambio la vita, che tengo in questo momento nelle mie mani, lo faresti?
La ghesha era rimasta silenziosa.
— Quell'uomo — disse Shima — È un nemico della nostra patria, ormai pronto a trucidare i nostri fratelli appena se ne avrà l'occasione e né io né tu possiamo più amarlo. D'altronde i suoi giorni sono contati e la tua felicità sarebbe ben breve.
— Volete ucciderlo, signora? — esclamò la ghesha guardandola con spavento.
— Quell'uomo è condannato e non sfuggirà alla vendetta di mio fratello.
Naga mandò un gemito.
— Non piangerlo — disse Shima. — Anche se vivesse credi tu che Boris ti amerebbe a lungo? Come ha infranto il mio cuore, infrangerà anche il tuo. Che cosa siamo noi per lui? Delle barbare che gli europei disprezzano e fors'anche deridono.
— Eppure, signora, anche voi un giorno lo avete amato.
— È vero — rispose Shima — l'ho amato con pari intensità, come ora l'odio, eppure non rimpiango affatto che mi abbia dimenticata. Che cosa sarebbe ora di me? Io, figlia di un daimio, sposa di un uomo che appartiene a quella razza maledetta che vorrebbe la nostra distruzione. Mi avrebbero i miei compatrioti maledetta, esecrata e avrei dovuto assistere alla mostruosa lotta che mette oggi, l'un di fronte all'altro, mio fratello e l'uomo che avrebbe dovuto essere mio sposo. Avrei avuto orrore di me stessa e la mia patria mi avrebbe rinnegata.
— Mentre tu, donna, hai lasciata la nostra patria per assistere freddamente al macello dei tuoi compatrioti — aggiunse Yamaga. — Forse che le gheshe del Giappone che hanno cantato le vittorie del nostro paese, non hanno più cuore? Non ti senti fremere, fanciulla, al pensiero che tu bacerai quell'uomo che tornerà colle mani imbrattate del sangue dei tuoi fratelli? Triste esempio che dai tu delle donne del nostro paese.
La ghesha aveva ascoltato quelle parole singhiozzando sordamente. Ad un tratto scattò in piedi, cogli occhi pieni di lagrime, esclamando:
— Sì, sono una miserabile e solo ora mi avvedo dell'orrore della mia posizione. No, signora, anche le povere gheshe del nostro paese amano la loro patria ed io ve ne darò ora la prova.
— Che vuol fare? — le chiese Shima con voce raddolcita.
— Lasciare per sempre questa casa e seppellirmi sotto le rovine di qualche batteria, assieme ai nemici. Io non rivedrò più mai quell'uomo che ormai non potrei amare.
— La tua vita può giovare di più alla patria — disse Yamaga con voce grave.
— In quale modo?
— Rimanendo qui, presso quell'uomo, per carpirgli i segreti. Lui può sapere molte cose che io non potrei conoscere e che comunicate a Togo, il nostro grande ammiraglio, potrebbero dargli in mano la piazza e la squadra russa. Se è vero che anche le gheshe amano la loro patria, tu devi rimanere qui.
— Ed io te ne dò il consenso — disse Shima.
— Non soffrirete, signora, sapendomi vicino a quell'uomo?
— No — disse Shima, soffocando un singhiozzo — perché la nostra patria tutto avrà da guadagnare, quella patria a cui io ho ormai dedicato la mia esistenza.
— La patria! — esclamò la ghesha, con un improvviso slancio d'entusiasmo. — Ed io, donna e figlia dell'Impero del Sol Levante, fino a pochi momenti fa l'avevo dimenticata! Non ricordavo più che l'uomo che avevo seguito era uno di quelli che hanno giurato la distruzione della nostra razza. Sì, ero una miserabile, una donna senza cuore e senza patria. Perdonatemi, signora, d'aver in un momento di follia rinnegata la bandiera dell'Impero del Sol Levante. Doveva la figlia d'un gran daimio ricordarmi che anche le gheshe hanno sangue giapponese nelle vene. Perdonatemi, signora! Perdonatemi!
Shima, profondamente commossa dall'intenso dolore che traspariva dal volto della povera fanciulla, le si era avvicinata ed essendo ricaduta in ginocchio l'aveva rialzata.
— Tu non sei una di quelle donne che noi, figlie dell'alta nobiltà giapponese, guardiamo con disprezzo — le disse con voce dolce. — Qui sul mio petto, Naga!
La ghesha, che singhiozzava senza ritegno, aveva fatto un passo indietro.
— No, signora, io sono una povera figlia del popolo, una donna dispregiata.
— Il pericolo che corre la patria in quest'ora solenne, unisce popolo e nobiltà per la difesa suprema del paese e colma gli abissi che li dividono — disse Shima con voce grave.
Se l'attirò fra le braccia e la baciò sulla fronte, dicendo:
— Per la patria!
Naga aveva mandato un grido.
— La figlia del gran daimio ha baciato la povera ghesha! La mia vita v'appartiene! Prendetemela! Io sono vostra, signora.
— No, è dell'Impero del Sol Levante — rispose Shima.
Yamaga, che appariva pure commosso, si era fatto innanzi.
— Donna — disse — io ammiro la tua fede ed il tuo eroismo e sono fiero che anche le ultime figlie del popolo sentano, al par di noi, l'immenso amor della patria. Giacché la figlia del gran daimio te lo permette, tu rimarrai qui, in questa casa, che è il covo di uno dei nostri nemici, e carpirai a quell'uomo i segreti di cui abbiamo bisogno per la vittoria finale. Giura che tutto ciò che hai detto manterrai e ricordati, ghesha, che anch'io ho donato al mio paese la mia vita e che la mia rivoltella non ti risparmierebbe se tu mancassi ai tuoi impegni.
— Lo giuro su Cusa-no-Cami, il dio della guerra e che Jocubioogami, il dio delle pestilenze m'uccida se io mancherò alla promessa fatta alla figlia del gran daimio di Yokohama — disse Naga.
— Sta bene — rispose Yamaga. — Quando tu potrai ed avrai da comunicarmi qualche notizia che possa essere giovevole ai nostri compatrioti, tu verrai a trovarmi nel faro del porto.
— Ve lo prometto — disse Naga con voce solenne. — La mia vita, al pari di quella della figlia del gran daimio, appartiene ormai alla patria. Il bacio di Shima ha spento per sempre l'amore che io nutrivo per Boris.
— Andiamo, Shima — disse il giapponese. — Odo i fischi delle torpediniere che ritornano.
Stava per accostarsi alla figlia del gran daimio, quando udì la toppa della porta stridere.
Tutti e tre erano diventati pallidissimi.
— Boris che ritorna! — aveva esclamato la ghesha con voce atterrita.
Yamaga aveva levata la rivoltella.
— Devo ucciderlo? — chiese, guardando Shima.
— No... fuggite... lasciatemi sola con lui — rispose la fanciulla. — Prima che mio fratello lo uccida, voglio vederlo. Me lo permetti, Naga?
— Egli è il nemico del nostro paese — rispose la ghesha. — Se volete, uccidetelo, signora: ve l'abbandono.
— No, è mio fratello che deve vendicare mio padre.
— Giacché non volete che io lo sopprima, fuggiamo — disse Yamaga. — Vieni, Naga!
— Seguitemi — rispose la ghesha. — Vi è un'altra uscita che mette nel giardino.
Attraversò velocemente la stanza tenendo per mano il giapponese, e giunta sulla soglia della porta, si era voltata guardando angosciosamente Shima.
— Va' tranquilla — le disse la figlia del gran daimio che aveva compreso quello sguardo. — Il cuore di Shima non batte più.
Poi, mentre la porta si richiudeva senza rumore, s'appressò alla finestra e si nascose dietro le pesanti tende.
Nel medesimo istante Boris entrava chiamando:
— Naga!
Poi indietreggiò col viso smorto, i capelli irti, gli occhi strabuzzati, mandando un grido soffocato.
Shima gli era comparsa, strappando con un gesto nervoso le tende che la nascondevano.