L'epopea della bonifica nel Polesine di San Giorgio/11

Tre protagonisti

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Abbiamo constatato il ruolo capitale assolto, nella realizzazione dell’impianto di Marozzo, da due uomini, Giuseppe Pavanelli e Girolamo Chizzolini. Siccome saranno ancora protagonisti di eventi chiave dell’epopea ferrarese, lo storico che si proponga di definire il profilo dei pionieri di quell’epopea non può assolvere al proposito con pertinenza maggiore che tratteggiando le biografie dei dioscuri del prosciugamento delle Gallare, rappresentanti emblematici della borghesia agraria ottocentesca.

Giuseppe Pavanelli è caratteristica figura di affarista provinciale, la copia ferrarese del siculo mastro don Gesualdo di Verga. L’origine del denaro di cui dispone sono gli appalti, piccoli o piccolissimi appalti: il padre appaltava botteghe comunali. Come don Gesualdo dall’appalto passa all’affitto di terre di grandi proprietari patrizi, di cui, al passo successivo, diviene proprietario. Costruttore, agricoltore, commerciante, il suo frenetico attivismo riesce a fare, in pochi anni, di Migliarino, poche case tra paludi e pascoli palustri, un centro di vitalità economica che si distingue tra i centri vicini. Frutto di una girandola di compravendite fortunate, quando, ricalcando i precedenti di avventurieri famosi, il 2 dicembre 1875 Giuseppe Pavanelli si spara un colpo alla testa, lascia agli eredi un patrimonio che oltre ad una serie di palazzi comprenderà 815 ettari a Migliaro, 286 a Fiscaglia, 160 in località diverse. La sua fortuna ha superato quella dell’omologo personaggio verghiano, di cui non ha atteso, indomito, il malinconico tramonto.

Radicalmente diversa, quella di Chizzolini è figura di rilievo nazionale: ingegnere e grande proprietario nel Mantovano, si trasferisce a Milano, dove firma progetti di grande ambizione, fonda una rivista agricola, L’Italia agricola, che conquista, rapidamente, i titoli della testata agraria più prestigiosa d’Italia, entra, quale consigliere, in un novero incredibile di organismi e comitati. Anche Milano si rivela arena angusta per un uomo dal dinamismo incontenibile, che raggiunge Roma, dove partecipa alla fondazione del primo organismo associativo degli agricoltori italiani, la Società degli agricoltori italiani, e dove viene nominato tra i membri del Consiglio d’agricoltura, il comitato tecnico economico di cui si avvale il Ministro per la valutazione dei problemi che impongano il propriointervento.

Tanto nella direzione della rivista, che cede al Comizio agrario di Piacenza conservando il titolo di condirettore, quanto al vertice della Società agraria quanto, infine, nel Consiglio di agricoltura, l’ingegnere milanese si sposta, per una riunione o un consiglio esecutivo, dalla sede di un organismo a quella di un altro, da Milano a Piacenza a Roma, gli uomini che incontra sono, però, sempre i medesimi, i venti uomini che negli ultimi quattro lustri dell’Ottocento decidono le sorti dell’agricoltura italiana, un manipolo che comprende Enea Cavalieri, Luigi Luzzatti, Giovanni Raineri, Maggiorino Ferraris, Antonio Bizzozero, Emilio Fioruzzi.

A ciascuno di quegli uomini è stata dedicata almeno una biografia, ognuna accuratamente documentata e organicamente compilata. Nessuno dei biografi degli alfieri dell’agricoltura italiana nel crepuscolo dell’Ottocento si è mai chiesto, tuttavia, perché il protagonista della propria indagine partecipasse a una molteplicità di organismi, nei cui consigli incontrava sistematicamente le medesime controparti.

Tra gli organismi i cui consigli riuniscono il manipolo degli alfieri del progresso agricolo il più prestigioso è, indubbiamente, la Federazione italiana dei consorzi agrari, creata a Piacenza nel 1892. La rapidità con cui il sodalizio, concepito in una rapida serie di convegni i cui protagonisti non varcano il numero di dieci, propaga le proprie diramazioni in tutto il Paese, dimostra in modo inequivocabile che i fondatori dispongono di legami funzionali con uomini in grado di orientare l’economia agraria di gran parte delle province italiane. Quei legami non sono, palesemente, legami familiari, non sono legami nobiliari, economici o politici, non possono essere che legami massonici. Alla Federazione italiana dei consorzi agrari Girolamo Chizzolini assicura, con l’Italia agricola, la prima rivista agraria nazionale. Se il vertice della Federazione è costituito da un manipolo di fratelli muratori, idealmente partecipe di quel manipolo, Chizzolini è, palesemente, fratello muratore. Supporre che l’ingegnere milanese sia legato ai vertici massonici della finanza italiana fornisce l’unica spiegazione che rende comprensibile la facilità con cui un progettista il cui patrimonio personale è cospicuo, che non dispone, tuttavia, dei capitali di una banca nazionale, estrae dal cilindro di imprevedibile prestigiatore le cifre necessarie a due delle più impegnative speculazioni fondiarie della storia delle bonifiche italiane.

Se la bonifica del Polesine di San Giorgio registra, alle proprie origini, le gesta di due avventurieri economici, non è improbabile che l’acqua avrebbe riconquistato, nel crepuscolo dell’Ottocento, la terra che le era stata sottratta se un terzo protagonista non avesse assunto, con determinazione e lungimiranza, la guida della Congregazione. Quando, infatti, si rende necessaria la sostituzione delle macchine imposte da Pavanelli e Chizzolini, in conseguenza delle difficoltà economiche dei consorziati, la Congregazione versa nelle più gravi difficoltà finanziarie, incapace persino di pagare i ratei dei mutui in corso: è il marchese Alessandro di Bagno che, assunta la presidenza, riesce a ottenere che la Congregazione fruisca dei benefici della recente legge Baccarini, un’impresa non agevole siccome la legge prevede benefici per opere da realizzare, non per opere già realizzate, possa, quindi, completare le opere in corso di esecuzione e realizzare opere nuove. Se altri ha bonificato, avventurosamente, il Polesine di San Giorgio, è Di Bagno a salvare la bonifica e ad assicurare definitivamente alla coltivazione la terra sottratta alle acque.