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Pietro Rosati 1877 1878 Nicola Taraschi Indice:Rosati, Pietro – Carmina, 1887.djvu Letteratura L’Ornitogonia Intestazione 3 maggio 2023 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Carmina (Rosati)
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L’ORNITOGONIA

o

Le razze de’ canarini.

Come produr dimestici gli alati
Venuti a noi dalle Canarie, chiuse
Dal mar d’Atlante, che sì dolci note
San modular con la flessibil gola,
M’è grato ragionar: di lievi cose
A dir m’accingo, ma non lieve altrui
Diletto ne verrà, se pur natura
Di sue gioconde maraviglie alcuno
Alletti: io con amore, lo confesso,
10A sì blanda fatica or mi sobbarco.

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Al Canarin convien di primavera
Sceglier la stanza; a mio consiglio acconcia
Una celletta fia, cui della casa
Ai tetti col comignol sovrastante
Esposta ai rai del Sol che nasce, il nuovo
Febo al tornar dal balzo d’oriente
Entro meando pei forami aprici
Avvivi di sua luce, e scaldi, e asciughi;
Ov’aprasi più largo l’orizzonte,
Ed in verdi campagne il guardo spazi.20
Con reti in pria le patule finestre
Chiudi sì che sollazzo ai lassi augelli
Gradito fiato v’entri e n’esca, allora
Che più ferve l’ardore. Entro sospendi
Intorno a tale albero i covi, e in bella
Forma disponi le viminee ceste,
Che le dischiuse porticine al lume
Raggiante abbian rivolte, ove potranno
Tesser di stame di cotone i nidi.

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Arborei rami anco troncar potrai30
E locar nel bel mezzo, onde fiscelle
Pendan, che un giorno gravide le madri
Accoglieranno. Indi cannucce stendi,
O di pioppo verghette, ove sicuri
Poggiando eludan del rival l’acuto
Rostro e il furore, o a placida quiete
Pieghino il collo. Aggiungi o pieni truogoli
Di canapuccia, che più loro aggrada,
O granelli di miglio, e guardi il mezzo
Colmi vaselli di salubre linfa.40
Fornita ch’avrai l’opra, è tempo omai,
Poichè il calor dopo sì lunga tregua
Ricerca le midolle, e il noto foco
Commove già la picciolette membra,
Di sprigionar dai claustri i chiusi augei,
E lasciarli a vagar nel nuovo tetto.

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Una un marito o due consorti s’abbia,
Basta d’un anno, ed ogni studio poni
A sceglier madri valide, e focoso
Padre d’ottime forme: a lunghe gambe50
Affidi il corpo, e tondo surga il capo
Sul sottil collo; stringere alle coste
Uso le piume rilucenti, ed uso
Con forte canto lacerar gli orecchi.
Non abbia membro ch’egli tenga fermo
E in tutte parti volgasi. Por mente
Anche al colore fia mestieri, quinci
Il valor della prole: un ch’abbia il corpo
Maculato rigetta, o cui deformi
Note bruttino il tergo o il petto; il verde60
È da meno, peggiore il gilbo e il bianco.
Il più bel Canarino è il croceo, vago

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Per sulfureo colore, a quel simile
Che a l’appressar del sol veste l’aurora,
Quando dal letto di Titone uscita
In rance muta le vermiglie gote.
Questi ha gran pregio, e di siffatto sangue
Concetti i figli delle piume il vanto
E il cor del padre avran. Che se il bel collo,
Benchè cerulo il corpo, abbia d’aurato70
Monile adorno, o se fulve le membra
Verdi abbia l’ale e il capo, io rigettarlo
Non oserò, sol che di vivo solfo
Il corpo in tutto il resto si colori.
Mai non di manco per le patrie selve
Augelli sparti di sì vaghe tinte
Non vide svolazzar l’abitatore
Dell’Oceàno. Il gilbo, a cui piuttosto
Fosche son l’ali e il tergo, e semiverde
Il petto e i fianchi, in ogni terra aleggia.80

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Ma posciachè oltra gli erculei segni,
Le natie piaggie abbandonano alcuni
Passar, varcando, pel ceruleo piano
Ai confini d’Ausonia, ed ai lontani
Regni d’Europa, il pristino colore
Cangiando, apparver di novel dipinti.
Narrasi che d’aligeri canori
Carca una nave dall’esperio lido
All’onda tosca, da furioso noto
Spinta, giungnesse. E già dall’alto sale90
Discernevan le chiuse acque liburne
E le torri i nocchieri, e i colti, dove
Discorre l’Arno con volubil giro;
Quand’ecco scossa da nemici venti
Gonfiasi l’onda, e dal furor percosso
Della procella il curvo pino ondeggia.

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Ora al cielo è sospinto, or giù nell’imo
Del mar travolto. Senza indugio e tregua
L’austro imperversa e stride, e il flutto fiede
Il legno sì che n’è sdruscito, infrante100
Le travi. Allora, oh meraviglia! rotte
Le gabbie, sovra lo spumoso piano,
Ove il pino s’affonda, al ciel fu vista
Una nube d’augei levarsi, acute
Strida mettendo, e ricercando indarno
Il proprio tetto. Volano, rivolano
Senza posa, finchè l’Itala terra,
Sola salvezza e più vicina, appare.
Schiera gareggian guadagnar la riva110
Con le veloci penne. Ivi la nuova
Si sparge, e di fanciulli al lido accorre
Un brulicame, di chiappar gli stanchi
Cadenti augei prendendosi delizia,

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E nelle gabbie imprigionarli. E poscia
Che fur d’esca satolli, ed ogni tema
Ebber deposta, come prima ai lassi
Tornò la lena, modular sì dolci
Gorgheggi, che ne fur l’alme commosse.
Ne fur presi anco i Regi, e gli ospitali120
Palagi risonar d’assiduo canto.
Così venner gli alati in fama, e quinci
Nacque la brama d’arricchir con nuovi
Felici imeni la canora stirpe.
Al peregrino uccel fu dispostato
Il natio del paese, e di tal misto
Sangue concetti i figli, il primitivo
Color cangiaro, e come al nuovo cielo
Lo stranio s’adusò, l’Italia vide
Le verdi piume tramutarsi in rance.130

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Or colà, dove la famiglia alata
Pronuba fiamma accende, ire è giocondo
A rivedere gli operosi alberghi.
Non odi qual concento in sul mattino,
Allor che il sole intepidendo alluma
La casarella, al ciel s’estolle? Misto
Dei maschi alla melode è il susurrio
Delle madri festanti, affaccendate
A costrur nidi, o a gareggiar col rostro
In portar lievi paglie, o molli piume,140
Stami di stoppa, o di cotone bioccoli.
Non restan mai, ed ora al proprio nido
Vola ciascuna, e in mezzo accovacciata
Sè intorno a sè volge e rivolge, forma
Onde acquistin gli strati, e all’opra invita
Con lascive carezze il fido sposo;
Quando ratta partirsi, e con assiduo
Lavor gire e tornar la vedi, al covo

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Nuove paglie arrecando, insin che veggi
Del nido all’uscio pesola una chioma150
Che sicura la scorga al dolce nido,
Se al ver m’appongo. E già s’acquieta il tetto
Dal vario cinguettar, tace, e la madre
Preme alfin le deposte uova. Sgravarsi
Di quattro o cinque, e immobile posata
Al nido poscia riscaldarle suole
Quindici dì, sol di ciò gode, ogni altra
Cura obliando, e fin lo stesso cibo.
Non sì lo sposo, a cui poltrir natura
Non consente, e a membrar la fida sposa160
E a recar la dolc’esca con acuti
Stimoli il punge. Ed ei poichè d’opime
Dapi ripieno ha il gozzo, a lei veloce
Riede, ed il becco unendo al becco, quale

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Chi rece suole, o qual chi mollemente
Baci liba, con rapido v’infonde
Sforzo il gradito pasto. Ella l’accoglie
Dalla diletta bocca, e il gaudio, l’ale
Tremolando, gli pande con leggiero
Susurro. Indi ei lontan vola, e poggiando170
Sovra una frasca, con crescente canto
Il lavor lungo dell’amica alleggia.
Ma se di madre crocea ti piace
Aver prole bastarda, a stento d’altri
Augei giovarti tu potrai, stringendo
Vietati nodi, che non mai l’antica
Salvatichezza smetteran, quand’anche
Piccini ai nidi gl’involassi, e mai
Non potrai mansuefarli. Un solo uccello
Docile v’ha, cui l’aspro cardo il nome180
Diè, (dalle spine lo nomaro i Greci

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Perchè ne pasce avido i semi) bello
Pel porporino capo, e per le fulve
Penne. Fa di cercarne per l’estreme
Cime assai pria, dove suol porlo, il nido
Nella stagione, che Sirio dissecca
L’erba, o quando nei campi il capo aderge
Ricco di poma autunno, chè cotanto
Tarda l’ultima cova. E come prima
In piuma li vedrai, la nidiata190
Col nido togli, che di musco è intesto
E di molle lanugine, e li ciba
Di tuorli d’uovo, in lor bocchine il molle
Pasto con penna introducendo. Allora
Come adulti saran, vegeto il maschio
Eleggi, che pinocchi in copia pasca,
Sforzandosi dai labbri e dalle dita

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Carpir col rostro il bocconcel gradito.
Con tal’arte vid’io mirabilmente
Mansueti gli augei crescer, sì destri200
L’aspetto uman, nè paventan presi
La mano che li stringe, e, tanto puote
Dei pinocchi il desio, che scarcerati
Non fuggon, ma seguir godon dal mastro
I passi, o sopra l’omero posarsi.
A felice consorte un tal marito,
Futuro genitor d’eletta prola,
D’unir procura; e poi che l’iémale
Rigor cessò, solinghi imprigionati210
In gabbie, chiuse in segregato loco
Sien posti, onde più presto amor l’invogli.
Pria d’aggiogarli non di manco i chiostri
Vicino devi l’un di contra all’altro
Locar, perchè la femina lusinghi

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Di sua vista lo sposo, ed ambo sperti
Del dissimile imen, la conjugale
Vita anelino. Allor giunto il bramato
Tempo, liber dai lacci infuria caldo
D’immoderata fiamma. Indarno ahi! tenta220
Dal becco acuto del marito l’uova
Salvar con l’ali la consorte, tanta
Foga lo spinge a traforarne il guscio.
Onde ciò non avvenga il nido guarda,
Non ti gravi fatica, a rivederlo
Va quando sorge e quando cade il giorno;
Nè restar pria ch’abbi in riposta parte
Serbate l’uova, che con curvo ordigno
Raccogliesti, finchè non giunga il tempo
Di riscaldarle. Allor togli il marito230
E stretto se ne stia benchè cruccioso
In solinga prigion, mentre la madre

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Sicura dai suoi schermi, i fecondati
Germi covando, bella prole schiuda
Maravigliando del rossigno capo,
De le tornite membra e de la voce
Che a piena gola manda fuor dal petto.
E già sen venne il disiato giorno:
Dal nido un pigolio s’ode uscir fuora
Sottilissimo; ascendono anelanti240
Fanciulli e donzellette, e delle ceste
Nelle fessure per veder gli occhiuzzi
Tentan ficcare avidamente. In questa
Della madre al volar s’erge dal guscio
Il nuovo implume, ed agitando il collo
Apre la rosea bocca, a simiglianza
Di vermiglio fiorel, che in sul mattino

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Levi dal prato rugiandoso il capo.
Lieti tosto sen vanno, e la magione
Di schiamazzo risuona. Evviva, evviva250
Nato è il rampollo della nuova gente!
Poi dansi briga d’apparar le prime
Dapi; col semolino la scheruola,
E misto a tuorlo d’uovo umido pane
Cercan. Veloci all’uccelliera il passo
Volgon senza ristar, recando seco
In piene tazze il nutrimento. Poscia,
Ritratto il piè, dopo le chiuse porte
Sul limitar s’acquattano furtivi
Tacitamente, per goder del nuovo260
Ludo dagli spiragli. E d’ogni parte
L’alata schiera già dai disiati
Nidi volando, e genitrici e padri
Pugnan per l’esca. Indi ripieno il gozzo

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Di tal cibrëo ai tenerelli nati
Dann’alimento, l’uno all’altro in bocca
Con vario schiamazzar ponendo il rostro:
D’un lieve susurrio strepe il ridotto.
Tali del Canarin sono i lavori,
Tali le cure; tanto in esso puote270
Della prole l’amor! Ma ohi quante volte
Vana l’opra tornar suole, se morbo
Appiccaticcio la covata a morte
Danna, compiendo miseranda strage.
Dei tenerelli aspetti ecco la casa
Vedova piange, nè il pulcin più s’ode
Dagli alti nidi pigolare; indarno
Gementi i genitor volano, il cibo
A lui recando, o di lor penne ad esso
Facendo scudo. Sovra i molli strati280
Lordati bruttamente ei muore; l’unghie

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Della vicina morte apportatrice
Copre la pallidezza, e si scolora
La rosea bocca, il collo aggrinza, il gelo
Solve le membra, e gonfiasi solcata
Da negre vene l’epa. A cotal morbo
Tiepido latte arrecar suol medela,
Ma nulla speme di salvezza allieta
L’arte assai spesso. Nè soltanto implumi
Ma adulti ancor la scabbia li tormenta:290
Piagato il corpo turpemente, l’ossa
Entra il mortal veneno, e se lor tosto
Di Pallade il liquor tu non appresti,
O il balsamo, morran. Spesso le madri
Il crudel morbo assale, o le travaglia
Quando depongon l’uova, assai fatica

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Durando, e se d’olio salubre il parto
Non agevoli, e leni il dolor fiero
Sul cominciare, ugnendole con piuma
Oliata, fien spente. A poco a poco300
Dimagransi talora, orribil lue
Onde a stento guarir potrà taluna.
Più dell’usato increspansi le piume,
Mentre l’alvo si strigne, ed a fatica
Ponno il ventre alleviare, il petto anelo
Ognor balza frequente, e i mesti occhiuzzi
Affatica la febbre. E non di manco
Benchè infiacchiti, mai l’insana voglia
Non langue in lor di manicare, e ai pieni
Truoghi posati a divorar granelli,310
Come tosto lor torna ingrato il gusto,
Di qua di là spargon col rostro i semi.

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Perchè il lieto ricetto il mal non turbi
Gioverà pria guardarsi, e sì la bieta
Salubre al corpo grave, e sì nell’onda
Immersa laminetta, o della seppia
Il candid’osso alla parete appeso,
Od il zucchero approda; assai più monta
Spesso il pasto cangiar (nullo di questo
Miglior rimedio v’ha); ma come prima320
Annunziator della vicina peste
Il languore verrà, non esser tardo
Ad appor loro di lattuga, o delle
Recenti erbette i saporosi semi.
Fra le gramigne una ve n’ha, di cui
Ai pennuti niun seme è più gradito;
Centocchio ha nome, che i chiomati rami
Largamente nel suol spande, e le branche
Stende all’intorno; in le umidicce terre

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Cresce spontanea, rigogliosa. D’essa330
Son disiosi, chè cotanto è ghiotta,
Che lasciando l’altr’erbe, delle foglie,
Pasciuto il fior, si cibano, e del cespo
Tessonsi il nido. Tu svelli tal pianta
Dai pingui orti ove abbonda, ed in gran copia
Entro ai recinti, all’egre cibo, spargi.
Ma a quali segni tu distinguer possa
La femmina dal maschio, allor che adulti
Sien fatti, or’io t’insegnerò. Volgare
È fama che la femmina men bella340
Tinta colori; picciola la testa,
Più corto ha il corpo e il collo, e parimente
Le gambe, simigliante nell’aspetto
Alla sua genitrice, a cui più chiare
O splendere nel petto a mo’ dipinta
Fava le piume, ovver di maculose
Note le tempia varïar vedrai.
Che se quando la voce incolta al canto

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Scioglie, le prime prove ad ora ad ora
Interrompe, sicuro indizio fia350
Ch’ella è femina. In vista il maschio fulge
Di venustà, assai belle ha le forme,
E al padre similissime le membra.
Allor ch’apre la gola alla continua
Canzon, del collo increspansi le piume.
Ove più forte il patassìo s’ascolta,
Alto ei risponde; il ciel s’empie di bussi,
E delle voci lo stridore assorda
Gli orecchi. Tal costume ha lor natura
Dato, cui tuttavia piegar potrai360
Con l’arte, ed ammollir fin dai primi anni
Con assiduo lavor; chè il dolce suono
Dell’organino imitar sanno, e il grato
Carme dei vari garruli augelletti
Cardellino, fringuello e lucherino
E filomena, che lamenta al rezzo.

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Forse ai soggiorni, che felici i vati
Chiamaro un dì, da tai canori augelli
Il nome venne (benchè fama è ch’essi
Così dai cani fossero nomati);370
Chè ognor di canto l’aer suona, ognora
Volan gli augei per l’odorate selve,
E di lieti gorgheggi il loco tutto
Empion beati, e l’anime pietose
Con incantevol melodia molcendo
Van dei defunti. Or’io chè bramo i fiumi,
E le selve, e le siepi, e l’onda, a cui
Da presso lene col soave canto
L’insonne augello il petto? Ognor gradito
A me del rosignuol l’emulo fia,380
Che viene a noi dalle Canarie, cinte
Dal mar d’Atlante, e che sì dolci note
Prigioniero temprando, i gravi studi,
E le ingenue dell’uom fatiche alleggia.