Italia e Grecia/Telegramma a Canzio
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Telegramma a Canzio
Alla solenne affermazione che dal cuore di Genova si alza con altissimo grido dell’anima d’Italia, slanciantesi con devozione di figlia fra le offese matricide e il caro seno materno, avrei voluto recare il povero tributo del poeta che consacrava alla Grecia e ai suoi eroi i carmi e gli entusiasmi giovanili. L’ora prosaica incalzante me ne distoglie, e non mi lascia se non mandarti un augurio: che — sedendo tu, auspice di queste ansie del pensiero italiano benedicente alla sacra fonte da cui ebbe sua luce — aleggi su esse lo spirito del Grande da cui ereditasti negli affetti del sangue le alte visioni e le audacie.
Scrivo avendo dinanzi il commovente saluto che il generale mi mandò da Caprera pel giovinetto eroe Deconturbia, caduto combattendo per la causa greca: e il saluto era voce di benedizione pel padre, confortantelo ad essere superbo nel dolore che l’additava alla gratitudine universale per avere all’unico figlio inspirato un culto gentile suggellato col sangue. Se l’eroe di Caprera oggi parlasse, la sua voce benedirebbe ugualmente quanti cuori italiani — in questa ora bella di idealità risorte che ci compensano di molte viltà — sentono ancora la sacra poesia che guidò i passi di Santarosa, che spinse da Quarto gli Argonauti al mare.
Oggi che altri mille solcarono le onde per lo stesso diritto e per la stessa idea, volino alle loro bandiere, come 7 anni or sono, le speranze e gli auguri delle genti civili. E intorno ad esse, come allora, formino anche oggi difesa. Ma giusto è che su tutto si alzi la voce del popolo italiano e dica:
Questa poesia che fu mia gloria, non permetterò che diventi mio rimorso e disonore.