Istorie fiorentine/Libro terzo/Capitolo 11

Libro terzo

Capitolo 11

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Non di meno non si aprivono le botteghe, e i cittadini non posavano le armi, e guardie grandi per tutta la città si facevano; per la qual cosa i Signori non presono il magistrato fuora del Palagio, con la solita pompa, ma dentro, sanza osservare alcuna cerimonia. Questi Signori giudicorono niuna cosa essere più utile da farsi, nel principio del loro magistrato, che pacificare la città; e però feciono posare le armi, aprire le botteghe, partire di Firenze molti del contado stati chiamati da’ cittadini in loro favore; ordinorono in di molti luoghi della città guardie: di modo che, se gli ammuniti si fussero potuti quietare, la città si sarebbe quietata. Ma eglino non erano contenti di aspettare tre anni a riavere gli onori; tanto che, a loro sodisfazione, le Arti di nuovo si ragunorono e ai Signori domandorono che, per bene e quiete della città, ordinassero che qualunque cittadino, in qualunque tempo, de’ Signori, di Collegio, Capitano di parte, o Consolo di qualunque Arte fusse stato, non potesse essere ammunito per ghibellino; e di più, che nuove imborsazioni nella parte guelfa si facessero, e le fatte si ardessero. Queste domande, non solamente dai Signori, ma subito da tutti i Consigli furono accettate; per il che parve che i tumulti, che già di nuovo erano mossi, si fermassero. Ma perché agli uomini non basta ricuperare il loro, che vogliono occupare quello d’altri e vendicarsi, quelli che speravano ne’ disordini mostravano agli artefici che non sarebbono mai sicuri, se molti loro nimici non erano cacciati e destrutti. Le quali cose presentendo i Signori, feciono venire avanti a loro i magistrati delle Arti insieme con i loro sindachi; ai quali Luigi Guicciardini gonfaloniere parlò in questa forma: - Se questi Signori, e io insieme con loro, non avessimo, buon tempo è, cognosciuta la fortuna di questa città, la quale fa che, fornite le guerre di fuora, quelle di dentro cominciono, noi ci saremmo più maravigliati de’ tumulti seguiti, e più ci arebbono arrecato dispiacere. Ma perché le cose consuete portono seco minori affanni, noi abbiamo i passati romori con pazienza sopportati, sendo massimamente senza nostra colpa incominciati, e sperando quelli, secondo lo esemplo de’ passati, dovere avere qualche volta fine, avendovi di tante e sì gravi domande compiaciuti; ma presentendo come voi non quietate, anzi volete che a’ vostri cittadini nuove ingiurie si faccino, e con nuovi esili si condannino, cresce, con la disonestà vostra, il dispiacere nostro. E veramente, se noi avessimo creduto che, ne’ tempi del nostro magistrato, la nostra città, o per contrapporci a voi o per compiacervi, avesse a rovinare, noi aremmo con la fuga o con lo esilio fuggito questi onori; ma sperando avere a convenire con uomini che avessero in loro qualche umanità, e alla loro patria qualche amore, prendemmo il magistrato volentieri, credendo, con la nostra umanità, vincere in ogni modo l’ambizione vostra. Ma noi vediamo ora per esperienza che quanto più umilmente ci portiamo, quanto più vi concediamo, tanto più insuperbite, e più disoneste cose comandate. E se noi parliamo così, non facciamo per offendervi, ma per farvi ravvedere; perché noi vogliamo che uno altro vi dica quello che vi piace, noi vogliamo dirvi quello che vi sia utile. Diteci, per vostra fe’, qual cosa è quella che voi possiate onestamente più desiderare da noi? Voi avete voluto torre l’autorità a’ Capitani di parte: la si è tolta; voi avete voluto che si ardino le loro borse e faccinsi nuove riforme: noi l’abbiamo acconsentito; voi volesti che gli ammuniti ritornassero negli onori: e si è permesso; noi, per i prieghi vostri, a chi ha arse le case e spogliate le chiese abbiamo perdonato, e si sono mandati in esilio tanti onorati e potenti cittadini, per sodisfarvi; i Grandi, a contemplazione vostra, si sono con nuovi ordini raffrenati. Che fine aranno queste vostre domande, o quanto tempo userete voi male la liberalità nostra? Non vedete voi che noi sopportiamo con più pazienza lo esser vinti, che voi la vittoria? A che condurranno queste vostre disunioni questa vostra città? Non vi ricordate voi, che quando l’è stata disunita, Castruccio, un vile cittadino lucchese, l’ha battuta? un Duca di Atene, privato condottiere vostro, l’ha subiugata? Ma quando la è stata unita, non l’ha potuta superare uno Arcivescovo di Milano e uno Papa; i quali, dopo tanti anni di guerra, sono rimasi con vergogna. Perché volete voi adunque che le vostre discordie quella città, nella pace, faccino serva, la quale tanti nimici potenti hanno, nella guerra, lasciata libera? Che trarrete voi delle disunioni vostre, altro che servitù? o de’ beni che voi ci avete rubati o rubasse, altro che povertà? perché sono quelli che, con le industrie nostre, nutriscono tutta la città; de’ quali sendone spogliati, non potreno nutrirla; e quelli che gli aranno occupati, come cosa male acquistata, non gli sapranno perservare: donde ne seguirà la fame e la povertà della città. Io e questi Signori vi comandiamo, e, se la onestà lo consente, vi preghiamo, che voi fermiate, una volta, lo animo; e siate contenti stare quieti a quelle cose che per noi si sono ordinate; e quando pure ne volesse alcuna di nuovo, vogliate civilmente, e non con tumulto e con le armi, domandarle, perché, quando le sieno oneste, sempre ne sarete compiaciuti, e non darete occasione a malvagi uomini, con vostro carico e danno, sotto le spalle vostre, di rovinare la patria vostra -. Queste parole, perché erano vere, commossono assai gli animi di quelli cittadini; e umanamente ringraziorono il Gonfaloniere di avere fatto l’ufficio con loro di buon Signore e con la città di buono cittadino, offerendosi essere presti ad ubbidire a quanto era stato loro commesso. E i Signori, per darne loro cagione, deputorono duoi cittadini per qualunque de’ maggiori magistrati, i quali, insieme con i sindachi delle Arti, praticassero se alcuna cosa fusse da riformare a quiete comune, e ai Signori la referissero.