Istorie fiorentine/Libro settimo/Capitolo 6

Libro settimo

Capitolo 6

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Nacque nel 1389, il giorno di Santo Cosimo e Damiano. Ebbe la sua prima età piena di travagli, come lo esilio, la cattura, i pericoli di morte dimostrano; e da il concilio di Gostanza, dove era ito con papa Giovanni, dopo la rovina di quello, per campare la vita, gli convenne fuggire travestito. Ma passati i quaranta anni della sua età, visse felicissimo, tanto che, non solo quelli che si accostorono a lui nelle imprese publiche, ma quelli ancora che i suoi tesori per tutta la Europa amministravano della felicità sua participorono: da che molte eccessive ricchezze in molte famiglie di Firenze nacquono, come avvenne in quella de’ Tornabuoni, de’ Benci, de’ Portinari e de’ Sassetti; e dopo questi, tutti quelli che da il consiglio e fortuna sua dependevono arricchirono: talmente che, ben che negli edifizi de’ templi e nelle limosine egli spendesse continuamente, si doleva qualche volta con gli amici che mai aveva potuto spendere tanto in onore di Dio che lo trovassi ne’ suoi libri debitore. Fu di comunale grandezza, di colore ulivigno e di presenza venerabile. Fu sanza dottrina, ma eloquentissimo e ripieno d’una naturale prudenza; e per ciò era officioso nelli amici, misericordioso ne’ poveri, nelle conversazione utile, ne’ consigli cauto, nelle esecuzioni presto, e ne’ suoi detti e risposte era arguto e grave. Mandogli messer Rinaldo degli Albizi, ne’ primi tempi del suo esilio a dire che la gallina covava, a cui Cosimo rispose che la poteva mal covare fuora del nidio, e ad altri ribelli, che li feciono intendere che non dormivano disse che lo credeva, avendo cavato loro il sonno. Disse di papa Pio, quando e’ citava i principi per la impresa contro al Turco, che gli era vecchio e faceva una impresa da giovani. Agli oratori viniziani, i quali vennono a Firenze insieme con quelli del re Alfonso a dolersi della republica, mostrò il capo scoperto, e dimandolli di qual colore fusse; al quale risposono: - Bianco, - ed egli allora soggiunse: - E’ non passerà gran tempo che i vostri senatori lo aranno bianco come io. - Domandandogli la moglie, poche ore avanti la morte, perché tenesse gli occhi chiusi, rispose: - Per avvezzargli. - Dicendogli alcuni cittadini, dopo la sua tornata dallo esilio, che si guastava la città e facevasi contro a Dio a cacciare di quella tanti uomini da bene, rispose come gli era meglio città guasta che perduta; e come due canne di panno rosato facevono uno uomo da bene; e che gli stati non si tenevono co’ paternostri in mano: le quali voci dettono materia a’ nimici di calunniarlo, come uomo che amasse più se medesimo che la patria, e più questo mondo che quell’altro. Potrebbonsi riferire molti altri suoi detti, i quali, come non necessari, si ommetteranno. Fu ancora Cosimo degli uomini litterati amatore ed esaltatore; e per ciò condusse in Firenze lo Argilopolo, uomo di nazione greca e in quelli tempi litteratissimo, acciò che da quello la gioventù fiorentina la lingua greca e l’altre sue dottrine potesse apprendere; nutrì nelle sue case Marsilio Ficino, secondo padre della platonica filosofia, il quale sommamente amò; e perché potesse più commodamente seguire gli studi delle lettere, e per poterlo con più sua commodità usare, una possessione propinqua alla sua di Careggi gli donò. Questa sua prudenza adunque, queste sue ricchezze, modo di vivere e fortuna, lo feciono, a Firenze, da’ cittadini temere e amare, e dai principi, non solo di Italia, ma di tutta la Europa, maravigliosamente stimare. Donde che lasciò tale fondamento a’ suoi posteri che poterono con la virtù pareggiarlo e con la fortuna di gran lunga superarlo, e quella autorità che Cosimo ebbe in Firenze, non solo in quella città, ma in tutta la cristianità averla. Non di meno negli ultimi tempi della sua vita sentì gravissimi dispiaceri; perché de’ duoi figliuoli che gli ebbe, Piero e Giovanni, questo morì in nel quale egli più confidava, quell’altro era infermo e, per la debilezza del corpo, poco atto alle publiche e alle private faccende. Di modo che, faccendosi portare, dopo la morte del figliuolo, per la casa, disse sospirando: - Questa è troppa gran casa a sì poca famiglia. - Angustiava ancora la grandezza dello animo suo non gli parere di avere accresciuto lo imperio fiorentino d’uno acquisto onorevole; e tanto più se ne doleva, quanto gli pareva essere stato da Francesco Sforza ingannato; il quale, mentre era conte, gli aveva promesso, comunque si fusse insignorito di Milano, di fare la impresa di Lucca per i Fiorentini. Il che non successe, perché quel conte con la fortuna mutò pensiero, e diventato duca, volle godersi quello stato colla pace che si aveva acquistato con la guerra; e per ciò non volle né a Cosimo né ad alcuno altro di alcuna impresa sodisfare; né fece, poi che fu duca, altre guerre che quelle che fu per difendersi necessitato. Il che fu di noia grandissima a Cosimo cagione, parendogli avere durato fatica e speso per fare grande uno uomo ingrato e infedele. Parevagli, oltre a di questo, per la infirmità del corpo, non potere nelle faccende publiche e private porre l’antica diligenza sua; di qualità che l’una e l’altra vedeva rovinare, perché la città era distrutta da’ cittadini, e le sustanze da’ ministri e da’ figliuoli. Tutte queste cose gli feciono passare gli ultimi tempi della sua vita inquieti. Non di meno morì pieno di gloria, e con grandissimo nome nella città e fuori. Tutti i cittadini e tutti i principi cristiani si dolfono con Piero suo figliuolo della sua morte, e fu con pompa grandissima da tutti i cittadini alla sepultura accompagnato, e nel tempio di San Lorenzo sepellito, e per publico decreto sopra la sepultura sua PADRE DELLA PATRIA nominato. Se io, scrivendo le cose fatte da Cosimo, ho imitato quelli che scrivono le vite de’ principi, non quelli che scrivono le universali istorie, non ne prenda alcuno ammirazione, perché, essendo stato uomo raro nella nostra città, io sono stato necessitato con modo estraordinario lodarlo.