Istorie fiorentine/Libro settimo/Capitolo 5

Libro settimo

Capitolo 5

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Ma Firenze seguitò nelle disunioni e ne’ travagli suoi. Cominciò la disunione nella parte di Cosimo nel ’55, per le cagioni dette, le quali per la prudenza sua, come abbiamo narrato, per allora si posorono. Ma venuto l’anno ’64, Cosimo riaggravò nel male, di qualità che passò di questa vita. Dolfonsi della morte sua gli amici e i nimici; perché quelli che per cagione dello stato non lo amavano, veggendo quale era stata la rapacità de’ cittadini vivente lui, la cui reverenza gli faceva meno insopportabili, dubitavano, mancato quello, non essere al tutto rovinati e distrutti; e in Piero suo figliuolo non confidavano molto, perché, non ostante che fusse uomo buono, non di meno giudicavano che, per essere ancora lui infermo e nuovo nello stato, fusse necessitato ad avere loro rispetto, talché quelli, sanza freno in bocca, potessero essere più strabocchevoli nelle rapacità loro. Lasciò per tanto di sé in ciascuno grandissimo desiderio. Fu Cosimo il più reputato e nomato cittadino, di uomo disarmato, che avesse mai, non solamente Firenze, ma alcuna altra città di che si abbia memoria perché, non solamente superò ogni altro de’ tempi suoi d’autorità e di ricchezze, ma ancora di liberalità e di prudenza; perché intra tutte le altre qualità che lo feciono principe nella sua patria fu lo essere sopra tutti gli altri uomini liberale e magnifico. Apparve la sua liberalità molto più dopo la sua morte, quando Piero, suo figliuolo, volle le sue sustanze ricognoscere, perché non era cittadino alcuno che avesse nella città alcuna qualità, a chi Cosimo grossa somma di danari non avesse prestata, e molte volte, sanza essere richiesto, quando intendeva la necessità d’uno uomo nobile, lo suvveniva. Apparve la sua magnificenzia nella copia degli edifizi da lui edificati; perché in Firenze i conventi e i templi di San Marco e di San Lorenzo e il munistero di Santa Verdiana, e ne’ monti di Fiesole San Girolamo e la Badia, e nel Mugello un tempio de’ frati minori non solamente instaurò, ma da e fondamenti di nuovo edificò. Oltra di questo, in Santa Croce, ne’ Servi, negli Angioli, in San Miniato, fece fare altari e cappelle splendidissime; i quali templi e cappelle, oltre allo edificare, riempié di paramenti e d’ogni cosa necessaria allo ornamento del divino culto. A questi sacri edifizi si aggiunsono le private sue case; le quali sono, una nella città, di quello essere che a tanto cittadino si conveniva; quattro di fuora, a Careggi, a Fiesole, a Cafaggiuolo e al Trebbio: tutti palagi, non da privati cittadini, ma regii. E perché nella magnificenzia degli edifizi non gli bastava essere cognosciuto in Italia, edificò ancora in Ierusalem un recettaculo per i poveri e infermi peregrini; nelle quali edificazioni uno numero grandissimo di danari consumò. E benché queste abitazioni e tutte le altre opere e azioni sue fussero regie, e che solo, in Firenze, fusse principe, non di meno tanto fu temperato dalla prudenza sua, che mai la civile modestia non trapassò: perché nelle conversazioni, ne’ servidori, nel cavalcare, in tutto il modo del vivere, e ne’ parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto cittadino; perché sapeva come le cose estraordinarie che a ogni ora si veggono e appariscono recono molto più invidia agli uomini, che quelle che sono in fatto e con onestà si ricuoprono. Avendo per tanto a dare moglie a’ suoi figliuoli, non cercò i parentadi de’ principi, ma con Giovanni la Cornelia degli Alessandri e con Piero la Lucrezia de’ Tornabuoni congiunse; e delle nipoti nate di Piero la Bianca a Guglielmo de’ Pazzi, e la Nannina a Bernardo Rucellai sposò. Degli stati de’ principi e civili governi niuno altro al suo tempo per intelligenza lo raggiunse: di qui nacque che in tanta varietà di fortuna, e in sì varia città e volubile cittadinanza, tenne uno stato trentuno anno; perché, sendo prudentissimo, cognosceva i mali discosto e per ciò era a tempo, o a non li lasciare crescere, o a prepararsi in modo che cresciuti, non lo offendessero: donde non solamente vinse la domestica e civile ambizione, ma quella di molti principi superò con tanta felicità e prudenza che qualunque seco e colla sua patria si collegava, rimaneva o pari o superiore al nimico, e qualunque se gli opponeva, o e’ perdeva il tempo e’ denari, o lo stato. Di che ne possono rendere buona testimonianza i Viniziani; i quali, con quello, contro al duca Filippo sempre furono superiori, e disiunti da lui, sempre furono, e da Filippo prima, e da Francesco poi, vinti e battuti; e quando con Alfonso contro alla republica di Firenze si collegorono, Cosimo con il credito suo vacuò Napoli e Vinegia di danari in modo che furono constretti a prendere quella pace che fu voluta concedere loro. Delle dificultà adunque che Cosimo ebbe, dentro alla città e fuori, fu il fine glorioso per lui e dannoso per gli inimici; e per ciò sempre le civili discordie gli accrebbono in Firenze stato, e le guerre di fuora potenza e reputazione: per il che allo imperio della sua republica il Borgo a San Sipolcro, Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno aggiunse. E così la virtù e fortuna sua spense tutti i suoi nimici, e gli amici esaltò.