Istorie fiorentine/Libro sesto/Capitolo 34

Libro sesto

Capitolo 34

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Ma tornando alle cose di Italia, dico come e’ correva l’anno 1456, quando i tumulti mossi da Iacopo Piccinino finirono, donde che, posate le armi dagli uomini, parve che Iddio le volessi prendere egli, tanta fu grande una tempesta di venti che allora seguì, la quale in Toscana fece inauditi per lo adietro e a chi per lo avvenire lo intenderà maravigliosi e memorabili effetti. Partissi a’ 24 d’agosto, una ora avanti giorno, dalle parti del mare di sopra di verso Ancona, e attraversando per la Italia, entrò nel mare di sotto verso Pisa, un turbine d’una nugolaglia grossa e folta, la quale quasi che due miglia di spazio per ogni verso occupava. Questa, spinta da superiori forze, o naturali o sopranaturali che le fussero, in se medesimo rotta, in se medesimo combatteva, e le spezzate nugole, ora verso il cielo salendo, ora verso la terra scendendo, insieme si urtavano; e ora in giro con una velocità grandissima si movevano, e davanti a loro un vento fuori d’ogni modo impetuoso concitavano; e spessi fuochi e lucidissimi vampi intra loro nel combattere apparivono. Da queste così rotte e confuse nebbie, da questi così furiosi venti e spessi splendori, nasceva uno romore non mai più da alcuna qualità o grandezza di tremuoto o di tuono udito; dal quale usciva tanto spavento che ciascuno che lo sentì giudicava che il fine del mondo fusse venuto, e la terra, l’acqua e il resto del cielo e del mondo, nello antico caos, mescolandosi insieme, ritornassero. Fe’ questo spaventevole turbine, dovunque passò, inauditi e maravigliosi effetti; ma più notabili che altrove intorno al castello di San Casciano seguirono. È questo castello posto propinquo a Firenze ad otto miglia, sopra il colle che parte le valli di Pesa e di Grieve. Fra detto castello, adunque, e il borgo di Santo Andrea, posto sopra il medesimo colle, passando, questa furiosa tempesta, a Santo Andrea non aggiunse, e San Casciano rasentò in modo che solo alcuni merli e cammini di alcune case abbatté, ma fuori, in quello spazio che è dall’uno de’ luoghi detti all’altro, molte case furono infino al piano della terra rovinate. I tetti de’ templi di San Martino a Bagnuolo e di Santa Maria della Pace, interi come sopra quelli erano, furono più che un miglio discosto portati, uno vetturale, insieme con i suoi muli, fu, discosto dalla strada, nelle vicine convalli trovato morto, tutte le più grosse querce, tutti i più gagliardi arbori, che a tanto furore non volevono cedere, furono, non solo sbarbati, ma discosto molto da dove avevano le loro radice portati; onde che, passata la tempesta e venuto il giorno, gli uomini stupidi al tutto erano rimasi. Vedevasi il paese desolato e guasto; vedevasi la rovina delle case e de’ templi; sentivansi i lamenti di quelli che vedevano le loro possessioni distrutte, e sotto le rovine avevano lasciato il loro bestiame e i loro parenti morti: la qual cosa a chi vedeva e udiva recava compassione e spavento grandissimo. Volle senza dubio Iddio più tosto minacciare che gastigare la Toscana; perché se tanta tempesta fusse entrata in una città, infra le case e gli abitatori assai e spessi, come l’entrò fra querce e arbori e case poche e rare, sanza dubio faceva quella rovina e fragello che si può con la mente conietturare maggiore. Ma Iddio volle, per allora, che bastasse questo poco di esemplo a rinfrescare infra gli uomini la memoria della potenzia sua.