Istorie fiorentine/Libro sesto/Capitolo 29

Libro sesto

Capitolo 29

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Il Pontefice intra queste guerre non si travagliava, se non in quanto egli credeva potere mettere accordo infra le parti; e benché e’ si astenessi dalla guerra di fuori, fu per trovarla più pericolosa in casa. Viveva in quelli tempi un messer Stefano Porcari, cittadino romano, per sangue e per dottrina, ma molto più per eccellenza di animo, nobile. Desiderava costui, secondo il costume degli uomini che appetiscono gloria, o fare, o tentare almeno, qualche cosa degna di memoria; e giudicò non potere tentare altro, che vedere se potesse trarre la patria sua delle mani de’ prelati e ridurla nello antico vivere, sperando per questo, quando gli riuscisse, essere chiamato nuovo fondatore e secondo padre di quella città. Facevagli sperare di questa impresa felice fine i malvagi costumi de’ prelati e la mala contentezza de’ baroni e popolo romano; ma sopra tutto gliene davano speranza quelli versi del Petrarca, nella canzona che comincia: "Spirto gentil che quelle membra reggi", dove dice: Sopra il monte Tarpeio, canzon, vedrai Un cavalier che Italia tutta onora, Pensoso più d’altrui che di se stesso. Sapeva messere Stefano i poeti molte volte essere di spirito divino e profetico ripieni; tal che giudicava dovere ad ogni modo intervenire quella cosa che il Petrarca in quella canzona profetizzava, ed essere egli quello che dovesse essere di sì gloriosa impresa esecutore; parendogli, per eloquenzia, per dottrina, per grazia e per amici, essere superiore ad ogni altro romano. Caduto adunque in questo pensiero, non potette in modo cauto governarsi, che con le parole, con le usanze e con il modo del vivere non si scoprisse, talmente che divenne sospetto al Pontefice, il quale, per torgli commodità a potere operare male, lo confinò a Bologna, e al governatore di quella città commisse che ciascuno giorno lo rassegnasse. Non fu messer Stefano per questo primo intoppo sbigottito, anzi con maggiore studio seguitò la impresa sua, e per quelli mezzi poteva più cauti, teneva pratiche con gli amici; e più volte andò e tornò da Roma con tanta celerità, che gli era a tempo a rappresentarsi al governatore infra i termini comandati. Ma dappoi che gli parve avere tratti assai uomini alla sua volontà, deliberò di non differire a tentare la cosa; e commisse agli amici i quali erano in Roma che, in un tempo determinato, una splendida cena ordinassero, dove tutti i congiurati fussero chiamati, con ordine che ciascheduno avesse seco i più fidati amici, e promisse di essere con loro avanti che la cena fusse fornita. Fu ordinato tutto secondo lo avviso suo, e messere Stefano era già arrivato nella casa dove si cenava, tanto che, fornita la cena, vestito di drappo d’oro, con collane e altri ornamenti che gli davano maestà e riputazione, comparse infra i convivanti, e quelli abbracciati, con una lunga orazione gli confortò a fermare l’animo e disporsi a sì gloriosa impresa. Di poi divisò il modo; e ordinò che una parte di loro, la mattina seguente, il palagio del Pontefice occupasse, l’altra, per Roma, chiamasse il popolo all’arme. Venne la cosa a notizia al Pontefice la notte: alcuni dicono che fu per poca fede de’ congiurati, altri che si seppe essere messere Stefano in Roma. Comunque si fusse, il Papa, la notte medesima che la cena si era fatta, fece prendere messere Stefano con la maggior parte de’ compagni, e di poi, secondo che meritavano i falli loro, morire. Cotal fine ebbe questo suo disegno. E veramente puote essere da qualcuno la costui intenzione lodata, ma da ciascuno sarà sempre il giudicio biasimato; perché simili imprese, se le hanno in sé, nel pensarle, alcuna ombra di gloria, hanno, nello esequirle, quasi sempre certissimo danno.