Istorie fiorentine/Libro secondo/Capitolo 9

Libro secondo

Capitolo 9

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Il conte Guido, per nutrire i soldati, ordinò di porre una taglia a’ cittadini; dove trovò tanta difficultà che non ardì di fare forza di ottenerla; e parendogli avere perduto lo stato, si ristrinse con i capi de’ Ghibellini; e deliberorono torre per forza al popolo quello che per poca prudenza gli avevono conceduto. E quando parve loro essere ad ordine con le armi, sendo insieme i trentasei, feciono levare il romore; onde che quelli, spaventati, si ritirorono alle loro case, e subito le bandiere delle Arti furono fuora con assai armati dietro; e intendendo come il conte Guido con la sua parte era a San Giovanni, feciono testa a Santa Trinita, e dierono la ubbidienza a messer Giovanni Soldanieri. Il Conte dall’altra parte, sentendo dove il popolo era, si mosse per ire a trovarlo; né il popolo ancora fuggì la zuffa; e fattosi incontro al nimico, dove è oggi la loggia de’ Tornaquinci si riscontrorono. Dove fu ributtato il Conte, con perdita e morte di più suoi, donde che, sbigottito temeva che la notte i nimici lo assalissero, e trovandosi i suoi battuti e inviliti, lo ammazzassero. E tanta fu in lui potente questa immaginazione, che, senza pensare ad altro rimedio, deliberò, più tosto fuggendo che combattendo, salvarsi; e contro al consiglio de’ Rettori e della Parte, con tutte le genti sue ne andò a Prato. Ma come prima per trovarsi in luogo sicuro, gli fuggì la paura, ricognobbe lo errore suo; e volendolo correggere, la mattina, venuto il giorno, tornò con le sue genti a Firenze, per rientrare in quella città per forza, che egli aveva per viltà abbandonata; ma non gli successe il disegno, perché quel popolo che con difficultà lo arebbe potuto cacciare, facilmente lo potette tenere fuora; tanto che, dolente e svergognato, se ne andò in Casentino; e i Ghibellini si ritirorono alle loro ville. Restato adunque il popolo vincitore, per conforto di coloro che amavano il bene della republica, si deliberò di riunire la città e richiamare tutti i cittadini, così ghibellini come guelfi, i quali si trovassero fuora. Tornorono adunque i Guelfi, sei anni dopo che gli erano stati cacciati, e a’ Ghibellini ancora fu perdonata la fresca ingiuria, e riposti nella patria loro. Non di meno da il popolo e dai Guelfi erano forte odiati, perché questi non potevono cancellare della memoria lo esilio, e quello si ricordava troppo della tirannide loro mentre che visse sotto il governo di quelli; il che faceva che né l’una né l’altra parte posava l’animo. Mentre che in questa forma in Firenze si viveva, si sparse fama che Curradino nipote di Manfredi, con gente, veniva della Magna allo acquisto di Napoli; donde che i Ghibellini si riempierono di speranza di potere ripigliare la loro autorità, e i Guelfi pensavano come si avessero ad assicurare delli loro nimici e chiesono al re Carlo aiuti per potere, passando Curradino, difendersi. Venendo per tanto le genti di Carlo, feciono diventare i Guelfi insolenti, e in modo sbigottirono i Ghibellini, che duoi giorni avanti allo arrivare loro, senza essere cacciati, si fuggirono.