Istorie fiorentine/Libro secondo/Capitolo 35

Libro secondo

Capitolo 35

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Non mossono in alcuna parte queste parole lo indurato animo del Duca; e disse non essere sua intenzione di torre la libertà a quella città, ma rendergliene: perché solo le città disunite erano serve, e le unite libere; e se Firenze, per suo ordine, di sette, ambizione e nimicizie si privasse, se le renderebbe, non torrebbe la libertà; e come a prendere questo carico non la ambizione sua, ma i prieghi di molti cittadini lo conducevano; per ciò farebbono eglino bene a contentarsi di quello che gli altri si contentavano; e quanto a quelli pericoli in ne’ quali per questo poteva incorrere, non gli stimava, perché gli era ufizio di uomo non buono per timore del male lasciare il bene, e di pusillanime per un fine dubio non seguire una gloriosa impresa; e che credeva portarsi in modo che in breve tempo avere di lui confidato poco e temuto troppo cognoscerebbono. Convennono adunque i Signori, vedendo di non potere fare altro bene, che la mattina seguente il popolo si ragunasse sopra la piazza loro; con la autorità del quale si desse per uno anno al Duca la signoria, con quelle condizioni che già a Carlo duca di Calavria si era data. Era l’ottavo giorno di settembre e lo anno 1342, quando il Duca, accompagnato da messer Giovanni della Tosa e tutti i suoi consorti e da molti altri cittadini, venne in Piazza; e insieme con la Signoria salì sopra la ringhiera, che così chiamano i Fiorentini quelli gradi che sono a piè del palagio de’ Signori; dove si lessono al popolo le convenzioni fatte intra la Signoria e lui. E quando si venne, leggendo, a quella parte dove per uno anno se gli dava la signoria, si gridò per il popolo: A VITA. E levandosi messer Francesco Rustichelli, uno de’ Signori, per parlare e mitigare il tumulto, furono con le grida le parole sue interrotte; in modo che, con il consenso del popolo, non per uno anno, ma in perpetuo fu eletto signore, e preso e portato intra la moltitudine, gridando per la Piazza il nome suo. È consuetudine che quello che è preposto alla guardia del Palagio stia, in assenzia de’ Signori, serrato dentro; al quale uffizio era allora deputato Rinieri di Giotto: costui, corrotto dagli amici del Duca, sanza aspettare alcuna forza, lo messe dentro, e i Signori, sbigottiti e disonorati, se ne tornorono alle case loro, e il Palagio fu dalla famiglia del Duca saccheggiato, il gonfalone del popolo stracciato, e le sue insegne sopra il Palagio poste. Il che seguiva con dolore e noia inestimabile degli uomini buoni, e con piacere grande di quelli che, o per ignoranza o per malignità, vi consentivano.