Il Duca, acquistato che ebbe la signoria, per torre la autorità a quelli che solevono della libertà essere defensori, proibì ai Signori ragunarsi in Palagio, e consegnò loro una casa privata; tolse le insegne ai gonfalonieri delle Compagnie del popolo; levò gli ordini della giustizia contro ai Grandi; liberò i prigioni delle carcere; fece i Bardi e i Frescobaldi dallo esilio ritornare; vietò il portare arme a ciascuno, e per potere meglio difendersi da quelli di dentro, si fece amico a quelli di fuora. Benificò per tanto assai gli Aretini e tutti gli altri sottoposti ai Fiorentini; fece pace con i Pisani, ancora che fusse fatto principe perché facesse loro guerra; tolse gli assegnamenti a quegli mercatanti che nella guerra di Lucca avevano prestato alla republica denari. Accrebbe le gabelle vecchie e creò delle nuove; tolse a’ Signori ogni autorità; e i suoi rettori erano messer Baglione da Perugia e messer Guglielmo da Scesi, con i quali, e con messer Cerrettieri Bisdomini, si consigliava. Le taglie che poneva a’ cittadini erano gravi, e i giudicii suoi ingiusti; e quella severità e umanità che gli aveva finta, in superbia e crudeltà si era convertita: donde molti cittadini grandi e popolani nobili, o con danari o morti, o con nuovi modi tormentati erano. E per non si governare meglio fuora che dentro, ordinò sei rettori per il contado, i quali battevano e spogliavano i contadini. Aveva i Grandi a sospetto, ancora che da loro fusse stato benificato e che a molti di quelli avesse la patria renduta: perché non poteva credere che i generosi animi, quali sogliono essere nella nobilità, potessero sotto la sua ubbidienza contentarsi; e per ciò si volse a benificare la plebe, pensando, con i favori di quella e con le armi forestiere, potere la tirannide conservare. Venuto per tanto il mese di maggio, nel qual tempo i popoli sogliono festeggiare, fece fare alla plebe e popolo minuto più compagnie, alle quali, onorate di splendidi tituli, dette insegne e danari; donde una parte di loro andava per la città festeggiando, e l’altra con grandissima pompa i festeggianti riceveva. Come la fama si sparse della nuova signoria di costui, molti vennono del sangue franzese a trovarlo; ed egli a tutti, come a uomini più fidati, dava condizione; in modo che Firenze in poco tempo divenne, non solamente suddita ai Franzesi, ma a’ costumi e agli abiti loro; perché gli uomini e le donne, sanza avere riguardo al vivere civile, o alcuna vergogna, gli imitavano. Ma sopra ogni cosa quello che dispiaceva era la violenza che egli e i suoi, sanza alcuno rispetto, alle donne facevano. Vivevano adunque i cittadini pieni di indegnazione, veggendo la maiestà dello stato loro rovinata, gli ordini guasti, le leggi annullate, ogni onesto vivere corrotto, ogni civile modestia spenta: perché coloro che erano consueti a non vedere alcuna regale pompa non potevono sanza dolore quello di armati satelliti a piè e a cavallo circundato riscontrare. Per che, veggendo più da presso la loro vergogna, erano colui che massimamente odiavano di onorare necessitati: a che si aggiugneva il timore, veggendo le spesse morti e le continue taglie con le quali impoveriva e consumava la città. I quali sdegni e paure erano dal Duca cognosciute e temute; non di meno voleva mostrare a ciascuno di credere di essere amato: onde occorse che, avendogli rivelato Matteo di Morozzo, o per gratificarsi quello o per liberare sé dal pericolo, come la famiglia de’ Medici con alcuni altri aveva contro di lui congiurato, il Duca, non solamente non ricercò la cosa, ma fece il rivelatore miseramente morire: per il quale partito tolse animo a quelli che volessero della sua salute avvertirlo, e lo dette a quelli che cercassero la sua rovina. Fece ancora tagliare la lingua con tanta crudeltà a Bettone Cini che se ne morì, per aver biasimate le taglie che a’ cittadini si ponevano: la qual cosa accrebbe a’ cittadini lo sdegno e al Duca l’odio; perché quella città che a fare e parlare d’ogni cosa e con ogni licenza era consueta, che gli fussono legate le mani e serrata la bocca sopportare non poteva. Crebbono adunque questi sdegni in tanto e questi odi, che, non che i Fiorentini, i quali la libertà mantenere non sanno e la servitù patire non possono, ma qualunque servile popolo arebbono alla recuperazione della libertà infiammato. Onde che molti cittadini, e di ogni qualità, di perdere la vita o di riavere la loro libertà deliberorono; e in tre parti, di tre sorte di cittadini, tre congiure si feciono: Grandi, popolani e artefici; mossi, oltre alle cause universali, da parere ai Grandi non avere riavuto lo stato, a’ popolani averlo perduto, e agli artefici de’ loro guadagni mancare. Era arcivescovo di Firenze messer Agnolo Acciaiuoli, il quale con le prediche sue aveva già le opere del Duca magnificato e fattogli appresso al popolo grandi favori: ma poi che lo vide signore, e i suoi tirannici modi cognobbe, gli parve avere ingannato la patria sua; e per emendare il fallo commesso, pensò non avere altro rimedio se non che quella mano che aveva fatta la ferita la sanasse; e della prima e più forte congiura si fece capo; nella quale erano i Bardi, Rossi, Frescobaldi, Scali, Altoviti, Magalotti, Strozzi e Mancini. Dell’una delle due altre erano principi messer Manno e Corso Donati; e con questi i Pazzi, Cavicciuli, Cerchi e Albizzi. Della terza era il primo Antonio Adimari; e con lui Medici, Bordoni, Rucellai e Aldobrandini. Pensorono costoro di ammazzarlo in casa gli Albizzi, dove andasse il giorno di Santo Giovanni a vedere correre i cavagli credevano; ma non vi essendo andato, non riuscì loro. Pensorono di assaltarlo andando per la città a spasso; ma vedevono il modo difficile, perché bene accompagnato e armato andava, e sempre variava le andate, in modo che non si poteva in alcuno luogo certo aspettarlo. Ragionorono di ucciderlo ne’ Consigli: dove pareva loro rimanere, ancora che fusse morto, a discrezione delle forze sue. Mentre che intra i congiurati queste cose si praticavano, Antonio Adimari con alcuni suoi amici sanesi, per avere da loro gente, si scoperse, manifestando a quelli parte de’ congiurati, affermando tutta la città essere a liberarsi disposta: onde uno di quelli comunicò la cosa a messer Francesco Brunelleschi, non per scoprirla, ma per credere che ancora egli fussi de’ congiurati. Messer Francesco, o per paura di sé, o per odio aveva contro ad altri, rivelò il tutto al Duca; onde che Pagolo del Mazzeca e Simone da Monterappoli furono presi; i quali, rivelando la qualità e quantità de’ congiurati, sbigottirono il Duca; e fu consigliato più tosto gli richiedesse che pigliasse, perché, se se ne fuggivono, se ne poteva sanza scandolo, con lo esilio, assicurare. Fece per tanto il Duca richiedere Antonio Adimari; il quale, confidandosi ne’ compagni, subito comparse. Fu sostenuto costui: ed era da messer Francesco Brunelleschi e messer Uguccione Buondelmonti consigliato corresse armato la terra, e i presi facesse morire; ma a lui non parve, parendogli avere a tanti nimici poche forze; e però prese un altro partito, per il quale, quando gli fusse successo, si assicurava de’ nimici e alle forze provedeva. Era il Duca consueto richiedere i cittadini, che ne’ casi occorrenti lo consigliassero: avendo per tanto mandato fuora a provedere di gente, fece una listra di trecento cittadini, e gli fece da’ suoi sergenti, sotto colore di volere consigliarsi con loro, richiedere: e poi che fussero adunati, o con la morte o con le carcere spegnerli disegnava. La cattura di Antonio Adimari e il mandare per le genti, il che non si potette fare secreto, aveva i cittadini, e massime i colpevoli, sbigottito; onde che da’ più arditi fu negato il volere ubbidire. E perché ciascuno aveva letta la listra, trovavano l’uno l’altro, e s’inanimivano a prendere le armi, e volere più tosto morire come uomini, con le armi in mano, che come vitelli essere alla beccheria condotti: in modo che in poco di ora tutte a tre le congiure l’una all’altra si scoperse, e deliberorono il dì seguente, che era il 26 di luglio 1343, fare nascere un tumulto in Mercato Vecchio, e dopo quello armarsi e chiamare il popolo alla libertà.