Era in Lucca, come di sopra dicemmo, messer Antonio del Rosso, ambasciadore sanese. Costui, con la autorità del Conte, praticò con i cittadini la rovina di Pagolo. Capi della congiura furono Piero Cennami e Giovanni da Chivizzano. Trovavasi il Conte alloggiato fuora della terra, in sul Serchio, e con lui era Lanzilao, figliuolo del Signore. Donde i congiurati, in numero di quaranta, di notte, armati, andorono a trovare Pagolo; al romore de’ quali fattosi incontro tutto attonito, domandò della cagione della venuta loro. Al quale Piero Cennami disse come loro erano stati governati da lui più tempo, e condotti, con i nimici intorno, a morire di ferro e di fame; e però erano deliberati per lo avvenire, di volere governare loro. E gli domandorono le chiavi della città e il tesoro di quella. A’ quali Pagolo rispose che il tesoro era consumato, le chiavi ed egli erano in loro podestà, e gli pregava di questo solo, che fussero contenti, così come la sua signoria era cominciata e vivuta sanza sangue, così sanza sangue finisse. Fu dal conte Francesco condotto Pagolo e il figliuolo al Duca, i quali morirono, di poi, in prigione. La partita del Conte aveva lasciata libera Lucca dal tiranno e i Fiorentini dal timore delle genti sue, onde che quelli si preparorono alle difese e quelli altri ritornorono alle offese; e avevano eletto per capitano il conte di Urbino, il quale, strignendo forte la terra, constrinse di nuovo i Lucchesi a ricorrere al Duca; il quale, sotto il medesimo colore aveva mandato il Conte, mandò in loro aiuto Niccolò Piccino. A costui, venendo per entrare in Lucca, i nostri si feciono incontro in sul Serchio; e al passare di quello vennono alla zuffa, e vi furono rotti; e il Commissario con poche delle nostre genti si salvò a Pisa. Questa rotta contristò tutta la nostra città; e perché la impresa era stata fatta dallo universale, non sapendo i popolani contro a chi volgersi calunniavano chi l’aveva amministrata poi che e’ non potevono calunniare chi la aveva deliberata, e risucitorono i carichi dati a messer Rinaldo. Ma più che alcuno era lacero messer Giovanni Guicciardini, accusandolo che gli arebbe potuto, dopo la partita del conte Francesco, ultimare la guerra, ma che gli era stato corrotto con danari, e come ne aveva mandati a casa una soma, e allegavano chi gli aveva portati e chi ricevuti. E andorono tanto alto questi romori e queste accuse, che il Capitano del popolo, mosso da queste publiche voci, e da quelli della parte contraria spinto, lo citò. Comparse messer Giovanni tutto pieno di sdegno; donde i parenti suoi, per onore loro, operorono tanto che il Capitano abbandonò la impresa. I Lucchesi, dopo la vittoria, non solamente riebbero le loro terre, ma occuporono tutte quelle del contado di Pisa, eccetto Bientina, Calcinaia, Livorno e Librafatta, e se non fusse stata scoperta una congiura che si era fatta in Pisa, si perdeva anche quella città. I Fiorentini riordinorono le loro genti, e feciono loro capitano Micheletto, allievo di Sforza. Dall’altra parte il Duca seguitò la vittoria, e per potere con più forze affliggere i Fiorentini, fece che i Genovesi, Sanesi e signore di Piombino si collegassero alla difesa di Lucca, e che soldassero Niccolò Piccino per loro capitano, la qual cosa lo fece in tutto scoprire. Donde che i Viniziani e i Fiorentini rinnovorono la lega e la guerra si cominciò a fare aperta in Lombardia e in Toscana. E nell’una e nell’altra provincia seguirono, con varia fortuna, varie zuffe; tanto che, stracco ciascuno, si fece, di maggio, nel 1433, lo accordo infra le parti, per il quale i Fiorentini, Lucchesi e Sanesi, che avevano nella guerra occupate più castella l’uno all’altro, le lasciarono tutte, e ciascuno tornò nella possessione delle sua.