De’ Seravezzesi alcuni, che dalle mani del Commissario s’erano fuggiti, corsono a Firenze, e per ogni strada e ad ogni uomo narravano le miserie loro; di modo che, confortati da molti desiderosi che si punisse il Commissario, o come malvagio uomo, o come contrario alla fazione loro, ne andorono a’ Dieci e domandorono di essere uditi. E intromessi, uno di loro parlò in questa sentenza: - Noi siamo certi, magnifici Signori, che le nostre parole troveranno fede e compassione appresso le Signorie vostre, quando voi saprete in che modo occupasse il paese nostro il commissario vostro, e in quale maniera di poi siamo stati trattati da quello. La valle nostra, come ne possono essere piene le memorie delle antiche cose vostre, fu sempremai guelfa, ed è stata molte volte uno fedele ricetto a’ cittadini vostri, che, perseguitati da’ Ghibellini, sono ricorsi in quella. E sempre gli antichi nostri e noi abbiamo adorato il nome di questa inclita republica, per essere stata capo e principe di quella parte; e in mentre che i Lucchesi furono guelfi, volentieri servimmo allo imperio loro; ma poi che pervennero sotto il tiranno, il quale ha lasciati gli antichi amici e seguite le parti ghibelline, più tosto forzati che volontari lo abbiamo ubbidito; e Dio sa quante volte noi lo abbiamo pregato che ci desse occasione di dimostrare l’animo nostro verso l’antica parte. Quanto sono gli uomini ciechi ne’ desiderii loro! Quello che noi desideravamo per nostra salute è stato la nostra rovina. Perché, come prima noi sentimmo che le insegne vostre venivano verso di noi, non come a nimici, ma come agli antichi signori nostri ci facemmo incontro al commissario vostro, e mettemmo la valle, le nostre fortune e noi nelle sue mani, e alla sua fede ci raccomandammo, credendo che in lui fusse animo, se non di Fiorentino, almeno d’uomo. Le Signorie vostre ci perdoneranno, perché non potere sopportar peggio di quello abbiamo sopportato ci dà animo a parlare. Questo vostro commissario non ha di uomo altro che la presenzia, né di Fiorentino altro che il nome: una peste mortifera, una fiera crudele, uno mostro orrendo, quanto mai da alcuno scrittore fusse figurato; perché, riduttici nel nostro tempio, sotto colore di volerci parlare, noi fece prigioni, e la valle tutta rovinò e arse, e gli abitatori e le robe di quella rapì, spogliò, saccheggiò, batté, ammazzò; stuprò le donne, viziò le vergini, e trattele delle braccia delle madri, le fece preda de’ suoi soldati. Se noi, per alcuna ingiuria fatta al popolo fiorentino o a lui, avessimo meritato tanto male, o se armati e difendendoci ci avessi presi, ci dorremmo meno, anzi accuseremmo noi, i quali o con le iniurie o con la arroganzia nostra l’avessimo meritato; ma sendo, disarmati, daticegli liberamente, che di poi ci abbi rubati, e con tanta ingiuria e ignominia spogliati, siamo forzati a dolerci. E quantunque noi avessimo potuto riempiere la Lombardia di querele, e con carico di questa città spargere per tutta Italia la fama delle iniurie nostre, non lo aviamo voluto fare, per non imbrattare una sì onesta e piatosa republica con la disonestà e crudeltà d’uno suo malvagio cittadino. Del quale se avanti alla rovina nostra avessimo conosciuto l’avarizia ci saremmo sforzati il suo ingordo animo, ancora che non abbi né misura ne fondo, riempiere, e aremmo per quella via, con parte delle sustanze nostre, salvate l’altre, ma poi che non siamo più a tempo, abbiamo voluto ricorrere a voi, e pregarvi soccorriate alla infelicità de’ vostri subietti, acciò che gli altri uomini non si sbigottischino, per lo esemplo nostro, a venire sotto lo imperio vostro. E quando non vi muovino gli infiniti mali nostri, vi muova la paura dell’ira di Dio, il quale ha veduto i suoi templi saccheggiati e arsi, e il popolo nostro tradito nel grembo suo -. E detto questo si gittorono in terra, gridando e pregando che fusse loro renduto la roba e la patria; e facessero restituire (poi che non si poteva l’onore) almeno le moglie a’ mariti, e a’ padri le figliuole. L’atrocità della cosa, saputa prima, e di poi dalle vive voci di quelli che la avevano sopportata intesa, commosse il magistrato; e sanza differire si fece tornare Astorre, e di poi fu condannato e ammunito. Ricercossi de’ beni de’ Seravezzesi e quelli che si poterono trovare si restituirono, degli altri furono dalla città, con il tempo, in varii modi sodisfatti.