Erano i Volterrani stracchi di stare in carcere; e per essere liberi promissono di consentire a quello era comandato loro. Liberati adunque, e tornati a Volterra, venne il tempo che i nuovi loro priori prendevono il magistrato; de’ quali fu tratto uno Giusto, uomo plebeo, ma di credito nella plebe, il quale era uno di quelli che fu imprigionato a Firenze. Costui, acceso per se medesimo di odio, per la ingiuria publica e per la privata, contro a’ Fiorentini, fu ancora stimolato da Giovanni di uomo nobile e che seco sedeva in magistrato, a dovere muovere il popolo con la autorità de’ priori e con la grazia sua, e trarre la terra delle mani de’ Fiorentini, e farne sé principe. Per il consiglio del quale, Giusto prese le armi, corse la terra, prese il capitano che vi era pe’ Fiorentini, e sé fece, con il consentimento del popolo, signore di quella. Questa novità seguita in Volterra dispiacque assai a’ Fiorentini; pure, trovandosi avere fatto pace con il Duca, e freschi in su gli accordi, giudicorono potere avere tempo a racquistarla; e per non lo perdere, mandorono subito a quella impresa commissari messer Rinaldo degli Albizzi e messer Palla Strozzi. Giusto intanto, che pensava che i Fiorentini lo assalterebbero, richiese i Sanesi e i Lucchesi di aiuto. I Sanesi gliene negorono, dicendo essere in lega con i Fiorentini; e Pagolo Guinigi, che era signore di Lucca, per racquistare la grazia con il popolo di Firenze, la quale nella guerra del Duca gli pareva avere perduta per essersi scoperto amico di Filippo, non solamente negò gli aiuti a Giusto, ma ne mandò prigione a Firenze quello che era venuto a domandarli. I commissari intanto, per giugnere i Volterrani sproveduti, ragunorono insieme tutte le loro genti d’arme, e levorono di Valdarno di sotto e del contado di Pisa assai fanteria, e ne andorono verso Volterra. Né Giusto, per essere abbandonato da’ vicini, né per lo assalto che si vedeva fare da’ Fiorentini, si abbandonava; ma rifidatosi nella fortezza del sito e nella grassezza della terra, si provedeva alla difesa. Era in Volterra uno messer Arcolano, fratello di quello Giovanni che aveva persuaso Giusto a pigliare la signoria, uomo di credito nella nobilità. Costui ragunò certi suoi confidenti e mostrò loro come Iddio aveva, per questo accidente venuto, soccorso alla necessità della città loro; perché, se gli erano contenti di pigliare le armi, e privare Giusto della signoria, e rendere la città a’ Fiorentini, ne seguirebbe che resterebbono i primi di quella terra, e a lei si perserverrebbono gli antichi privilegi suoi. Rimasi adunque d’accordo della cosa, ne andorono al Palagio, dove si posava il Signore, e fermisi parte di loro da basso, messer Arcolano con tre di loro salì in su la sala, e trovato quello con alcuni cittadini, lo tirò da parte, come se gli volesse ragionare di alcuna cosa importante; e d’un ragionamento in un altro, lo condusse in camera, dove egli e quelli che erano seco con le spade lo assalirono. Né furono però sì presti che non dessero commodità a Giusto di porre mano all’arme sua; il quale, prima che lo ammazzassero, ferì gravemente duoi di loro; ma non potendo alfine resistere a tanti, fu morto e gittato a terra del Palazzo. E prese le armi, quelli della parte di messer Arcolano dettono la città ai commissari fiorentini, che con le genti vi erano propinqui; i quali, senza fare altri patti, entrorono in quella. Di che ne seguì che Volterra peggiorò le sue condizioni, perché, intra le altre cose, le smembrorono la maggiore parte del contado e ridussollo in vicariato.