Istorie fiorentine/Libro ottavo/Capitolo 4

Libro ottavo

Capitolo 4

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Mentre che si stava in questi ragionamenti e pensieri, occorse che il signor Carlo di Faenza ammalò, tale che si dubitava della morte. Parve per tanto allo Arcivescovo e al Conte di avere occasione di mandare Giovan Batista a Firenze, e di quivi in Romagna, sotto colore di riavere certe terre che il signore di Faenza gli occupava. Commisse per tanto il Conte a Giovan Batista parlasse con Lorenzo, e da sua parte gli domandasse consiglio, come nelle cose di Romagna si avesse a governare; di poi parlasse con Francesco de’ Pazzi, e vedessero, insieme, di disporre messer Iacopo de’ Pazzi a seguitare la loro volontà. E perché lo potesse con la autorità del Papa muovere, vollono, avanti alla partita, parlasse al Pontefice; il quale fece tutte quelle offerte possette maggiori in benifizio della impresa. Arrivato per tanto Giovan Batista a Firenze, parlò con Lorenzo, dal quale fu umanissimamente ricevuto e ne’ consigli domandati saviamente e amorevolmente consigliato; tanto che Giovan Batista ne prese ammirazione, parendogli avere trovato altro uomo che non gli era stato mostro, e giudicollo tutto umano, tutto savio, e al Conte amicissimo. Non di meno volle parlare con Francesco, e non ve lo trovando, perché era ito a Lucca, parlò con messer Iacopo, e trovollo nel principio molto alieno dalla cosa: non di meno, avanti partisse, l’autorità del Papa lo mosse alquanto, e per ciò disse a Giovan Batista che andasse in Romagna e tornasse, e che intanto Francesco sarebbe in Firenze, e allora più particularmente della cosa ragionerebbono. Andò e tornò Giovan Batista, e con Lorenzo de’ Medici seguitò il simulato ragionamento delle cose del Conte; di poi con messer Iacopo e Francesco de’ Pazzi si ristrinse; e tanto operorono, che messer Iacopo acconsentì alla impresa. Ragionorono del modo. A messer Iacopo non pareva che fusse riuscibile sendo ambedui i frategli in Firenze; e per ciò si aspettasse che Lorenzo andasse a Roma, come era fama che voleva andare, e allora si esequisse la cosa. A Francesco piaceva che Lorenzo fusse a Roma; non di meno, quando bene non vi andasse, affermava che o a nozze, o a giuoco, o in chiesa, ambiduoi i frategli si potevono opprimere. E circa gli aiuti forestieri, gli pareva che il Papa potesse mettere gente insieme per la impresa del castello di Montone, avendo giusta cagione di spogliarne il conte Carlo, per avere fatti i tumulti già detti nel Sanese e nel Perugino. Non di meno non si fece altra conclusione, se non che Francesco de’ Pazzi e Giovan Batista ne andassero a Roma, e quivi con il Conte e con il Papa ogni cosa concludessero. Praticossi di nuovo a Roma questa materia; e in fine si concluse, sendo la impresa di Montone resoluta, che Giovanfrancesco da Tolentino, soldato del Papa, ne andasse in Romagna, e messer Lorenzo da Castello nel paese suo, e ciascheduno di questi, con le genti del paese, tenessero le loro compagnie ad ordine per fare quanto da l’Arcivescovo de’ Salviati e Francesco de’ Pazzi fusse loro ordinato, i quali con Giovan Batista da Montesecco se ne venissero a Firenze dove provedessero a quanto fusse necessario per la esecuzione della impresa; alla quale il re Ferrando, mediante il suo oratore, prometteva qualunque aiuto. Venuti pertanto l’Arcivescovo e Francesco de’ Pazzi a Firenze tirorono nella sentenza loro Iacopo di messer Poggio, giovane litterato, ma ambizioso e di cose nuove desiderosissimo, tiroronvi duoi Iacopi Salviati l’uno fratello, l’altro affine dello Arcivescovo; condussonvi Bernardo Bandini e Napoleone Franzesi, giovani arditi e alla famiglia de’ Pazzi obligatissimi. De’ forestieri, oltre a’ prenominati, messer Antonio da Volterra e uno Stefano sacerdote, il quale nelle case di messer Iacopo alla sua figliuola la lingua latina insegnava, v’intervennono. Rinato de’ Pazzi, uomo prudente e grave, e che ottimamente cognosceva il male che da simili imprese nascono, alla congiura non acconsentì; anzi la detestò, e con quel modo che onestamente potette adoperare la interruppe.