Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XXX
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXX.
Chiamata di Belisario a Bizanzio. Uraia eletto monarca dai Gotti persuade loro che offrano il regno a Ildibado. — Questi, accettatolo, ne dispone a pro di Belisario, il quale con singolare modestia e lealtà non vuole saperne.
I. Di tali duci del romano esercito calunniarono presso dell’imperatore Belisario come aspirante alla tirannide, ed Augusto non già che prestasse fede a siffatte menzogne, ma vedendo imminente la guerra persiana tosto lo richiamò per conferirgli la capitananza dell’esercito destinato contro quel regno, e commise la salvezza dell’Italia a Bessa, a Giovanni e ad altri duci; ordinò eziandio a Constanziano di passare dalla Dalmazia a Ravenna. Per tali novitadi ed i Gotti a dimora in questa città, e quelli di là dal fiume Po, udito l’ordine imperiale risguardante Belisario il tennero da prima lievissima cosa, fermi nel cuor loro che il duce mai più avrebbe anteposto al trono d’Italia la fedeltà promessa al suo monarca. Ma quando furonne palesi gli apprestamenti fatti per la partenza quanti eranvi ancora personaggi illustri di Gottica prosapia d’unanime consenso vanno a trovare Uraia, figlio d’una sorella di Vitige, soggiornante allora in Ticino città, e dopo molto lacrimare da quinci e da quindi cominciano a dire: «È mestieri che noi tutti ravvisiamo in te la principale cagione delle sciagure sotto cui il nostro popolo ora geme. Imperciocchè da gran pezza avremmo balzato dal trono quel tuo zio materno, codardo e disgraziato principe, siccome avvenne a Teodato prole della sorella di Teuderico, se non fossimo stati rattenuti da rispetto verso il tuo valorosissimo animo, contenti che Vitige s’avesse il real nome, e fidando alla tua persona con assoluto potere la somma delle cose nostre. Ma ciò che in allora benignità sembrava dobbiamo al presente confessarlo manifesta pazzia ed origine della gottica rovina. Essendochè moltissimi ed i più valenti suoi duci, come tu stesso, Uraia ottimo, ben sai, caddero vittime del marziale furore, e se pur havenne tuttavia di bellissima fama in guerra tra’ rimasugli loro, eglino con Vitige e con tutti i tesori verranno a non dubitarne allontanati di qua per volere del condottier romano. Nè paventiamo censure asserendo che fin noi stessi, ridotti in brev’ora a ben pochi di numero e miserabilissimi, andremo ad incontrare l’egual sorte. Or dunque avviluppati da così gravi mali ne giova assai più di morire onestamente che non di vedere la prole e le donne trascinate da mano barbarica nelle estreme parti del mondo. Ma se tu stesso ti farai a duce delle nostre imprese viviamo certissimi di comportarci da prodi.» Non altrimenti favellavano i Gotti, ed Uraia pigliò a dir loro: «Sono con voi che nella presente malaugurata condizion nostra preferir dobbiamo la sorte della guerra ad una ignominiosa servitù; non di meno questo mio innalzamento al trono lo giudico affatto contrario all’universale di noi. Conciossiachè avendo io sortito i natali da una sorella di Vitige, principe sì disgraziato nelle imprese, porterei meco il dispregio de’ nemici, essendo volgare opinione che la ria sorte passi dagli uni negli altri affini. Di più l’occupare il regno dell’avo mi tornerebbe forse a colpa, e quindi alienerebbemi a diritto gli animi di molti tra voi. Laonde è mio divisamento che in tale estremo Ildibado ascenda il soglio, personaggio di sommo valore e di squisito ingegno; egli giusta ogni apparenza trarrà seco in lega, mercè della parentela, Taudin, suo zio materno e re de’ Visigotti, ed in allora potremo con maggior fiducia portar le armi nostre contro de’ Romani.»
II. Tutti i Gotti convennero ad una che Uraia così favellando nelle attuali circostanze avesse dato ottimamente in brocco. Laonde mandarono di fretta a Verona chiamando Ildibado, ed al suo arrivo, vestitolo di porpora e salutatolo re, lo pregarono che provvedesse alle tante loro sciagure. Ildibado, ottenuto siffattamente il regno, convocò poco di poi i Gotti, ed aringolli di questo modo: «Non posso ignorare, miei commilitoni, che tutti voi qui raccolti siate appieno ammaestrati dal lungo esercizio della guerra. Il perchè non impugneremo le armi precipitosamente; della perizia essendo l’infondere negli animi consiglio e prudenza, e il dar bando al temerario ardire. Or dunque è forza che voi tutti richiamando alla memoria le durate vicende sulle presenti deliberiate. Conciossiachè l’obblivione delle più remote geste, allorquando appunto erane minore il bisogno, esaltò alla spensierata gli animi di molti, ed a gran partito sedusseli in affari di altissima importanza. Vitige, il sapete, s’è messo in balìa de’ nemici senza incontrare opponimento o disapprovazione da voi, i quali avendo a que’ dì gli animi fiaccati dall’avversa fortuna, opinaste vie più vantaggioso il darvi per vinti, annighittendo nelle case vostre, a Belisario, che non cimentarvi nei pericoli della guerra; ma adesso che udite la sua partenza alla volta di Bizanzio vi date a macchinar novità. Su di che deve ognun di voi considerare nell’animo suo come non sempre riesca all’uomo condurre a buon termine le meditate imprese, anzi spesso in onta della nostra sentenza vediamo le cose piegare in modo affatto contrario ai precogitati divisamenti, solendo la fortuna ed il pentimento dar migliori consigli e d’improvviso condurli ad effetto; nè v’ha opposizione che ora tanto accader possa a Belisario. Così innanzi tutto vuol preferirsi il trattare seco lui per richiamarlo ai primi accordi; poscia sarem noi gli arbitri di quanto ne converrà, per lo miglior nostro, operare.»
III. I Gotti approvate le osservazioni messe in campo da Ildibado presto spedirono ambasciadori a Ravenna, i quali fattisi alla presenza di Belisario gli rammentano i già convenuti patti, lo rimproverano qual violatore delle giurate promesse, appongongli nome di volontario schiavo, d’uom che senza rossore preferisce il servaggio al regno, e dopo altre simiglianti invettive esortanlo a non ricusare la suprema dignità; nè paghi tuttavia procedono ad assicurarlo che lo stesso Ildibado verrebbe spontaneo a deporgli ai piedi la porpora ed a riconoscerlo, mercè l’adorazione, re dei Gotti e degli Italiani. Gli ambasciadori in simil guisa compievano lor mandata, certi che Belisario immediatamente accetterebbe il nome reale. Questi per lo contrario fuor d’ogni loro aspettazione protestò che non avrebbe unquemai, vivendo Giustiniano, usurpato un tal nome. Dopo sì energica risposta gli ambasciadori fattisi di subito indietro riferirono a Ildibado il colloquio avuto, e Belisario partì alla volta di Bizanzio, terminando col verno l’anno quinto di questa guerra da Procopio narrata.