Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXXIV
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXXIV.
La vittoria di Narsete torna fatale al senato ed al popolo romano. — Fellonia, crudeltà e stragi del gotto Ragnari — Teia vanamente implora l’aiuto de’ Franchi. Cuma e Centumcelle assediate dai Romani. Ambo gli eserciti metton piede nella Campania.
I. Di questo tempo ebbero gli uomini evidentissima pruova come le stesse cose tenute prosperitadi volgano a danno quando sien fatti segno della celeste vendetta; e dato pure che aggiungano, imprendendo, a venturosa meta, e sono tuttavia nel bello di lor fortuna e nella maggior certezza di sua lunga durata messi in fondo; non altramente la riportata vittoria incolse funestissima il senato ed il popolo romano, e passo a dirne. I fuggitivi Gotti, fuor d’ogni speranza di tornare al possesso dell’Italia, uccidevano alla rinfusa tutti i nemici cui avventavansi, ed i barbari militanti sotto gl’imperiali vessilli; entrando nimichevolmente nelle città non adoperavano d’altra maniera. Di più, alcuni dei molti individui spettanti al romano senato e da Totila per lo innanzi sbandeggiati nella Campania, all’annunzio che l’esercito imperiale avea occupato Roma, scioltisi dall’esilio vi si recarono di netto; alla qual nuova i barbari a dimora ne’ luoghi forti della regione corser là da per tutto in traccia di quelli rimasivi e dal primo all’ultimo, non escluso tampoco il Massimo da me ricordato negli antecedenti libri, ne fecero macello. In oltre, quando Totila mosse a battaglia contro Narsete ragunò i figli de’ patrizii e sceltine dal numero trecento, i più belli e forti della persona, tenneli seco per istatichi mentendo co’ loro genitori di volerli presso di sè come suoi paggi; mandati per tanto di là dal fiume Po, e rinvenutivi ora da Teia furono tutti per comandamento di lui messi a morte.
II. Di quel tempo il gottico Ragnari prefetto della guernigione tarentina, il quale ottenuto avea coll’imperiale consenso un salvocondotto da Pacurio1, come altrove ho narrato, dichiarandosi pronto a dare sè stesso e la città nelle mani degli imperiali e per arra della sua parola consegnando in ostaggio sei Gotti, quando intese eletto a re Teia, costui chiamare in aiuto i Franchi ed essere dispostissimo a proseguire la guerra contro l’impero opponendogli numerose truppe, cangiò consiglio, nè più volle sapere di attendere la promessa macchinando in vece nell’animo suo inganni, e bramosissimo di ricuperare gli statichi escogita la seguente frode. Manda pregando in suo nome Pacurio d’una scorta di truppa romana per trasferirsi con sicurezza maggiore ad Idrunte e da quivi, navigato il seno Ionico, pigliare la via di Bizanzio. L’altro per nulla in sospetto di lui spediscegli cinquanta militi, i quali non appena arrivati vengono introdotti e rinchiusi nel castello, e quindi riceve dal fellone l’annunzio che se brama riavere sua gente è uopo renda i gottici ostaggi; laonde, fidato Idrunte a un debole presidio, marcia col resto delle truppe a farne vendetta. Ragnari allora, morti senz’indugio i cinquanta, muove da Taranto per attaccare i vegnenti; fatta quindi battaglia e perdutavi la parte maggiore de’ militi fugge col resto nuovamente alle mura, ma chiusegli le porte ripara ad Acheronte dove rimane. Dopo breve tempo gli imperiali assediato Porto v’entrarono a patti; dell’egual modo s’ebbero nella Tuscia il castello detto Nepa e le munizioni di Petra Pertusa.
III. Teia poi giudicandosi meno forte di quanto voleavi per misurarsi da solo col romano esercito manda ambasceria e promessa di molto danaro al re de’ Franchi Teudeberto invitandolo a confederarsi seco nella presente guerra. Ma costoro studiosissimi, come io penso, de’ proprii vantaggi e di guerreggiare sciolti da ogni lega disdegnavano mettere a repentaglio la vita a pro de’ Romani o de’ Gotti, potendo eglino stessi conquistare l’Italia. Totila, come ho narrato, posto avea in serbo qualche parte del tesoro entro le mura di Ticino, il più tuttavia di esso era guardato in Cuma guernitissimo castello della Campania, il cui presidio obbediva a suo fratello e ad Erodiano. Narsete adunque fermo nel proposito di combattere quel forte invia truppe ad assediarlo, trattenendosi egli in Roma per ordinarvi la repubblica. Commette in pari tempo ad altri militi la espugnazione di Centumcelle. Teia pertanto nella tema non avvenissero sinistri alla cumana guernigione ed al tesoro, nè più sperando negli aiuti dei Franchi si partì colle sue genti quasi avesse in animo di far giornata col nemico. Ma Narsete, scoperto l’inganno, spediscegli contro nella Tuscia Giovanni nipote di Vitaliano e Filemut colle truppe loro, onde impeditogli, quivi stanziati, di procedere nella Campania, agevolassero la caduta di quelle mura o coll’espugnazione o col mettervi gli assediati nella necessità d’implorare mercede. Se non che il re, nulla curando i brevissimi sentieri alla sua destra, con molte e lunghissime giravolte e quindi per la marina del seno Ionico ebbe mezzo di compiere i proprj divisamenti senza darne il menomo sospetto ai nemici. Narsete allora, fattone consapevole, richiama Giovanni e Filemut, cui fidato avea il passo nella Tuscia, e con essi le truppe di Valeriano testè insignoritesi di Petra Pertusa. Di tal modo riunite sue forze muove alla volta della Campania con tutto l’esercito, dispostissimo a sperimentarvi la sorte delle armi.
Note
- ↑ Prefetto d’Idrunte.