Istoria delle guerre gottiche/Libro primo/Capo XXVII

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CAPO XXVII.

Il duce imperiale riceve nuove truppe: stanca il nemico a forza di combattimenti, e tre fiate lo vince. — Imitato indarno da Vitige. Truppe gottiche in che discrepanti dalle romane.

I. I Gotti non altrimenti operarono correndo il dì terzo dalla tentata invano espugnazione delle mura. Dopo venti giorni ch’eran costoro al possesso del porto [p. 127 modifica]e della città pur ella nomata Porto, capitarono a Roma Valentiniano e Martino alla testa di mille e cinquecento cavalieri, Unni il più, Sclabini ed Antii, originari del paese di là dal fiume Istro, ma non lunge dalla ripa. Belisario confortato in suo cuore di tale venuta divisò affaticare con ischermaglie continue il nemico, al quale effetto nel dì appresso ordina ad una sua lancia, Traiano di nome e nell’oprare coraggioso e indefesso, di farsi con dugento pavesai per diritto alla volta de’ barbari, e avvicinatine i campi di preoccupare un poggetto da lui indicato ove si rimarrebbero chetamente; di più qualora il Gotto assalisseli Traiano impedirebbe ai suoi il combattere da vicino ed il porre mano alla spada o all’asta; e’ piglino in cambio a trarre d'arco, ed esaurito il saettamento voltino pur gli omeri senza arrossirne, riparando alle mura: terminato così il comando fe’ approntare le baliste ed il servizio loro; l’altro co’ suoi dugento uscito della porta Salaria si diresse verso il campo nemico. I barbari sorpresi da questa improvvisa comparsa piglian tutti di proprio volere la difesa e gittansi fuori degli steccati. Il drappello di Traiano in quella, di su la prominenza indicatagli da Belisario, cominciò a molestarli con frecce, le quali avventate nel mezzo di folta gente davano tutte in brocco, ferivano ciò è o cavaliere o cavallo: i Romani, vuotati i turcassi, allentando le briglie spronarono i destrieri alla ritirata, co’ Gotti mai sempre alle calcagna. Accostatosi poi il combattimento alle mura e da quivi dato mano alle baliste, il nemico sopraffatto dallo spavento s’arresta, avendo perduto nel conflitto, giusta le riferte, [p. 128 modifica]non meno di mille guerrieri la vita. Di là a pochi giorni il condottiero mandò fuori Mundila pretoriano e Diogene, valentissimi entrambi nella guerra, con trecento pavesai per compiere altro simigliantissimo badalucco; ed il nemico venuto ad incontrarli mentre eseguiva gli ordini avuti toccò nella stessa guisa di prima un rovescio ben anche maggiore. Spediti finalmente una terza volta trecento cavalieri col duce Oila pretoriano all’uopo di ripetere l’egual faccenda, ebbero pur questi non meno propizia la fortuna. In tre scorribande pertanto, come scrivea, Belisario fe’ mordere il suolo a ben quattro mila Gotti.

II. Ora Vitige non considerando avervi nel condurre gli eserciti due che molto differenti, il dar di piglio alle armi ed il valersene con prudenza ne’ combattimenti, si pensò poter anch’egli di leggieri mettere a soqquadro il nemico se con piccola mano di gente andasse ad investirlo. Il perchè ingiugne a cinquecento cavalieri di appressar le mura, e fare a tutto l’esercito di Belisario l’eguale accoglienza che aveanne già eglino stessi replicatamente ricevuta. E quelli pervenuti sopra un’altura non lunge da Roma gran tratto più d’un tiro d’arco stettervi a bada. Ma il duce imperiale spedisce lor contro mille scelti guerrieri con Bessa, i quali sorprendendoli scaltramente da tergo e con un nembo continuo di dardi uccidendone molti costringono valorosamente gli altri a sloggiare di là e a discendere al piano, dove appiccatasi ostinata pugna la maggior parte de’ Gotti vi giuntò la vita, ed i pochi superstiti al tornare ne’ campi il re accoglievali con forti rabbuffi quasi fossero stati [p. 129 modifica]vinti per colpa della infingardaggine loro, e dichiarava insieme che nel dì venturo col valore di nuovi combattenti risarcirebbonsi i danni sofferti; nulla tuttavia fu impreso la dimane. Trascorso il terzo giorno animò altri cinquecento barbari, assortiti da tutti i suoi campi, a far contro il nemico azioni da prodi; se non che Belisario, non appena vedutili in qualche vicinanza, mandò a combatterli Martino e Valeriano alla testa di mille e cinquecento cavalieri, i quali appiccata all’istante una equestre fazione, poichè grandemente superiori nel numero, mettonli a bell’agio in fuga, e seguendone le peste danno per poco a tutti morte.

III. I Gotti attribuivano pienamente ad avversa fortuna quell’essere, avvegnachè in sì gran quantità raccolti, mai sempre vinti dall’impeto di pochi Romani, e quel farsi di loro carnificina eziandio quando in picciol novero procedevan contr’essi. Gl’imperiali in cambio a diritto volgendo gli sguardi verso Belisario encomiavanne la prudenza con pubbliche lodi. Ora i famigliari suoi richiedevanlo su di quale congettura nel giorno che fugò, come dicevamo, i debellati nemici avesse concepito speranza di riportare vittoria colla forza? E’ rispose, che sin dalla prima zuffa, cui erasi accinto con pochissima soldatesca, avea conosciuto la differenza posta tra’ due eserciti; di qualità che al succedere delle battaglie, data pure da quinci e da quindi parità di forze, la scarsezza de’ suoi non avrebbe sofferto danno alcuno dalla nemica turba; passarvi in fine la discrepanza tra le due parti, che quasi tutti i [p. 130 modifica]Romani, gli Unni ed i confederati loro sono valentissimi arcieri a cavallo, del quale esercizio giammai occupossi Gotto veruno, addestrando questi i cavalieri a maneggiare le sole aste e spade, e gli arcadori a combattere pedestri e protetti dagli ordini delle truppe di grave armatura. Ove pertanto i primi non guerreggiano a brevissimo intervallo, per mancanza d’armi quali attaglierebbonsi contro nemici saettatori, cadono a bell’agio feriti; nè i fanti possono comunque dirla con essi; volersi quindi a ciò riferire la vittoria nelle precedenti scherminaglie ottenuta dai Romani. I barbari poi ravvolgendo negli animi loro così inopinati destini cessarono dal molestare le assediate mura con piccoli corpi, nè assaliti dal nemico incalzavanlo più di quanto fosse necessario per allontanarlo dai proprii steccati.